Sulla strada per Carlos Paz

di Marino Magliani

In Liguria quelli nati al fondo delle valli come me per guardare le cose devono sempre alzare gli occhi e allora scoprono le terrazze il verde degli orti che ascende a quello più azzurro degli ulivi poi una fascia boscosa e prativa gialla o verde anch’essa dipende dalle stagioni ma pietrosa pietrosa quanto basta da staccare il blu del cielo dall’azzurro degli ulivi che sta lassù più per i turisti che per noi a dire come una valle debba per forza morire in un pezzo di cielo o in un’altra valle.
Nella mia valle i nati al fondo delle cose li riconosci perché hanno la fronte sempre arrugata perché nella mia valle per guardare le cose si potrebbe alzare la testa e invece si alzano solo gli occhi.
Solo che da bambino ti abitui a un mondo che poi non esiste più nel senso che poi lo scordi e se un quadro te lo rappresentasse lo rivedresti fatto di pavimenti a mezzo metro sopra gli occhi di gambe di tavoli e spalliere di sedie all’altezza delle pupille di gradini insormontabili e di ginocchi che ci picchiano. Un’altra cosa che succede a tutti i bambini della Liguria è che da bambino ti misuri con altri bambini e ti sembrano tutti più furbi di te.
Il fatto è che nella mia valle quando ero bambino io gli altri bambini non c’erano e così mi credevo furbo soltanto io e parlavo da solo rampavo i gradini delle mulattiere scalavo enormi terrazze guadagnavo altri paesaggi e alla fine ogni volta era la delusione di scoprire che ciò da cui non riuscivo mai a scappare erano gli ulivi.
Però imparavo che esistevano altri posti che la valle finiva e incominciavano altri posti simili a una valle c’era il Piemonte ad esempio dietro le pietraie dove s’intanava il sole come un ragno in cima a tutto il Piemonte… me ne parlavano le raccoglitrici d’oltre Tanaro e mi raccontavano di pianure coltivate a granturco in Piemonte e di cascine in Piemonte grandi quanto mezzo il paese al fondo della valle in Piemonte di colline senza terrazze in Piemonte.
Mi chiedevo cos’erano venute a fare qui con tanta pianura che avevano cos’erano venute a cercare in questa desolazione di ulivi rovi e incendi l’estate dove mia madre che non veniva da nessun Piemonte diceva che non c’erano mai soldi.
L’altro nome di posti che avevo imparato presto come un giorno si imparava a riconoscere la campagna di ulivi di Robavilla da quella del Poggio o la verdura di Gilun da quella di un altro orto era il nome della Francia Fransa in dialetto. In dialetto la chiamavamo Fransa.
E prima ancora di sapere cos’era la Liguria prima ancora di sapere che di valli come questa ne esistevano migliaia una in riga all’altra come ci mettevamo uno a fianco dell’altro a scuola per la foto di gruppo e che assieme l’insieme delle valli facevano una fisarmonica che si chiamava Liguria e all’alba la Corsica mi raccontava un vecchio morto appariva un istante per scattare la foto a tutte le valli in riga prima ancora di capire che le valli liguri finivano a bagno e di andare una volta alla spiaggia a vedere dove finivano e persino prima di saper stare a galla in una pozza di torrente sennò i più grandi ridevano tutti e ti ci gettavano apposta io prima di tutto questo mi azzardo a dire di aver conosciuto la potenza della parola Fransa.
Avevo un padre che in Fransa ci lavorava una zia che in Fransa ci viveva e sapevo che il ragno lucente s’intanava verso Francia e che se un giorno veramente come ogni notte progettavo di fare fossi scappato in direzione delle pietraie incendiate di luce sarei arrivato in Fransa.
Pensavo che la Fransa fosse un paese di ragni e questo me lo diceva il vecchio che mi spiegava il lavoro del fotografo che faceva in Corsica e ogni sera mi ripeteva che il sole era un ragno che dai monti perdeva l’equilibrio e cadeva in Fransa e d’altro pensavo che i francesi avessero un profumo particolare perché l’estate venivano a villeggiare in paese marito e moglie francesi e lasciavano sempre un profumo dove passavano in bottega in chiesa la domenica persino negli orti quando venivano a trovare mia madre al lavoro e pieni di inchini e di mersì si portavano a casa traboccanti ceste di verdura.
La gente del paese invece d’estate odorava di terra e verdura e di corteccia di ulivo l’inverno.
Anche i tedeschi le ragazze in questo caso sospettavo avessero un profumo diverso da quello delle ragazze della valle. In paese veniva ogni anno in vacanza un gruppo di ragazze tedesche del bacino della Ruhr venivano accolte in una casa colonica provvista di camere sale da pranzo e di una piscina ricavata in una terrazza e a una cert’ora le ragazze tedesche uscivano dall’acqua e senza asciugarsi con quell’odore di cloro sulla pelle passeggiavano per il paese arrapando il paese.
Un vecchio un giorno mi fece credere che l’odore del cloro fosse l’odore della topa tedesca poi il vecchio morì non era il vecchio che mi parlava della Corsica quello era già morto e quando morì anche il vecchio che m’aveva insegnato a distinguere la topa tedesca per alcuni anni più nessuno mi insegnò niente.
I vecchi morivano e uno che non era ancora vecchio diceva che qualcosa almeno succedeva perché se non era per i vecchi che se ne andavano in vallata la gente non sapeva nemmeno di vivere.
Passavo ancora le giornate a scappare dagli ulivi prendevo a pallonate le porte dei vicoli crescevo cominciavo a guardare le cose le sedie le gambe dei tavoli dall’alto e un giorno trovai che ero talmente cresciuto da poter affrontare anche gli ulivi.
Salii su per un tronco pieno di tacche passai a un ramo e dal ramo a quello sopra e alla fine vidi le cose da un punto che mi faceva stringere gli occhi e e aggrapparmi al tronco.
Mi accorsi che soffrivo di vertigini non sapevo che si dicesse così ma che soffrivo sì lo sapevo e per scendere dovetti urlare e chiamare mia madre che raccoglieva dieci terrazze sopra e far venire uno con la scala.
Se mai più fossi diventato uno di questi omoni che abitavano in paese e parlavano di morti salendo sugli ulivi e picchiavano coi bastoni sui rami o potavano ramaglia senza più frutto se io ero un altro e sulle piante non ci sarei salito mai più cos’altro potevo fare nella vita.

