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Contusions everywhere!

di Tiziano Scarpa

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SSX3 è un videogioco per la Playstation. Si sceglie un concorrente e si partecipa alle gare di discesa sulla neve. Non si usano gli sci ma la tavola, lo snowboard.
Niccolò Ammaniti e io sceglievamo Viggo, uno spilungone allampanato, vestito con una palandrana. Gli altri concorrenti hanno tutine aerodinamiche, ginocchiere e copriorecchi alla moda. Grintosi, incazzati, vogliono soltanto arrivare primi, portare a casa il premio in dollari. A Viggo invece si vede che gli piacciono tante altre cose nella vita. Si butta giù in snowboard giusto perché ha nevicato.

I personaggi di SSX3 non stanno zitti. Si insultano, si prendono per il culo nei sorpassi, minacciano vendetta quando qualcuno li butta a terra con uno spintone. Commentano i propri errori, si complimentano con se stessi. Ognuno ha il suo linguaggio inconfondibile. Viggo è il più colorito. La frase che preferivamo Niccolò e io era “Contusions everywhere!” Quando giocavamo male, e lo facevamo sbattere contro un tronco nel bosco o atterrare di faccia contro una roccia, al terzo o quarto capitombolo il grande Viggo protestava così: “Contusions everywhere! “.

La nostra gara prediletta era Snow Jam. È la più semplice fra le discese di SSX3. Le altre gare si svolgono su piste più ripide, e offrono moltissimi itinerari alternativi, cunicoli nascosti, scorciatoie che si scoprono per caso. Metro City è una città ricoperta da tanta neve, puoi saltare su un cavalcavia o sdrucciolare sopra i fili del tram, svicolando dietro un angolino inaspettato. Così però ogni discesa è diversa dall’altra: si scende talmente a rotta di collo che, la volta dopo, è impossibile rifare la stessa strada. In Gravitude ti getti da un picco altissimo: è il crepuscolo, il vento è gelido, attraversi una tormenta, non riesci a controllare i balzi, ti ritrovi in una grotta di ghiaccio, salti un ponte un attimo prima che crolli, precipiti da uno strapiombo all’altro. Più che scendere, cadi. Hai la sensazione di essere in balia del destino sotto forma di forza di gravità, sei diventato puro peso. Nella vita non si può far altro che limitare i danni. Arrivare al traguardo con un’unica strategia: non sfracellarsi troppo. Lividi dappertutto. Contusions everywhere.

Niccolò e io preferivamo Snow Jam, perché è la gara più tecnica, la meno casuale. La pendenza è meno ripida, i bivi non sono molti, e dopo poche discese si capisce qual è la strada più conveniente per migliorare il record. In un paio di mesi, siamo riusciti a scendere sotto i due minuti e quindici. Da veri fanatici, abbiamo controllato in rete: siamo dentro i migliori dieci tempi. Niccolò è immensamente più bravo di me, lui riesce a fare Metro City e Gravitude decidendo dove vuole andare. Io frano giù. Nei duelli a due mi batteva dandomi cinquanta secondi di distacco, a volte più di un minuto. Secondo me è perché è mancino, e sulla Playstation il pollice della mano sinistra fa la cosa più importante, manovra il funghetto che pilota il concorrente. Ma è una consolazione che mi racconto per non sentirmi un incapace.

In rete ci sono istruzioni che ti spiegano come fare la gara perfetta. Il gesto perfetto. La linea di discesa senza sbavature; i trucchi, le scorciatoie. Snow Jam è la frase perfetta. La dici, la ridici, la fai, la rifai, la scrivi, la riscrivi, finché ottieni la frase perfetta. La poesia perfetta. Il racconto perfetto.

