di Giordano Meacci
Quello che sta accadendo in questi giorni (il lutto, il pianto, la glorificazione dei carabinieri ‘caduti per la patria nel nostro 11 settembre’, i due civili – che parte della stampa ritiene doveroso considerare quasi-soldati: come se, altrimenti, si perdesse un po’ il senso dello schema complessivo – aggiunti al lutto nazionale insieme con i ‘combattenti per la pace’)è in qualche modo legato con la retorica classica rivisitata, la demagogia, Bertolt Brecht (non solo per il grottesco che la tragedia, suo malgrado, si è vista appioppare dai vertici dello Stato) e l’ultimo incontro tra Osvaldo Soriano e Marcello Mastroianni.

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Si fa presto a dire che non è come per le Torri Gemelle, che questo attentato ha avuto luogo sul territorio iracheno, mentre quell’altro nel cuore di una New York pacifica ed operosa, che i morti sono stati venti e non più di duemila, che erano soldati e non civili. Queste considerazioni vengono meno tuttavia, quando si constata l’apparenza che le immagini televisive ci rimandano: un buco c’è stato, un cratere piuttosto vasto intorno al quale le costruzioni sventrate non consentivano allo sguardo di divagare verso nessuna direzione immaginaria. La domanda più propria diventa pertanto: cosa fa l’Italia quando entra in contatto col Reale, quando cade il suo velo immaginario?




Il padre stava accanto alla madre, nella stanza in penombra. Non c’erano finestre. C’era solo una porta di vetro, ma era oscurata da una tenda, o da un pannello di cartone, così su tutto calava un colore verde, scuro ma trasparente. Anche sul padre e sulla madre.
Volevo aspettare che trascorressero i giorni del lutto nazionale per pubblicare questo articolo di Marco Senaldi, scritto in tutt’altra situazione, e per una destinazione completamente diversa: una rivista che si occupa di confezioni, packaging, consumi, merci.
Bisogna andare lontano dall’Italia per vedere l’Italia. O anche solo essere un po’ dislocati all’interno del suo territorio, su una delle sue isole, per esempio. Qualche anno fa, a Favignana, nel tardo pomeriggio raggiungevo con una vecchia bicicletta noleggiata una scogliera dietro il piccolo cimitero dell’isola. Mi sedevo là sopra e ci restavo fino a perdere la nozione del tempo, guardando la lontana costa della Sicilia. Qualcuno mi aveva detto – o forse me lo ero soltanto immaginato – che quella che si vedeva da quel punto era la parte di costa siciliana su cui, un secolo e mezzo prima, erano sbarcati i mille di Garibaldi, che proprio lì c’era stato il primo impatto con l’esercito dei Borboni. A Marsala, poi a Calatafimi. Una battaglia difficile, dall’esito a lungo incerto, perché i soldati erano in alto e sparavano da lassù sui garibaldini che dovevano guadagnarsi palmo a palmo la salita tra i corpi di quelli che cadevano sotto i colpi. Eppure continuavano a salire. Non si fermavano, non si arrendevano, anzi contrattaccavano alla baionetta, anche se la sproporzione militare era enorme e l’impresa poteva apparire disperata. Finché sono riusciti ad arrivare in cima e, per il solo fatto di aver saputo reggere quel primo scontro e di essere arrivati in cima, sono poi riusciti a liberare o a conquistare metà dell’Italia.