Il Piemonte

Un giorno sentii dire da un ripetente che in Piemonte oltre ai campi di granturco e le cascine grosse come mezzo paese e le pianure e le colline senza ulivi e senza terrazze di cui parlavano le raccoglitrici d’oltre Tanaro c’erano i collegi che erano posti da favola dove ti promuovevano facilmente e dove a perdita d’occhio anziché colline c’erano cortili con sull’asfalto disegnate le linee di campetti di calcio e pallavolo e pallacanestro con camerate pieni di bambini con cui uno finalmente poteva misurarsi e vedere se era furbo o no.
Il posto era a Mondovì e da quel giorno tormentai tanto mia mamma che alla fine la convinsi: avrei provato il collegio e se mi piaceva ci restavo sennò me ne tornavo a casa.
Misi il piede in Piemonte di fine settembre e precisamente in uno slargo dopo Ponti di Nava quando il frate accostò la macchina al ciglio della strada e mi fece scendere per orinare.
Così orinai per la prima volta in territorio del Piemonte e guardai le colline e il granturco e il Tanaro e pensai alle raccoglitrici che dovevano avere tutte queste cose negli occhi come io ora avevo le terrazze.
In collegio il tempo non passava come in vallata e ragni di luce che scavalcavano verso Fransa non ne avevo ancora visto mi chiedevo la Fransa chissà dov’è mi dicevo l’hai fatta la tua a venir qui.
Poi venne l’autunno poi il freddo e scese la neve e io dentro ma dentro forte in un posto che forse non aveva nessuno avevo un ragno.
Per arrivare il più presto possibile a giugno e che nessuno allora s’azzardasse più a parlarmi di collegi e del Piemonte mi misi a studiare forte. Un disastro: i frati dissero a mia madre che non ero un’aquila ma che da qualche parte se mi lasciava in collegio potevo arrivare e così rimasi in collegio cinque o sei anni. D’estate tornavo in Liguria che bella la Liguria! facevo le vacanze correvo sotto gli ulivi scalavo terrazze e parlavo da solo.
Ma questo era ancora quando ero in collegio. Uscii da quel cancello dopo cinque o sei anni uscii mezzo tornai a casa e trovai tutto com’era.
Avevo quindici anni e facevo delle grandi camminate in campagna ed era strano andavo metti diretto verso la campagna del Pozzo e mi ritrovavo nella campagna di Robavilla mia madre mi portò dal dottore e gli disse: sto ragazzo dice che va in un posto e si trova nell’altro dice che a volte sono le due e se guarda dopo un po’ l’orologio sono le tre ma se gli chiedo cos’ha fatto dalle due alle tre non me lo sa dire dice che va al Pozzo e invece va in Robavilla.
Il dottore disse alt fece una riga di nomi difficili fece il conto e mia madre pagò la visita.

