Le torri di Anselm Kiefer a Milano
di Sergio Garufi
“Esistono nicchie temporali che non sono contemporanee alla nostra epoca? Sacche di tempo fossile che si perpetuano a dispetto del calendario?”; si chiede uno scrittore italiano de cuyo nombre no puedo acordarme, almeno non qui. Certo che esistono. Una di queste si trovava a Milano, in un punto del trafficatissimo viale Monza. Era un caseggiato esploso a causa di una fuga di gas. Vi era stato pure un morto.Per controversie sul rimborso dell’assicurazione, l’edificio rimase per circa un anno semidistrutto, senza impalcature e ponteggi che lo velassero pudicamente; e nei piani più alti, dov’era sopravvissuto parte di un pavimento, si potevano ancora osservare i resti di una stanza arredata, colta nell’attimo esatto della deflagrazione. Un cassettone, uno specchio appeso a parete, qualche soprammobile rimasto miracolosamente integro e al suo posto nonostante la terribile onda d’urto; tutto come sospeso sull’orlo dell’abisso. Sembrava una casa di bambole, di quelle che puoi vederne l’interno. Ogni cosa superstite era ferma a quell’istante, come il famoso orologio della stazione ferroviaria di Bologna dopo la bomba dell’agosto del 1980.
Un’altra di queste nicchie temporali si trova alla periferia nord di Milano, in quel quartiere immenso e semiabbandonato costituito dagli stabilimenti dismessi della Pirelli e dell’Ansaldo, dove una volta ferveva il lavoro operaio e oggi si allestiscono loft per manager e creativi. L’Hangar Bicocca è un capannone di dimensioni impressionanti: 15.000 mq e una cubatura che rivaleggia con quella della Tate Modern di Londra. In pratica, il posto ideale per allestire grandi mostre di arte contemporanea, per ospitare le opere ciclopiche di megalomani visionari come Anish Kapoor o Anselm Kiefer. E difatti l’interno – interamente ridipinto di blu cobalto, con effetti emotivi che ricordano quelli provocati dai cicli di Alberto Burri nei nerissimi ex-seccatoi del tabacco di Città di Castello – troneggiano sette torri imponenti e desolate dell’artista tedesco.
L’installazione di Kiefer s’intitola I Sette Palazzi Celesti. La luce spettrale e teatrale scelta dall’artista ne rivela impietosamente la natura di fantasmi architettonici, ruderi e vestigia di un passato indefinito, confuso fra mitologie arcane e devastazioni recenti. Ciascuna delle torri è composta da moduli a pianta quadrata di identiche dimensioni sovrapposti gli uni agli altri, ma la giustapposizione imperfetta comunica un senso di disagio e precarietà, come testimoniano i numerosi detriti, calcinacci e vetri posti ai piedi delle costruzioni. Fra questi si scorgono pure le sue ben note stelle cadenti, motivo che ritorna nelle opere del tedesco a distanza di anni con insistenza percussiva, e che trasmigra con disinvoltura dall’architettura alla pittura e viceversa. Ricordo per esempio quelle di una mostra a Palazzo Grassi di quattro anni fa, che parevano colate da un dipinto materico appeso a parete.
Nella prima delle torri, la meno alta e la più vicina all’entrata, si scorgono delle scritte tratte dal glossario cabalistico che pencolano verso l’esterno come vecchie insegne; ma non sono tracce mnestiche, testimonianze di un passaggio, quanto piuttosto indicazioni di senso, segni che suggeriscono interpretazioni cosmogoniche tratte dalla mistica ebraica: i sette livelli della spiritualità – anche questa un’ossessione che riaffiora carsicamente in molte sue opere. Ma la simbologia della torre è talmente ricca di rimandi e associazioni antinomiche da consentire al visitatore meno smaliziato di ignorare il significato storico e spirituale di quella terminologia. E in ogni caso i dettagli si leggono con grande difficoltà, perché il percorso è transennato fino a una distanza considerevole, forse per il pericolo di crollo di questi edifici traballanti.
Vengono in mente la torre di Babele, allegoria dell’ambizione divina dell’uomo destinata al fallimento; o la torre come rappresentazione teologica della virtù della Speranza, come nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima; o ancora la torre immagine fallica; o la recente tragedia delle Twin Towers di New York; e infine la torre come segno di potenza e ricchezza, come quelle di San Gimignano, la Manhattan del Medioevo. Similmente alle torri di San Gimignano, anche quelle di Kiefer danno l’impressione di architetture inabitabili, il cui progetto non prevedeva la presenza umana: come i silos per le granaglie, le torri dell’acqua e tutti gli edifici enigmatici e inquietanti che affollano i dipinti di Mario Sironi. O pure certi spazi beckettiani, apocalittici, in cui l’assenza dell’uomo è conseguenza della sua stessa volontà autodistruttiva. Sta di fatto che, anche senza disturbare Beckett – che a nominarlo invano si commette peccato mortale -, la Storia, o meglio la funzione levatrice della violenza nella Storia, rappresenta uno dei motivi ricorrenti nell’opera dell’artista tedesco. Difatti basta dare un’occhiata al luogo e alla data di nascita – per una volta non dati biografici meramente accessori – per capirlo. Anselm Kiefer viene alla luce nel marzo del 1945 a Donaueschingen, cioè nel momento in cui si compie l’ultimo atto della più grande tragedia del secolo passato e nel luogo in cui nasce il Danubio, testimone impassibile e privilegiato di tante indicibili carneficine.
