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Cotton Avenue

Joni e Jaco

di Gianluca Veltri

La prima volta che metti sul piatto Don Juan’s reckless daughter di Joni Mitchell rimani esterrefatto, impaurito per esserti spinto troppo in là. Da dove arrivano quei suoni?
Cosa conteneva quel disco inciso nel 1977 di così meraviglioso e sconcertante? Quali segreti misterici cercava di comunicare? Era nervoso e poetico, l’uno e l’altro all’ennesima potenza. La chitarra di Joni era ancora più stupefacente del solito, all’apice di un’ingegnosa ricercatezza, traboccava di intervalli armonici sferzanti, pieni di sospensione, di continui intervalli di seconda, i più irrisolti. Le voci stracciavano l’aria in mille frammenti. L’effetto era di grande inquietudine e di spaventosa profondità, come un ottovolante che si addentra nelle viscere della terra.
E poi c’era Jaco. Jaco Pastorius.
Quando senti Jaco ti tiri i pizzicotti sulla faccia, per chiederti se è tutto vero. È un’assoluta sorpresa per le facoltà percettive. E ti dici quanto quel ragazzo di Fort Lauderdale col fascione sui capelli doveva amare quella donna, per ergerle intorno una fortezza protettiva di suoni esagerati e possenti, per regalarle quelle note, quei grappoli di armonici scampanellanti. Ma anche quanto doveva amare te, per regalarle anche a te, quelle note. Chi ero io per meritare tutto questo? Non ero preparato.

Dieci anni dopo aver suonato nel disco di Cotton Avenue, Jaco sarebbe morto, ammazzato di botte da un buttafuori. Dieci anni dopo, nel 1987, ossia venti anni fa. Non era più una via di cotone, la sua, ma una strada appuntita e vetri e chiodi.
Jaco proteggeva Joni, il basso sosteneva la chitarra, creava per lei un tappeto di nodi fioriti da cui era impossibile cadere giù. Joni stendeva le sue corde piene di nervi e genio, ogni canzone un’accordatura diversa alla chitarra. E sotto c’era Jaco, le sue affettuose risposte, le sottolineature commoventi e autorevoli, prepotenti. L’invadenza della sua presenza. Accordi traboccanti di note come lettere d’amore. Il suo sheltering bass. Una gara a chi fa la trovata migliore, senza risparmi. Lei fa finta di fuggire, lui la raggiunge sempre e la avvolge.
Jaco Pastorius suonò il suo basso eccessivo e imponente in quattro album di Joni Mitchell, dal 1976 al 1979: Hejira, Don Juan, Mingus e il live Shadows and Light. Chi non conosce questi dischi è baciato dalla fortuna: ha davanti a sé, e non dietro, una delle scoperte più belle e incredibili che gli possano capitare.

Jaco Pastorius aveva un ego smisurato, ma anche un grande amore per la vita. E una fragilità che poco alla volta gli frantumava un pezzetto di se stesso.
Nel periodo in cui divise un tratto di strada con Joni Mitchell, Jaco era al suo apogeo: era il bassista dei Weather Report, ci rimase dal 1976 fino al 1982. Dunque, quando realizzò insieme a Joni Mitchell Don Juan’s reckless daughter, nel 1977, a 26 anni, era proprio al centro della sua pienezza creativa e al culmine dell’energia.
Jaco si presentava in scena come un pellerossa, con una fascia sui capelli lunghissimi, scalzo, trattando il basso come Jimi Hendrix trattava la chitarra, un simulacro fatto oggetto di riti e di esorcismi. Faceva cospargere il palco di borotalco e pattinava a piedi nudi sul palco. Esprimeva con i suoni del suo strumento un’allusività melodica e poetica senza precedenti per un bassista.
Aveva trasferito sulla tastiera del basso fretless un’intera sezione fiati.
Ma proprio in quegli anni Jaco, forse vittima delle pressioni intorno a lui, si stava perdendo. Aveva cominciato a bere e a farsi di coca. Il suo comportamento era sempre più imprevedibile: alternava fasi di esaltazione irrefrenabile in cui restava sveglio per tre giorni, a momenti di sconforto e di pianto, nei quali non gli avanzava un grammo di forza. Le sue famiglie – due ex-mogli, quattro figli – gli ricordavano i rimorsi e gli errori commessi.
Gli fu diagnosticato un disturbo mentale di tipo maniaco-depressivo.