La Corsica

Ci sono stato almeno trecento volte forse di più anzi sicuramente di più ci sono stato su quello scoglio che un giorno il vecchio m’aveva detto essere la cosa in fondo al mare che si mette a bruciare i sogni fatti in Liguria nella notte per questo poi i sogni non si ricordano più mi ha detto il vecchio ebbene su quello scoglio che brucia i sogni ci sono stato almeno cinquecento volte cosa dico di più.
Facevo il mozzo sul ferry che da Genova portava i turisti a Bastia al mattino verso l’isola cinque otto ore di viaggio e il pomeriggio col sole ancora alto tornavi alla costa ligure che non sapevi mai se andavi o se tornavi. Sbarcavo mezz’ora finito di lavar i piatti e i cessi e già dal ponte guardavo Genova o l’isola che rimpiccioliva.

La Germania

Non studiavo più non scalavo ulivi non studiavo né faticavo sul ferry o nelle serre di fiori odoranti di pesticidi dove faticavano i miei coetanei.
Mi interessava capire dove andava il tempo che passava senza dirmelo e allora lo cercavo.
In autostop. Uno zaino un pane grosso e nero un barattolo di marmellata una bottiglia d’acqua e facevo autostop.
Quando fui in Svizzera mi ricordai le cose che m’aveva detto un vecchio che abitava nel vicolo in fondo casa mia e che ora era morto ma una volta si sedeva sui gradini. Era uno di quei vecchi che non erano mai stati da nessuna parte e un giorno quelli dell’associazione dei coldiretti l’avevano convinto ad andare a una gita e la corriera li aveva portati in Svizzera.
Al ritorno il vecchio s’era messo a dire a tutti che se fosse rinato sarebbe andato ad abitare in Svizzera.
La svizzera è meravigliosa mi raccontava vacci pulita come sul palmo della mano e si mangia bene ti consiglio la prima trattoria appena entrato in Svizzera sulla destra puliti a buon patto e alla ragazza che serve ci puoi mettere la mano nei raggi.
Passai la Svizzera senza metterci piede il tipo che mi portava in Germania aveva una casa in Liguria e mi diede un passaggio fino a Monaco e da Monaco in su mi arrangiai dormivo dove capitava nelle stazioni o nelle scarpate degli svincoli d’autostrada quando mi prendeva la notte e vedevo che non si fermava nessuno mangiavo qua e là pane e marmellata. Un giorno una donna grassa mi chiese in inglese e mi fece capire se volevo dormire in casa sua che aveva una camera libera. Mi pareva gentile la seguii mi fece fare la doccia e dopo un po’ che dormivo mi venne sopra a parlarmi in tedesco.
Poi fu la volta di una magra magra ma bellina oh ma anche la grassa era bella e mi portò a casa sua e il mattino dopo queste son cose che non le scordi più suo padre mi strizzò l’occhio e mi chiese se avevo dormito bene.
Giravo la Germania così mangiando e dormendo qua e là viaggiavo e tornavo a casa di rado e quando viaggiavo ricordavo l’odore di cloro che liberavano le ragazze tedesche della colonia quando uscivano dalla piscina.
Mia madre mi chiedeva se mi succedeva ancora che il tempo passava senza che me ne accorgessi io rispondevo meno le dicevo che succedeva sempre più di rado che i tempi di sbandamento s’erano accorciati anche se si trattava ora di vere e proprie sbandate come quando cammini e ti sembra di prendere una storta e ti raddrizzi camminando ma a mia madre questo non lo dicevo sennò mi faceva tornare da quel dottore di Porto che per una visita rachitica voleva una cifra.
Un giorno partii soldato e quell’anno se ne andò mio padre.
Avevo anche uno zio che se n’era andato mi aveva lasciato novecentomila lire e finito il soldato li tirai fuori d’in banca e li cambiai in pesetas e andai in Spagna in autostop.