Le torri sono prive di soletta, come fossero state squarciate da un meteorite, e lo sguardo che percorre in verticale il canale creato dalle cavità interne di questi scheletri architettonici dà così corpo a un movimento che oscilla fra terra e cielo, materia e trascendenza, ascesi spirituale e irresistibili spinte verso la caduta. I diversi piani delle torri sembrano corrispondere a sedimentazioni semantiche, ci stimolano a decifrare codici trasmessi da antiche e rimosse tradizioni sapienziali, indagano il rapporto fra individuo e cosmo attraverso i miti e le epoche più lontane. E’ curioso come un vecchio capannone industriale abbandonato della periferia
milanese, grazie al cortocircuito temporale provocato da un’opera d’arte, sia diventato il luogo per eccellenza in cui una società quasi del tutto secolarizzata celebra il proprio senso del sacro. Ma forse è solo un gioco di citazioni colte che dura giusto il tempo di una visita, e quanto più sono criptiche le citazioni tanto più è divertente il gioco.
All’uscita fa una certa impressione, dopo l’immersione in quell’atmosfera sospesa e drammaticamente brechtiana, notare l’atteggiamento un po’ frivolo e l’estrazione alto-borghese dei visitatori (ma “les bourgeois, ce sont les autres”, ammoniva giustamente Jules Renard nel suo Diario), forse più adatti a un vernissage dell’arguto Tom Friedman alla Fondazione Prada< che non a una austera rappresentazione teatrale dell’apocalisse come questa di Kiefer. Molta gente elegante della Milano bene che riprende la vita di sempre: quelli di una certa età col taxi in attesa da quando sono entrati, e i più giovani che si allontanano su scattanti smart ortogonalmente decorate come quadri di Mondrian. Dev’essere l’effetto alka-seltzer di cui parlava Hans Magnus Enzensberger, il famigerato estetico diffuso. Non c’è più dubbio: il tempo ha ripreso a scorrere.
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Anselm Kiefer
I Sette Palazzi Celesti
24 settembre 2004 – 12 febbraio 2005
Hangar Bicocca
Viale Sarca 336, Milano
Info. 02-73950962
Orari: mar-sab 12-19
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Ho sempre stimato Kiefer.
Mi pare un artista serio, capace sia quando dipinge, quando forgia, quando fa quei cosi enormi in piombo, gli aerei pesanti che ti pesano sullo stomaco e dire che mi piacciono è svilire l’emozione prodotta.
Lui lavora per darti una mazzata per dirti che qui è un brutto posto, si aggirano mostri, sempre ti trasmette un diretto chiaro significato simbolico.
Che poi a vederlo ci vadano anche i salamini rimabamboliti col giubbino carino:
chettedevodì, pazienza!
Sergio Garufi è impressionato da quel pubblico e Mario Bianco ne sopporta la casuale presenza. Non sarà che queste installazioni sono dirette proprio, esclusivamente, a quel pubblico?
Spesso è anche l’unico pubblico che ci va, giusto Elio?
A me interessa sapere o conoscere, in qualità di manovale, il materiale con cui sono costruite le torri che pare stiano su per un mezzo miracolo: mi paiono lamiere ondulate.
Io non credo che andrò a visitarla per ragioni imperscrutabili, ma se qualcuno la vede mi faccia una relazione tecnica circostanziata con misure, pesi e colori delle strutture, grazie.
Anzi ci terrei che a farmela fosse il Biondillo di sopra colloquiante che è architetto, grazie.
A me colpisce il fatto che siano enormi, dentro un capannone enorme, illuminate con fari da campo da calcetto. Chissà che spesa. Ma qui andrei corretto: quelle non sono spese ma investimenti, sono spot per il committente e per l’artista che magari ha lavorato gratis. Tornando alla grandezza, non so se questa tendenza dell’arte, che si potrebbe chiamare arte-teatrale, ne ha veramente bisogno, forse l’idea di kiefer, che è abbastanza modesta, si poteva realizzare in scala ridotta. Ma qui vado ancora corretto, perché trattandosi di un investimento, la forma deve essere quella giusta per l’investimento, qualcosa di piccolo non si sarebbe imposto allo stesso modo, inoltre trattandosi di un’idea modesta tolte le dimensioni sarebbe rimasto poco.
Si chiude il cerchio: funzione di spot pubblicitario per arte-teatrale illuminata da faretti spot.
