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L’orgoglio della modestia

di Gianni Biondillo

È fin troppo facile non apprezzare l’architettura del Movimento Moderno. Non un orpello, non un fregio, un linguaggio formale all’apparenza basico, senza fronzoli, senza inventiva. Finestra ritagliate su pareti bianche, tetti piani, pilastri senza capitelli. Di tutt’altra pasta le architetture coeve o di solo pochi anni prima: colonne in pietra, archi, sculture magniloquenti, balconi in ferro battuto. Una bellezza esibita, ricca, enfatica. Sarebbe facile, dicevo, ma sarebbe ingeneroso. Senza contestualizzare ci rifugeremmo in una lettura della cose puramente estetica e nostalgica: com’erano belle le architetture del passato, come sono brutte quelle della modernità! Ma quella generazione di artisti, che sapeva benissimo progettare usando gli stili dell’eclettismo, aborriva quel modo di pensare l’arte non per ragioni estetiche ma per ragioni etiche. Progettare case per ricchi era di certo più proficuo per la loro carriera professionale. Solo che le risorse a disposizione – artigiani, materie prime, tecnologie – erano infinite unicamente per chi se lo poteva permettere. Quella generazione comprese che era immorale progettare palazzi di una ricchezza esibita e volgare, quando la massa popolare, il proletariato, i poveri, vivevano nelle nostre città in condizioni abitative disperate, al limite della sussistenza.

Il tema era, a parità di risorse a disposizione, progettare una casa decorosa per tutti. Indipendentemente dal censo o dalla classe sociale. Era una questione etica, appunto. Il tema dell’existentzminimum, tanto dibattuto in quegli anni, voleva definire quali fossero le condizioni essenziali di un nucleo famigliare affinché non mancasse nulla alla loro civile convivenza: acqua corrente, bagni, igiene, riscaldamento, luce naturale, ricambio d’aria. Cose che i ricchi, quelli che riempivano di fregi le facciate delle loro case, avevano già, ma che alla stragrande maggioranza delle popolazioni urbane mancavano. Quindi, piuttosto che baloccarsi con l’ennesimo esperimento formale, bisognava cambiare il gusto sia delle classi dirigenti che di quelle popolari. Avere, come ebbe a scrivere Lionello Venturi, l’orgoglio della modestia. Concepire il progetto come il luogo dove la qualità fosse a disposizione di tutti e non di pochi eletti. Usare materiali di facile reperibilità, di basso costo, replicabili, e concentrare tutti gli sforzi per estrarne bellezza, attraverso la funzionalità. È la base dell’idea del design che accompagnerà l’intero novecento: immaginare una lampada, un piano cottura o una poltrona, utilizzabili sia dal borghese che dall’operaio. Una vera e propria democrazia delle risorse estetiche.

Il razionalismo, insomma, non era contrario alla tradizione ma al tradizionalismo. La mostra fotografica sull’architettura vernacolare di Giuseppe Pagano alla VI Triennale lo dimostra in modo palmare: non erano gli stili del passato che lo interessavano, ma come, in una ristrettezza di risorse, la cultura popolare avesse trovato le più razionali soluzioni tecnologiche, trasformandole in soluzioni formali.

Nel secondo dopoguerra, le seconde e terze case, le borgate abusive, le palazzate abusive e le villettopoli cresciute indiscriminatamente, sono state molto più devastanti sul nostro paesaggio così fragile che le tanto vituperate periferie urbane. Il “Piano Fanfani”, quanto meno, voleva dare una casa a tutti, pensandola come un diritto. Oggi il valore d’uso è stato soppiantato dal valore di scambio. Si costruisce non per fare case ma per fare cassa, in una nazione dove non c’è bisogno di costruire più nulla. Oggi le più avvedute avanguardie, memori della lezione etica dei maestri, non progettano il nuovo ma rimettono in gioco e riqualificano il già esistente. Piuttosto che sfoggiare ennesime, leziose torri tortili in vetro e acciaio, ammantate di un peloso greenwashing, occorre tornare all’orgoglio della modestia. Porsi eticamente in una realtà dalle risorse scarse, sfidando dal punto di vista della progettazione una realtà ipercostruita. Progetto sostenibile, stop al consumo di suolo e cubatura zero dovranno essere i nuovi imperativi. E chi se ne frega del bello stile.

(precedentemente pubblicato su Il Corriere della sera-Design del 22-11-23)

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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