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DOGVILLE
Ovvero un trattato di Teologia Politica per capire il nostro Tempo

di Marco Alderano Rovelli

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Ho rivisto Dogville, di Lars Von Trier. E non posso non cantare le lodi di questo grandioso film teologico e politico. Che ognuno dovrebbe vedere per comprendere la storia del nostro Tempo, e la Storia tout court.
Avevo amato the Idiots, odiato Dancer in the dark. Dogville è magnifico. Esso dice l’etica. Dogville è la città del sottouomo – là dove la vittima è immediatamente carnefice. La ‘zona grigia’. E’ lo spazio cavo dell’etica, ridotta all’osso: la scheletrica e immaginaria scenografia teatrale non fa che presentare l’etica come un gioco di società. In questo gioco, la grazia appare come l’impossibile – e quest’impossibilità non può che materializzarsi come angelo sterminatore, in fine. Nicole Kidman è il tremendo – è il volto di Dio, dalla prima all’ultima inquadratura. E poi, Dogville ha un merito ulteriore: dice l’etica oggi. Dice l’America come spazio scenico dell’etica. Dice la catastrofe del nostro tempo, insomma.

‘Lasci che io sia cieco da solo’. E’ la frase pronunciata dal cieco Ben Gazzara che apre la scena, e introduce alla catastrofe. Quando la Grazia vuole far aprire gli occhi sul buio – il buio della ‘città marcia’ – e il buio non ne vuole sapere. Non vuole riconoscersi. ‘Accettarsi’, per dirla col predicatore Tom (Sawyer): l’insopportabile moralista, il ragno psicologo (in senso nietzscheano). Tom, come ogni buon prete, conosce il problema; ma anche lui – e lui più degli altri – non fa nulla per riconoscerlo. Grace – l’angelo idiota – si è presentata per portare alla luce l’insetto che rode l’anima (l’insetto dei Karamazov): ma questo è un rischio troppo grosso, che nessuno è in grado di correre. Per questo Tom verrà fulminato proprio dalla Grazia in persona, senza bisogno di angeli inferiori.
Nessuno, a Dogville, è in grado di riconoscere la Grazia. Di vedere il Dono, e il perdono che porta con sè. (‘Vi viene offerto il perdono, e voi scegliete un piatto di lenticchie’, gridava l’imbonitore in Le vide di Armando Punzo). Dapprima, si prova a liberarsene con i regali dell’addio – nella stessa maniera in cui si fanno i doni ai morti, perché siano morti davvero e ci se ne possa liberare per sempre. Poi, quando la si fa restare – perché non si ha la forza per liberarsene – la si può accogliere solo in quanto capro espiatorio. A Dogville l’Altro non può essere un dono, ma solo un capro espiatorio. Azazel. La vittima sul cui omicidio si costruisce la comunità.
E non a caso le cose precipitano nel Thanksgiving Day. (L’America è lo spazio di massimo dispiegamento di questa logica: Von Trier fa un discorso teologico, ma al medesimo tempo un discorso storico, e politico. E’ in quest’America – in questa young America – che si dispiega al massimo grado questa vicenda teologica). Invece di ringraziare, di accettare il Dono – è la Legge che irrompe durante la festa, il Potere Sovrano che, con la sua sola presenza formale, senza bisogno di nessuna accusa, di nessun capo d’imputazione, determina il fuori-legge. Questa dislocazione esige una compensazione immediata: ‘è come parlano i gangster’, ma anche gli affaristi. Con la Legge, insomma, compare immediatamente la Ragione economica. Il calcolo.
La Legge e la Ragione producono il Servo. E il Servo viene rapidamente deprivato di ogni sembianza umana. Su di lui si scarica ogni alterità, e viene creato in quanto diverso. A Dogville ‘nessuno ha bisogno di niente’, si ripete più volte: l’unica cosa di cui si ha bisogno è il Servo. E i meccanismi per costruire e rinforzare questa logica perversa sono quelli di Colpa e Punizione (nel caso del bambino Giasone), di Rispetto e Dominazione (nel caso del padre di Giasone).
Sarà Tom a innescare l’Apocalissi – la rivelazione del mysterium tremendum. Quando ormai il meccanismo sarà fin troppo evidente, e il rischio troppo grande. ‘E poi fu come se Dogville fosse in attesa’. Il Giudizio. Nessuna apocatastasi, ma l’angelo sterminatore. Che prende coscienza – grazie al Padre – di come occorra dare la possibilità ad ognuno di render conto delle proprie azioni. Di come ci sia un momento per essere clementi, e un momento per essere duri. Occorre, insomma, prendersi la responsabilità del Crimine. Di quel Crimine che sta a monte della Legge, e di ogni fatto umano. Occorre far Giustizia. Dismettere l’arroganza del perdono, e capire che, se pure la gente sta facendo del suo meglio, questo meglio non è abbastanza buono. E che dunque, per il bene dell’umanità, e della Grazia stessa, occorre rimettere a posto le cose. Dogville deve scomparire. ‘Occorre mantenersi al proprio livello’, dice il Padre: e se gli uomini degradano a livello dei cani, solo a salvarsi sarà il cane, che è quello che è.
‘La luce adesso rivelava ogni irregolarità e difetto’.