La Spagna

La macchina che mi prese a Perpignan mi lasciò sul lungomare di un paesone della Catalunnia. Era tutto un altro mondo neanche la sabbia era come da noi là erano granelli grandi che non ti restavano appiccicati addosso neanche se ti ci sdraiavi bagnato. Bel posto pieno di topa abituato a Diano Marina dove d’estate si provava a parlare un po’ nella nuca di qualche tedesca ma era una lotta dovevi pregarle perché a Diano per ogni topa giravano quattro manici disposti a tutto mentre in Catalunnia a Lloret così si chiamava la città c’era topa per tutti.
C’era lavoro nella manovalanza a Lloret costruzione pittura lavori da cameriere lavapiatti in spiaggia a piazzar sdraio e aprire ombrelloni ma io ero un perdigiorno e così mi trovai un lavoro tranquillo.
Era un lavoro che consisteva nel portare ragazze in discoteca un lavoro che facevano in molti quasi tutti stranieri brasiliani argentini olandesi qualche italiano tutti vestiti da pagliacci con pantaloni di pelle e camicie che sembravamo ramarri.
Dopo un po’ che abitavo in una pensione mi trasferii in una casa dove vivevano in cinque o sei in realtà io non so bene in quanti ci vivevamo a volte tornavo la notte verso l’alba con qualche topa e trovavo gente nuova per terra che dormiva o qualcuno che chiavava nel mio letto.
Ogni tanto si fermava a dormire qualcuno che era andato in Marocco a comprare hascisc e pagava in hascisc e si fumava o si chiavava e ce n’era uno che non aveva mai né hascisc né tope da chiavare e allora in cambio gli facevamo pulire la casa e faceva anche da mangiare. Era grande e aveva la faccia scura era argentino molti erano gli argentini in quella casa.
Lo scuro tornava tardi la mattina dopo aver cercato topa tutta la notte noi sapevamo che andava subito in cucina a far gli spaghetti e allora ci si alzava dal letto si copriva col lenzuolo le tope di turno svedesi olandesi italiane francesi anche spagnole e si diceva loro: i go to the toilet ma poi si andava dallo scuro in sala ad aspettar gli spaghetti e a farci una canna. Il motivo per cui tutte le mattine tra buio e chiaro lo scuro faceva gli spaghetti è che dopo averci fatto ben mangiare ci chiedeva se poteva chiavare. Entrava in una stanza buio completo persiane chiuse si metteva a letto dieci minuti fermo e poi cominciava a cercare la topa e la topa al buio non vedeva che era molto più scuro o più alto di quello di prima non lo sospettava neanche mezza addormentata ma anche mezze contenta di farne un’altra la topa divaricava e gemeva sotto lo scuro e lui zitto zitto sempre col terrore che gli dicessero sei un altro poi potevano anche dirglielo.
Ce n’era uno che di tope se ne portava a letto anche tre al giorno aveva il comodino pieno di vitamine e se stava tre giorni senza chiavare si faceva fare una pompa da uno zingaro che vendeva panini al jamon serrano in un chiosco sulla spiaggia.
Un giorno cominciai anch’io come facevano gli argentini a chiedere soldi alle tope che abbordavamo in disco o alla spiaggia. Alcune si offendevano e ti schiaffeggiavano o si alzavano dal letto piangevano si vestivano e se ne andavano sbattendo le porte altre qualcosa ti davano ti pagavano una cena o ti compravano una camicia da ramarro un paio di pantaloni di pelle.
Poi cominciai anch’io a fare come facevano gli argentini che quando ti portavi una topa a letto ti mettevi d’accordo con lo scuro e mentre ci davi ci davi lo scuro sgattaiolava sul pavimento nel buio strisciava ai vestiti apriva la borsetta e toglieva dal portafoglio l’80% di cosa c’era. Le tope il mattino si svegliavano stordite dalla lotta e quando si accorgevano che mancavano loro le pesetas diventavano belve e andavano alla policia.
Noi dico io e gli argentini e i mandrilli di Lloret in genere alla Guardia Civil di Lloret avevamo un aggancio un poliziotto che faceva le denunce e poi le stracciava ogni tanto gli davamo qualche biglietto da cinquemila pesetas rubato e via ci vendeva anche il fumo il poliziotto andavamo a casa sua e ce lo tagliava sul tavolo in cucina con la moglie che aveva una gran faccia da puttana e una sera andai per fumo e il pulotto non c’era e mi chiavai la moglie che poi andò dove il marito teneva il fumo e ce ne tagliò un pezzo così e me lo diede le dissi di non far la stronza e di tagliarne ancora un pezzo.
Il bello era quando le tope avevano una collanina d’oro e noi delle discoteche le portavamo a letto e nella lotta ce le toglievamo e dissimulantemente posavamo la collanina per terra di modo che arrivava lo scuro nel buio strisciando sui gomiti e si prendeva collana e cosa c’era nel portafoglio.
Portavamo l’oro a un gitano che aveva una oreficeria lui lo pesava e ce lo custodiva fino alla fine della stagione poi ce lo comprava a una cifra buona per noi e per lui e se prima che cominciasse la seguente stagione eravamo all’asciutto ci dava un anticipo.
Insomma a volte arrivavamo a Lloret verso marzo aprile turisti non ce n’era e tolti i lavori di manovalanza che noi mandrilli odiavamo era fame e così passavamo in fila al gitano dell’oro a farci imprestare qualcosa che poi d’estate ci toccava fare gli straordinari per recuperare collanine e portargliele.