All’epoca di Don Juan Jaco teneva ancora sotto controllo i suoi demoni. Quasi tutti i pezzi del disco sono figli di un intreccio tra chitarra e basso, entrambi ai loro massimi vertici di inventività. La chitarra di Joni lì non è quasi mai autosufficiente, ha bisogno di un vischio armonico protettivo che solo Jaco sa darle. Mai Joni si era affidata tanto a qualcun altro. Si fidò ciecamente del talento di Fort Lauderdale. La title-track del disco, Don Juan’s Reckless Daughter, è fatta di cristalli che tintinnano, campanelli e campanacci liquidi, è un rullo compressore dal groove che ancheggia gioioso. Jaco s’inventa un basso a fionda, che scaglia il verso più lontano possibile a ogni quarto. In Talk To Me invece il basso canta, letteralmente. Tanto che riprodurre la melodia, canticchiarla, significa rifare la parte di basso, mica quella della voce: Jaco è un giaciglio di cuscini in cui si accomoda la chitarra di Joni, in un soffice mare morbido.
Jericho è il capolavoro del disco, i suoi attimi di sospensione baciati dalla passione, il suo languore preoccupato. La chitarra si arrampica su intervalli impossibili, il basso irrompe e rimbomba come le trombe che fanno cadere le mura della città biblica. Se dici basso, se lo dici senza ascoltarlo, non puoi capire di cosa si parla quando si parla di Pastorius.

Uscito dai Weather Report, Jaco continuò a suonare con alterne fortune, ma più basse che alte. Sempre più basse, fino a ridursi a una sorta di barbone. La sua fragilità divenne priva di freni, proprio lui che era stato la protezione sicura, lo steccato a prova di caduta per i suoni degli altri. Non c’era nessuno che lo proteggesse da se stesso.
Sono innumerevoli e tristi gli episodi della fase finale della sua vita: provocare i passanti abbassandosi i pantaloni, maltrattare il pubblico, correre nudo sulle montagne, raccontare frottole agli amici, attaccare briga. Conobbe il carcere, gli misero la camicia di forza. Che trottola incoerente era diventata la sua vita.

Off Night Backstreet, sul finire di Don Juan, ci regala degli spettacolari armonici di basso a ogni chiusura di strofa. Jaco era il re degli armonici: sapeva trasformare il manico del basso in una scatola magica, ne tirava fuori rotoli lirici di suoni ingombranti e ambigui, pastosi, subliminali. Quelli di Off Night Backstreet sono tra i più belli e allusivi armonici che abbia mai coniato: quelle cascate si sovrappongono a tutti gli altri strumenti, creano una barriera, un muro psicanalitico di sbigottimento.

Nell’estate del 1986 Jaco viveva ormai in un furgone, suonava con il chitarrista gitano Bireli Lagrene o nei campetti di basket e di baseball (a volte ancora da Dio!), cercando la compagnia dei diseredati e dei senzatetto. Non gli basterà la vicinanza dei pochi amici, che tentarono tutto il poco che poterono. Tra gli questi, oltre al batterista Peter Erskine, anche l’autore della sua biografia, Bill Milkowski, che oggi si addolora per non aver potuto fare di più.
Nel 1986 Jaco si avvicinava inesorabilmente verso la fine.
Sempre più spesso lo si vedeva vagare come un cane ferito, i denti guasti e un occhio pesto, malvestito. Questo era diventato il meraviglioso mago degli armonici.

L’Overture di Don Juan, seguita da Cotton Avenue, è eseguita da Joni Mitchell con un’accordatura chitarristica inusuale per lei. Suonata a vuoto (ossia senza prendere posizioni con la mano sinistra) sa di Old West al crepuscolo, di corsa all’oro, di un New Mexico rossastro. Ma la scaltra e geniale chitarrista, a vuoto non la suona mai, per non rendere riconoscibile l’accordatura, per non svelare troppo il mood armonico del pezzo, che avanza strascicato e fumoso, affascinante e sfuggente, la batteria spazzolata di John Guerin. E il basso di Jaco, che è come una sezione di fiati, tale è la ricchezza debordante del range timbrico.