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12 Commenti

  1. dogville – come tutto il cinema di von trier – è anche un capolvoro di ironia, nel senso etimologico del termine.
    tutto quello che scrivi (bè, diciamo quasi tutto) c’è, ma è presentato con un distacco evidente (brechtiano?), che rende impossibile leggere il film semplicemente come un trattato teologico.
    trier è anche un furbo e un burlone. sembra desiderare che lo spettatore creda nei suo film più di quanto non ci creda lui stesso.
    pare che nel tuo caso ce l’abbia fatta.

  2. Che von Trier sia furbo, lo penso anch’io. Altrimenti non avrebbe fatto Dancer in the dark… Per quanto mi riguarda, ho tentato di esporre il discorso che sorregge il film – ed è questo discorso che per me è decisivo. Tu concordi che questo ci sia. Bene. Non ho certo scritto di aver esaurito tutto quello che c’era da dire di Dogville – e tantomeno del cinema di von Trier, e della sua cifra ironica, distanziatrice, cosa su cui sono d’accordo (se devo parlare dello stile, devo dire di essere stato coinvolto proprio da questa distanza, che mi ha trascinato, per così dire, nel ‘vivo dell’astrazione’).

  3. Eh, dai, meno male ci sono diversi livelli di lettura! Un film di denuncia. O un film involutivamente esibizionista. O un film ironico. O un film supermetaforico. O un film di attualità. O un film schematico, dalla scenografia al plot. O un film catastrofico. O un film teatrale. O un film fatalista. O un film….
    Devo dire, comunque, che ciò che ha scritto Marco Alderano Rovelli mi è piaciuto. Più che altro perché credo sia molto difficile scremare questo capolavoro di L.V.T. da tutti gli altri possibili significati, mettere una sbarra a tutte le stradine secondarie (e alle autostrade, magari) e concentrarsi solo su un’interpretazione in modo così netto.

  4. Bisognerebbe finirla con questa storia banale e sciocca per cui se uno è furbo e burlone e vuole offrici in pasto le sue maschere, la mancanza di sincerità significherebbe assenza di verità. Non è così antropologicamente. E’ un ingenuo psicologismo che continua a permanere come una dogma morale, mentre invece è la falsità della morale, di cui la sincerità è un perno portante.
    La figura delò trickster e del fool niente ha da insegnare ai moralisti?
    Von Trier è un gran regista e ha la capacità di spiazzare, di lasciare segno nello spettatore. Non è a mio parere un regista concettuale come quell’altro grande regista che è stato presentato da Raul Montanari. Von Trier è un sintomologo.
    Ho letto con molto interesse e piacere questa lettura intelligente di Marco Alderano Rovelli, che scrive cose molto istruttive, e certi suoi passaggi su cui concordo moltissimo (sarà perchè mi sento e mi definisco un anarchico platonico?).

  5. Certo se si va a rileggere il manifesto di Dogma 95, sebbene di 10 anni fa, si puo’ anche eliminare il dubbio che L.V.T. sia “un furbo e un burlone”, visto che vi si dichiara che – dato che “l’obiettivo supremo” dei cineasti decadenti è ingannare il pubblico – proprio a questo inganno ci si vuole contrapporre. “Per DOGMA 95 il cinema non è illusione!”.
    Poi mah, certo, illusione non vuol dire ironia.