A un altro che noi mandrilli dovevamo sempre dei soldi era un peruviano un medico che ci curava gli scoli e le creste di gallo.
Quando finiva l’estate tornavo a rimettermi un po’ a posto sotto gli ulivi mia madre mi sbatteva delle uova mi diceva sei magro come un picco.
Ci stavo poco a casa un anno il tempo di prendere la patente di guida ma era un casino c’erano quei tempi morti durante i quali eri alla guida e il tempo diventava matto qualche istante meno male che durante l’esame non successe e rimasi promosso guidai da Porto a Oneglia e di nuovo a Porto senza far brutte figure. Quell’anno presi anche il permesso di caccia andavo al passo sparavo ai tordi il bello era quando passavano quelle nuvole di stornelli e ci sparavi in mezzo e ne vedevi scendere
venti trenta che zoppicavano per terra e s’andavano a nascondere.
Verso gennaio aprivo l’agenda degli indirizzi e andavo a visitare un po’ di topa in Germania Olanda Norvegia o Danimarca Svizzera un anno lo scuro e quello che se non chiavava per due giorni al terzo si faceva fare la pompa dal gitano del ristorante mi convinsero ad andar con loro in Argentina a Barcellona comprammo dei biglietti economici un aereo sovietico che faceva Mosca Madrid Santiago del Cile. All’aeroporto di Madrid trovammo un finlandese che vendeva acidi li comprammo per mangiarli l’ultimo dell’anno in Argentina ma poi ci venne paura che in Cile ce li trovassero e così li ingoiammo a Madrid. Quello che doveva per forza chiavare si portò una canadese nel cesso e spaccò il coso dell’acqua arrivò la polizia dormimmo in galera alla fine salimmo su un altro aereo e scendemmo a Santiago la settimana dopo.
Santiago era sotto la dittatura facce tristi che ti guardavano d’in sotto la sera uscimmo cambiammo dollari in nero e girammo per delle strade dove la gente dormiva per terra noi vestivamo le divise colorate dei proppers capelli lunghi lunghi orecchino pantaloni di pelle camicie da ramarro e stivaletti da gaucho solo che laggiù la divisa di Lloret per chiavare non funzionava e quello che doveva per forza chiavare sennò si faceva fare una pompa dal gitano del ristorante era disperato pagò un puttana e ci raccomandò di non spargere la voce lui lui…
Vivemmo in una pensione due giorni soltanto e il terzo giorno prendemmo un taxi cento dollari in tutto settecento chilometri a cruzar los Andes e arrivammo a Mendoza che era l’Argentina e c’erano baracche di lamiera e vigne al ferro carril salimmo su un treno lunghissimo rumbo Buenos Aires ma a Junin scendemmo un micro verso l’alba ci portò a Lincoln.
Il cuore della Pampa una città noiosa gialla case basse strade di terra alla periferia case di mattoni e anche di lamiera odori di grigliate e gente che giocava a calcio questo era Lincoln. C’era la dittatura ma né io né lo scuro e né il chiavatore ce ne accorgevamo la gente ci circondava perché uomini con l’orecchino non ne avevano mai visto ed erano tutti che offrivano una grigliata tutti che compravano bottiglioni di vino mendozino.
Dormivo in casa del chiavatore la madre ci faceva trovare sempre tutto pronto un tipo di Arenaza ci aveva venduto un etto di marijuana e dopo qualche settimana finimmo i soldi.
Un giorno cenai in casa di gente ( sempre a Lincoln si cenava in casa di gente che aveva vino e erba ) e quel giorno giravano dei bambini e mi avevano convinto a giocare alla guerra con loro come arma mi avevano dato una rivoltella di plastica e io me l’ero infilata nella cintola poi con lo scuro e il chiavatore andammo in una discoteca che assomigliava al posto delle feste di campagna in Liguria negli anni Sessanta era una sala con qualche vomito di luce colorata e là in quel buio psichedelico finito lo stordimento del vino e dell’erba misi la mano in tasca e sentii l’ingombro tirai fuori ed era la pistola di plastica ma la gente non sapeva che era di plastica e qualcuno cominciò a scappare si accesero le luci mi ritrovai in galera lo sbirro che mi pestava era sempre lo stesso era un parente dello zio dello scuro e m’aveva staccato l’orecchino con un cazzotto e più pisciavo sangue e continuavo a dire che non conoscevo nessuno né a Buenos Aires né a Cordoba né nella gioventù peronista di La Plata più lo sbirro parente dello scuro diceva che invece sapevo molto ad esempio sapevo chi aveva l’erba a Lincoln ma non glielo volevo dire e sapevo anche c’era qualcuno di Lincoln che voleva mettersi in culo un etto di coca e andarla a cagare in Spagna. Io dissi che non ero io e che era una cosa che non avevo mai sentito. Lo sbirro non mi credeva e ricominciava a lavorarmi.
Un giorno mi lasciarono uscire e trovai lo scuro e quello che se non chiavava ecc. ad aspettarmi fuori della comisaria. Avevano comprato un vecchio chevrolet il mio zaino e il loro era nel bagagliaio addio a Lincoln e alla Pampa la notte dopo giungemmo sulle rive di un lago le cui montagne attorno erano la Sierra de Cordoba e il lago e la città si chiamavano Carlos Paz.
Era la fine di febbraio e a Carlos Paz alla fine di febbraio finiva anche l’estate.