Niccolò a casa ha la Playstation, io no. L’ho guardato giocare, e ho giocato con lui, a Prince of Persia, a The Fall of Max Payne e ad altri videogiochi narrativi. Io non lo sapevo che esistono questi videogiochi che sono come film. La storia però non la paghi con il biglietto: te la devi guadagnare. La vinci giocando. Per esempio, inizia così: c’è una sequenza che si guarda come normali spettatori, passivamente. Il protagonista è braccato. Lo vogliono uccidere. Sai che sta per arrivare un assassino. Bene, il film ti ha informato. Adesso tocca a te. Inizia il gioco vero. Devi cercarti un’arma manovrando funghetti e tasti del piccolo manubrio di plastica della Playstation. Devi nasconderti e agire al momento giusto. Se muori, una voce fuori campo ti dice: “No, non è andata così. Non sono mica morto”. Allora devi riprovare, finché ce la fai a far succedere le cose così come sono andate. Ti accodi in prima persona al destino del personaggio. Ti viene affidata, in delega, la storia di un altro nei suoi momenti cruciali. La paura di morire devi averla tu. Hai la responsabilità di portare avanti il percorso della sua vita, facendolo arrivare a destinazione. Come ci arrivi è importante fino a un certo punto. Puoi uccidere i nemici sparandogli in testa, anche se forse non è andata così; forse il protagonista li aveva sgozzati con un coltello. Quando la missione è compiuta, ricomincia il film: la sequenza procede da sola, i personaggi non rispondono più ai tasti e ai funghetti, la narrazione riprende, ti sei guadagnato altri cinque minuti di racconto.

Io non ho la Playstation, ero abituato ad altri pupazzi. L’altro giorno passeggiavo per Venezia. Vicino alla chiesa dei Frari c’è una Madonna di legno appesa al muro, al primo piano di una casa. Da poco l’hanno restaurata, adesso è protetta da una specie di tubo trasparente. Tiene in braccio il bambino Gesù. Con i piedi schiaccia un diavoletto rosso. Anche il diavolo è un bambino. È da quarant’anni che li vedo, quei tre pupazzi. Ma questa volta sono rimasto sbalordito: “Per ogni bambino che nasce, ce n’è un altro che muore. Ogni madre fa un figlio doppio, vezzeggia un bambino e ne schiaccia un altro sotto i piedi. Ogni bambino ha un gemello infero che viene condannato a morte dalla stessa mammina che accudisce e ricopre di carezze il gemello fortunato. Per ogni bambino che se ne sta al calduccio in grembo alla sua mamma, un altro soffoca sotto i piedi di quella stessa donna, che gli schiaccia la gola. Ogni bambino sa di essere se stesso e anche il gemello diabolico, che la madre odia con tutto il cuore. Ogni madre mette al mondo la vita ma anche la morte dei suoi figli.” Questa cosa l’ho detta per rispondere a uno scrittore un po’ invidioso, che mi aveva chiesto: “Ma insomma, che cosa ci sarà mai di così importante dentro il libro di Ammaniti? Cos’è che è piaciuto così tanto, quale corda universale avrà toccato nei lettori di tutto il mondo?”

Io sono una specie di pentola a pressione sforacchiata da due o tre valvole. Quando mi viene un pensiero, quando il mio animo è infervorato da un conflitto o tormentato da una gioia che io sento la necessità di esprimere, a volte lo sfiato con una poesiola, a volte con un raccontino, a volte con un articolo. La maggior parte delle volte mi escono delle scoregge un po’ loffie. Niccolò di valvole ne ha una potentissima. È la sua valvola narrativa. Il getto che gli esce da quella valvola ha una potenza terrificante, è una compressione di centomila atmosfere che buca qualsiasi parete di roccia, scioglie l’acciaio delle sbarre, libera gli animali dello zoo, i bambini torturati e la gioia di essere vivi.

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Pubblicato su “Accattone”, maggio 2004.

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11 Commenti

  1. Volevo segnalare una cosa curiosa: la maggior parte delle persone chiama Ammaniti “Ammanniti”, con due n. Niente di strano. Anche Mammucari viene chiamato “Mammuccari” e Valerio Mastandrea, “Mastrandrea.” Ma la cosa che proprio non capisco e che mi lascia perplesso è: perché Ammaniti chiama se stesso “Ammanniti”, con due n. L’ho sentito un paio di volte. Per esempio su http://www.nonleggere.it/(cliccate sulla colonnina della Narrativa e andate a cercarvi Niccolò Ammaniti). Davvero non capisco. Dice proprio: “Salve. Sono Niccolò Ammanniti”, con due (ma anche tre) n. E non ditemi che lo dice perché è romano e raddoppia tutto. Non regge.

  2. anche Bart Simpson ha un fratello (Ugo nella versione italiana) diabolico e con i capelli rasta (?!?), chiuso in solaio e nutrito dai genitori con lische di pesce a secchiate….. ogni madre fa un figlio doppio (anche nei cartoons!!!)

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