Il club del lettore: Guerriero, «La chiamata»

di Davide Orecchio
Diceva il saggio: “I refuse to join any club that would have me as a member”. Ma questo club di lettura ha un solo membro, e mi tocca accettarlo. È lui a dettare le regole riguardo la scelta dei libri dei quali brevemente e intempestivamente (una volta al mese… una volta all’anno…) parlare; e non è detto che siano freschi di stampa.

Non è per niente semplice scrivere qualcosa di nuovo sulla guerra sporca argentina (1976-1983). Leila Guerriero con La llamada (La chiamata, Sur 2025, traduzione di Maria Nicola, già recensito qui su Nazione Indiana da Gianluca Veltri) l’ha fatto in un volume interminabile e denso come le vite e le storie che racconta. Interminabile eppure, leggendolo, si desidera che non finisca.
La storia ruota attorno a una protagonista, Silvia Labayru, giovane militante montonera catturata e imprigionata nell’Esma a 20 anni. Lì dentro partorirà una figlia, sarà torturata, violentata, sarà ripetutamente usata come oggetto sessuale dai militari e persino dalla moglie di uno di loro. Sopravviverà e, una volta fuori, subirà uno stigma quasi trentennale, “colpevole” in fondo solo di non essere morta, e accusata di avere collaborato con i militari.
Labayru era una ragazza bellissima: forse questo l’ha salvata. O forse la salvò la sua estrazione sociale e culturale: borghese, figlia di un militare, colta, adatta quindi a essere inserita nel progetto di “recupero” che gli uomini di Massera concessero a poche centinaia di detenuti invece di assassinarli.
La chiamata è però una narrazione di alto giornalismo che sarebbe fuorviante ridurre a testo sugli anni della dittatura. È molto di più perché racconta la vita di Labayru fino a oggi, e tutte le vite che del suo mondo fanno o hanno fatto parte (compagne e compagni, carnefici, parenti, amanti, mariti, amiche…) grazie a una costellazione di interviste e allo studio accurato dei materiali di archivio.
Ha spiegato l’autrice in un’intervista al Fatto Quotidiano: “Sin dall’inizio sapevo che non sarebbe stato un libro sugli anni Settanta e sulla reclusione di Silvia nella Scuola di meccanica della marina, ma il ritratto di una persona. Una donna con contraddizioni, con luci e ombre, complessa. Tutto quello che mi raccontava sulla sua vita dopo la Esma, mi risultava estremamente magnetico”.
Le interviste sono durate quasi due anni. Sono scrupolose e spesso misteriose. Sembrano sedute di psicoterapia. Ci si muove tra Argentina e Spagna (terra di esilio, quindi seconda patria per molti anni), e tra passato e presente. Si ha spesso l’impressione di scoprire gradualmente il ritratto di più donne in una. La giovane militante, la prigioniera, l’esule, la donna che oggi parla e ha sempre una posizione “laica” sul passato. Nessuna nostalgia o idealizzazione, in Silvia Labayru. Anzi una forte e inconsueta autocritica rispetto alla militanza e alla violenza politica degli anni Settanta.
In fondo lo si legge accanitamente soprattutto per questo, La chiamata: c’è una persona/personaggio enigmatica, ripetutamente inseguita dal resoconto, dalle parole, dalla ricerca di una verità sempre veloce e sfuggente, quindi mai raggiunta appieno.
Forse di verità, per il lettore, alla fine ne restano solo due. Quei poco meno di due anni passati dentro l’Esma da Silvia Labayru sono una tempesta magnetica/biografica che, oltre a lasciare cicatrici fisiche e morali, ha creato una vita perpetuamente inquieta e oscillante, un destino di bussole impazzite nonostante le “cose salde”: mariti, figli, amiche e amici, lavoro. E poi: Silvia Labayru è stata una vittima, nient’altro che una vittima.
Durante la prigionia (con alcune possibilità di uscire dall’Esma, anche questo è un aspetto originale del resoconto) Labayru fu costretta ad assumere l’identità fittizia della sorella di Alfredo Astiz, ufficiale della Marina infiltrato nel gruppo delle Madres de Plaza de Mayo, prendendo parte a un’operazione repressiva che si sarebbe conclusa con la sparizione di tre madri e di due suore francesi. Questo non le è stato mai perdonato. Il tema del tradimento, della collaborazione. Ma il vero tema era un altro: il sequestro, la violenza, la minaccia, il ricatto (Labayru aveva una bambina da difendere, una famiglia, non era libera).
Il rifiuto è durato decadi, e ha iniziato a incrinarsi solo dopo che, all’inizio degli anni Dieci, Labayru ha portato in tribunale i suoi violentatori, e ne ha ottenuto la condanna. A proposito del “rifiuto”, Guerriero osserva (sempre nell’intervista al Fatto): “Chi l’ha subito, racconta sempre la stessa cosa: oltre alle torture e alle violenze, ha dovuto affrontare il silenzio, lo stigma e l’allontanamento da parte dei propri compagni. Era una doppia punizione: una imposta dalla dittatura e un’altra inflitta dal proprio ambiente. Nel caso di Silvia, è stato più duro. Molti la guardavano con sospetto, come se fosse stata una collaboratrice ma ovviamente non lo è stata. Era una vittima come tutte le altre, solo che le era toccato in sorte qualcosa di ancora più perverso”.
La chiamata è un libro prezioso perché dà voce a chi c’è ancora. I morti non possono parlare. I vivi sì. La loro testimonianza è inestimabile.
Letture correlate:
Marta Dillon, Aparecida, trad. Camilla Cattarulla, Gran vía 2021.
M.Actis, C. Aldini, L. Gardella, M. Lewin, E. Tokar, Le reaparecide, trad. Fiamma Lolli, Stampa Alternativa 2005.