(pubblicato su Maltese Narrazioni – “Criminale”, n. 3/2005, uscito il dicembre scorso)

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7 Commenti

  1. Fuggire dagli ulivi, contare i vecchi che muoiono per scoprire di vivere: istantanee di struggente bellezza e nostalgia regalate dalla marea dei ricordi. Guardarle così, dal loro tempo senza tempo, mentre il presente assedia le porte dell’anima e Carlos Paz riemerge come un miraggio dalle stesse acque in cui un milione di anni fa sprofondò Macondo. I vivi e i morti insieme. Forse la storia è questo. Questo altrove dei giorni che non ritornano.

  2. Maledetto passeggere, mi hai fatto venire i lucciconi e mi si sta sciogliendo tutto il trucco.

  3. Questa è una storia bellissima scritta in uno stile parlato piemonteseligure che ha un ritmo antico udito da sempre che sembra di sentire un vecchio che conta.
    Proprio bello.
    Una delle più belle storie lette su NazInd.
    Sono contento che venga dal vecchio Maltese, proprio contento.
    Anchio una volta c’ero stato, sì.
    Bravo Magliani!!!

    Mario Bianco

  4. Hai proprio ragione, Mario Bianco: una delle più belle storie lette su NI:
    struggente ed epica senza mai tendervi, scritta in modo splendido. Non so chi sia Marino Magliani, ma mi sono segnato il nome nel quaderno buono.

  5. sono uno, forse, gentile passegere, che ama il Marquez che ami tu, quello vero, quello de nadie le escribe al coronel, quello prima del garcia marqueting,

  6. Felicissimo di averti incontrato sulla mia strada, Marino, e felice di sapere che anche tu ami quel meraviglioso libro nel quale il tuo racconto, contesti a parte, non sfigurerebbe. Per quanto riguarda il garcia marqueting, mi sa che sei troppo buono: trattasi di volgarissimo garcia marketting. Ti ringrazio, e mi incammino alla scoperta di altre (tue) meraviglie del genere. Un grazie anche a Biondillo che mi ha dato questa possibilità. Un ciao grandissimo e affettuoso a tutti e due. E a presto rileggerti.

  7. instradato qui dal nocchiero MarioB, gran demiurgo di parole, mi rigiro in bocca questa scrittura che sa della (anche mia) terra, faccio scarrucolare le parole sulle papille, le sento crocchiare tra i molari.
    E mi piace, la scrittura organolettica.
    Bel lavoro.
    F

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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