Peccato che a Milano non abbiano mai realizzato il Placentarium di Piero Manzoni, era un progetto bellissimo, ma in fondo se l’è cercata, non si disprezza il mercato pensando cose belle intelligenti e eversive.
Ora scusate, vado a leggere i libri di un genio: Alan Moore.
cosa stai leggendo di A.Moore?
Andrea, a me non sembrano enormi; mi sembrano in scala umana in quanto dalla foto si desume che le porte delle cellule sono alte poco più di un statura media.
Certo che Kiefer ha dei prezzi altissimi e se lo possono permettere solo collezioni private americane, questa mostra gli fa un altro po’ di piazza qui.
Sempre chiedersi: chi è il suo mercante?
Chi e che cosa ci sta dietro?
E ricominciamo con la cultura del sospetto; ma io non sospetto di Kiefer.
Quando sei nel grande mercato o accetti il pateracchio o sei fuori del tutto.
Per Gianni, di Moore sto leggendo Tomorrow Stories vol. 1 (magic press), un’antologia di storie dedicate a personaggi minori ABC. Non è il lavoro più importante di Moore, ma ciascuna storia lascia senza fiato per la genialità. Come tu ben sai Moore non è umano!
Per Mario, se non sono enormi, allora, I Sette Palazzi Celesti mettiteli in salotto, ma non chiedermi di aiutarti eh :-)
Mario Bianco disse: “se qualcuno la vede mi faccia una relazione tecnica circostanziata con misure, pesi e colori delle strutture, grazie.”
Circostanziata mi par troppo, comunque: le torri sono alte (vado a memoria) tra i 15 e i 20 metri (e comunque l’impressione che danno standoci sotto è che siano enormi e incombenti). Sono fatte di cemento e piombo, e sono state costruite in loco ricorrendo ad attrezzatura per edilizia (gru ecc). Del peso non so dirti nulla, ma credo sia notevole. I singoli moduli e le pareti riproducono la forma classica del container per il trasporto merci, sono grigie con alcune parti dipinte malamente di azzurro pallido, sbrecciate, rotte, e i tondini di metallo sporgono da ogni piano o parete. Come stiano in piedi è un mistero, l’impressione è di equilibrio precarissimo, una specie di deserto bombarbato.
gentile george,
ti ringrazio, io credevo fossero leggere e costruite con pannelli di lamiera ondulata
Mi viene in mente Arman che faceva dei bellissimi violini sezionati poi ha smesso di fare l’artista, si è trasformato in una zecca che batteva moneta di bronzo a forma di violino sezionato.
Ducato, Ducatone e Violino.
Alla fin fine uno si domanda:
Ma perché Kiefer fa delle cose così grandi, dei dipinti di metri 8 x 3, degli oggetti pesantissimi di piombo?
Io so che pare vogliano esprimere, comunicarci gli orrori della guerra e del mondo, anche.
Però mi pare di aver visto sulla spiaggia di Barceloneta, anni fa, un installazione /scultura in bronzo di un’artista importante che era composta in maniera simile: cellule sbilenche sovrapposte a mò di palazzetto/torre.
Dai Mario, quella non è una grande idea. Per quello hanno dovuto farne un’idea grande, insomma il contrario del pennello cinghiale.
Oui, sono una merda d’uomo. Un venduto a Telemarket. E me ne vanto!
Andrea, chettedevodì, se lui li fa grandi li fa grandi, se lo comprerà un museo americano; io son daccord con te: non è poi una grande idea per cui si sarebbe potuto realizzarla in lamiera ondulata di alluminio o tolla qualsiasi, leggere, movibili, smontabili.
Ma, scusate ( nota della cultura del sospetto) di chi è lo spazio hangar, chi ha messo i soldi?
Le Trussardine?
Boh, magari ci sono anche contributi pubblici.
Comunque, prossima volta si fa un’associazione temporanea d’impresa, un multiartista persona giuridica artistico – espressiva.
Ragione sociale: TI-NUCLEARS
Nome del progetto: SFERA ARTE QUANTICA
Materiale: CADMIO E MERCURIO
Sito: DUOMO DI MILANO
Sinteticamente: Una sfera di mercurio del diametro di venti metri, tenuta per aria da una gabbia elettromagnetica i cui induttori sono nascosti sotto gli inginocchiatoi, lentamente, una goccia ogni ora, collassa. Le gocce di mercurio si raccolgono dentro un’ampolla di cristallo ai piedi dell’altare. Prima del collasso completo della sfera, quando ormai appare una sporta floscia della Rinascente, dal lato opposto all’altare viene lanciata una rete di cadmio che arresta il disfacimento. Il salto della rete sulla sfera avverrà dentro uno scenario videoproiettato quadridimensionalmente di aurora boreale.
Prezzo: 500 milioni di euro
Perdiana!
Che roba bestiale!!
E dentro la sfera ci mettiamo Fabrizio Venerandi e le sue lame rotanti ed il pulsante magico che fa:
swisssshh
swiiisshhh
swwwiiissshhh