Dieci anni dopo quei glissati divini, la notte tra l’11 e il 12 settembre del 1987, Jaco pretende di entrare per forza in un bar malfamato alla periferia di Fort Lauderdale, la sua città, in Florida. Inizia a litigare con il buttafuori del locale, tale Luc Havan, esperto di arti marziali. Jaco al solito provoca, non sa mai quando è il momento di fermarsi. Le prende, brutte. Finisce con la testa fratturata, in una pozza di sangue, sotto i colpi di karate dell’energumeno. Aveva fatto incazzare il tipo sbagliato. Un anonimo mastrolindo fa a pezzi un genio.
Dieci giorni dopo, il bassista cessa di vivere: la famiglia ha deciso di staccare i macchinari che lo tenevano ancora appeso a un mondo nel quale Jaco non sapeva più vivere. Ironicamente, il suo cuore continuerà a battere ancora per tre ore, dopo che la spina viene staccata. Il padre commentò con ammirevole humour: “Sapevo che Jaco aveva un buon ritmo, ma questo è troppo!”.
Un talento irripetibile si spegneva.
Il suo biografo Bill Milkowski, autore del libro La straordinaria e tragica vita del più grande bassista del mondo (edito in Italia da Stampa Alternativa), sostiene che proprio quell’ipersensibilità che ha sgretolato Jaco, con il carico di autodistruzione e cupio dissolvi, era la faccia di quella stessa medaglia che dall’altro lato conteneva la sua straordinaria ricettività, l’eccesso creativo e la vitalità, quel talento visionario inedito e insonne.
Come dire: senza una deriva così estrema e dolorosa, forse non avremmo neanche avuto quei suoni meravigliosi.

A Joni & Jaco sarebbero bastate tre canzoni per rimanere immortali, lui, lei, loro. Cotton Avenue, Talk to me, Jericho. Stop. Quel ch’era la prima facciata del vinile (doppio) di Don Juan’s reckless daughter. Neanche un quarto d’ora. Troppa grazia.

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15 Commenti

  1. Di Joni ricorderò sempre la voce melodiosa,
    la calda atmosfera che creava nella stanza,
    suono e voce misticamente uniti,
    e la sua bocca così ben delineata
    su quella copertina un pò sgualcita,
    le sere d’estate di tanti anni fa.

  2. fra i tanti disponibili, per commentare ho scelto questo:

    https://youtube.com/watch?v=wJ1Y2W2zFE4

    forse (anche) per la sua pessima qualità, vi si vede un jaco un po’ fantasmatico, evanescente, non del tutto di questo mondo. mi sembra renda l’idea di che meteora – in senso proprio – sia stato questo musicista. non altrettanto bene di questo bel pezzo, per il quale ringrazio autore e postatore.

  3. grazie per il bellissimo pezzo – squarcio di vita e recensione che consiglia con dolcezza (un consiglio che seguirò di sicuro). La tragica parabola di Pastorius mi ha ricordato quella di un altro grandissimo, Gil Scott Heron, anche lui ridotto a vagare come homeless per la strade della sua città, dimenticato da tutti – soprattutto da quelle stelle dell’hip-hop che ha contribuito a creare.

  4. grandissima musica
    proprio ieri ascoltavo una vecchissima canzone di Joni Mitchell (circle game) ed una dei Weather report (black market) devo assolutamente trovare il live
    Shadows and Light, che avevo su vinile e che fu per me uno shock emozionale (lo stesso per capirci del duo Panella Battisti). Perchè non te lo aspettavi proprio un suono così, perchè quando Paolo Conte dice, le donne odiavano il jazz, sa di mentire…
    effeffe

  5. quando Gianluca Veltri mi ha spedito questo bellissimo pezzo io stavo ascoltando proprio Shadows and Light. Se non è sincronicità questa…

  6. la pazienza mai troppa Gianni!

    ma per sentire il magico pezzo cliccare con il destro copiare indirizzo incollare in altra finestra altrimenti si viene indirizzati in vicolo chiuso.
    Vale la pena.

  7. Allora la sincronicità qui è patologica, perché nel momento in cui ho aperto la pagina di Nazione Indiana stavo ascoltando “The last time i saw Richard” da “Blue”, di Joni Mitchell.
    Comunque: splendido il post.

  8. Bellissimo articolo, e poi c’è Iaco, non ci crederete, ma ieri mi sono risentito due volte 8:30, il magnifico, storico live dei WR.
    Bravo Veltri, è originale e pieno di forza il tuo modo di raccontare un disco, una collaborazione, e la fine di un artista immenso come Iaco.

  9. nel bellissimo dvd shadows and light si vede come la signora che si era innamorata di un coyote fosse protettiva e quasi materna nei confronti di mr. pastorius, memore del fatto che, come dice in Hejira, ‘tutti veniamo ed andiamo sconosciuti, ognuno così profondo e così superficiale, tra il forcipe e la tomba’.

  10. E’ bello questo articolo, mi è venuta voglia di colmare questo vuoto che ho nella mia formazione musicale. Certo conoscevo il nome di Jaco Pastorius, ma non l’ho mai ascoltato. E dalle tue parole ora so quale fortuna ho a poterlo scoprire.

    La linea della sua vita, spezzata da una sorta di autodistruzione, mi richiama tutte quelle dei geni in qualche modo troppo eccezionali per stare a lungo a questo mondo.

    Ciao.

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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