  6. Però poi vengono dubbi leggendo notizie come queste:

    Lars Von Trier si autocensura
    “Il regista danese Lars Von Trier ha provveduto a tagliare una scena del suo nuovo film, “Manderlay”.
    Si tratta di una sequenza molto cruenta nella quale viene uccisa una scimmia per essere mangiata. Trier ha deciso di tagliarla dopo le numerose proteste degli animalisti, e per evitare che l’attenzione si concentrasse solo su questo, mettendo in secondo piano la portata politica e sociale del film.
    Manderlay è una sorta di sequel di “Dogville” che fa parte della trilogia americana di Von Trier ed evoca la schiavitù nel Sud degli Stati Uniti durante gli anni ’30. Nel cast Willem Dafoe e Lauren Bacall”.
    (ANSA) ROMA, 4 MAR

    Nel voto di castità di Dogma 95 c’era un punto che diceva:
    “Il film non deve contenere azioni superficiali (omicidi, armi ecc. non devono essere ripresi in nessun caso).”

    magari non valeva per le scimmie (?)

  7. Von Trier è furbo come tutti i grandi artisti. Viva i furbi, viva Von Trier!
    Bel pezzo, anche se Dancer in the Dark è molto bello, molto bello.
    Furbo è bello!

  8. Caro Luminamenti, mi rende felice questo con.cordare con l’anarchico platonico – per il quale, sia detto, nutro molta stima.
    Quanto a Dancer in the dark: Ciò che mi ha tenuto lontano è stato, credo, l’itinerario dell’eroina, esposto e prevedibile. Tutto bianco/nero: il buono e il cattivo, la realtà e il sogno… In Dogville invece, quello che ho apprezzato (ma prima di tutto, non essendo un critico: quello di cui ho gioito, quello da cui sono stato investito) è stata l’estrema lucidità, geometrica direi, del suo discorso: un discorso potente proprio perchè non c’è polarizzazione, ma si concentra sulla zona grigia, come ho già detto, quella zona di indistinzione tra l’uomo, l’angelo e la belva, tra l’umano e l’inumano. Questa è a mio parere la grandezza di dogville, che manca a Dancer in the dark. Potrei dire, forse, che in DID c’è una Bjork di troppo e una Grace in meno.

  9. Però… Dancer è un musical rivoluzionario. Von Trier ha girato un musical, cioè è entrato in un genere che più genere non si puo’, e l’ha stravolto. Ha reinventato il musical, in qualche modo. Dogville è proprio un’altra cosa. Due film, questi, che io personalmente ritengo straordinari ciascuno a suo modo. Mi defilo prontamente;-)

  10. Molto defilato anch’io, vorrei solo dire che a volte si discute dei film un po’ “alla Moravia”. Moravia nella sua rubrica cominciava così: il film dice che… e continuava esponendo, approvando o confutando, la tesi del film. Dava l’impressione, anzi lo dichiarava (non mi intendo di fotografia, movimenti e recitazione) di occuparsi unicamente del lavoro dello sceneggiatore, anzi del soggettista. Niente di male. A volte giudichiamo un film – o un romanzo – sulla base della nostra opinione del mondo.
    Sarebbe importante capire anche, a parte la furbizia o l’onestà del regista, se il film ci ha divertito. Non sto a spiegare che questo “divertimento” è qualcosa di molto diverso dal sollazzarsi.
    Insomma, abbiamo goduto o il troppo brechtiano ci ha raffreddati troppo? E’ una domanda che pongo a me stesso senza riuscire a darmi risposta. Confonde il quadro anche la presenza di quell’attrice. E’ una che mi raggela, mi allontana anche dai film non brechtiani. So solo che non lo rivedrei una seconda volta.

  11. Franz, non posso che rispettare il tuo parere, anche perchè io credo (e qui, contemporaneamente, vengo a Elio) che sia anzitutto una questione di godimento – di jouissance… Dogville non mi ha divertito: mi ha tenuto in pugno. Dancer in the dark no. (Credo che in alcuni film vi siano ottimi motivi tanto per amarli quanto per odiarli, insomma).

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