Sessantacinque anni

[Per Besa è uscito Il diario delle mie sparizioni, di Daniele Comberiati. Pubblichiamo un estratto del primo racconto, dal titolo Sessantacinque anni].

di Daniele Comberiati

           SESSANTACINQUE ANNI

            Il Dépanneur

Ero passato dal Dépanneur un venerdì pomeriggio, pensando di trovarlo chiuso. Il classico atto mancato, mi dicevo parcheggiando la macchina. In realtà, speravo che sarebbe stato chiuso ma avevo promesso a mia moglie che ci sarei andato in settimana. Si trovava nella vecchia zona industriale della città, ormai da anni, se non da decenni, in disuso. Quando ero ragazzino c’erano ancora i meccanici, soprattutto di motociclette elettriche – i veicoli a benzina stavano già scomparendo – e con i miei ci eravamo andati quattro o cinque volte, a mia memoria sempre il sabato pomeriggio, quando non c’erano eventi organizzati, non avevo compiti da fare e, affinché non passassi ore attaccato al telefono, mio padre mi costringeva a uscire con lui. Comprava i pezzi di ricambio per la moto e i catarifrangenti colorati per le nostre biciclette, che non erano a norma – infatti li aggiungevamo a quelli comunali, non potevamo sostituirli – ma erano verdi o gialli e a me e mia cugina piacevano tantissimo. Io però, che avevo due anni più di lei, già li usavo meno (la bici mi serviva solo per andare al liceo e al centro civico) e passavo quei pomeriggi ad annoiarmi. Se veniva pure mia cugina era anche peggio perché mio padre iniziava a fare i confronti – vedi com’è sorridente lei? Devi sempre rovinare tutto con il tuo carattere? – e io mi immusonivo ancora di più. Le ultime volte ci eravamo andati noi due soli (anche mia cugina stava crescendo e, siccome mio padre era solo suo zio, non poteva certo obbligarla) e mi ricordo pomeriggi polverosi e annoiati in cui io non potevo rimanere in macchina e lo ascoltavo discutere sulla possibilità di comprare al mercato nero una targa valida per l’estero. «Ormai non le vendono più o sono carissime» gli rispondeva uno dei meccanici, attento a non farsi sentire. L’ultima volta avevano tutti la stessa tuta blu acido con due fasce gialle sugli avambracci.

E comunque quelle vecchie fabbriche ne avevano attraversate di ere: dal tessile alla produzione chimica, negli anni Settanta. Con la delocalizzazione, le aziende avevano chiuso e i due edifici più grandi avevano ospitato per un’estate la più grande occupazione abitativa della città. La polizia li aveva sgomberati piuttosto in fretta – un giorno umido di fine agosto, quando tutti sembravano aver cose più importanti a cui pensare – ma il quartiere per decenni era rimasto alternativo: un enorme centro sociale, che ospitava concerti punk-rock e festival di fumetto e letteratura indipendenti, aveva preso il posto delle case popolari fin quando, attraverso un movimento lento ma percepibile, anche il centro sociale si era trasformato. Una discoteca alternativa, così dicevano alcuni amici di mio padre che ci erano andati, ma pur sempre una discoteca: un locale in cui si pagava l’ingresso con le cripto-monete, che possedeva i documenti di usufrutto dei terreni, e i cui gestori pagavano le tasse. Della politica rimanevano strofe sparse di alcune canzoni dei gruppi che si esibivano, e i graffiti che imperversavano sui muri delle altre fabbriche. Poi erano rimasti solo i muri a ricordare quei movimenti, mentre i musicisti alternativi erano invecchiati e i prezzi dei biglietti erano triplicati nel giro di mezza estate: la discoteca alternativa era ormai un locale alla moda, e per questo fu spostato al centro della città – stessa gestione, stesso nome, persino stessi buttafuori all’entrata, ma cocktail più cari – allo Shibozu, il quartiere dove, dalle 21 alle 4 e 30 del mattino, si svolgeva tutta la vita notturna. La giustificazione era che alle vecchie fabbriche non ci fossero posti per i parcheggi con le colonnine per le ricariche delle auto elettriche, e che il traffico bloccasse la principale arteria cittadina che dalle 21 alle 22, mentre gli ultimi impiegati tornavano nei quartieri suburbani, era molto trafficata.

Cancellarono l’ultimo graffito dopo il crollo del capitalismo e decisero di metterci gli “Uffizi per le nascite, i decorsi e i decessi”. «È un luogo inclusivo», era lo slogan, «che serve a tutta la città e di cui la popolazione potrà usufruire». In effetti, non era lo stesso quando c’era il centro sociale: la musica dei Porn-corn, per esempio, piaceva a qualche vecchio amico di mio padre ma non a me. Invece agli Uffizi ci dovevamo passare tutti, prima o poi.

Del passato però era rimasto il nome, dagli antichi proprietari belgi di una delle fabbriche, curiosamente la più piccola, che produceva tappi da bottiglia: il Dépanneur.

Non c’era fila perché, l’ho capito dopo, gli uffici non chiudevano mai. H24, sette giorni su sette. La burocrazia perpetua.

«Chi deve registrare?»

«Mio padre…»

«Genere?»

«Mio padre… uomo».

«Ha indisponibilità?»

«Io o lui?»

«Suo padre, ovviamente. Perché non è venuto lui a registrarsi?»

«È arrivato ieri a casa nostra. Si sta ambientando…»

«Sessantaquattro anni precisi, quindi? Lo prenoto fra trecentosessantacinque o trecentosessantasei giorni?»

«Ah, possiamo decidere noi?»

«Certo, anche se teoricamente dovrebbe essere lui a decidere. Ma nei primi due mesi può cambiare, basta inviarci una mail».

«Faccia trecentosessantasei allora».

«Perfetto. Il regolamento con le tariffe e le multe lo ha già suo padre. Si ricordi solo che, dal primo gennaio di quest’anno, ogni giorno di ritardo è punibile con una multa in denaro o con una pena sociale per i figli o i nipoti dell’anziano, qualora i figli avessero ancora a carico prole minore. Lei ha figli?»

«Sì, uno».

«Età?»

«Nove anni».

«In tal caso potrebbe riversare su di lui la pena sociale per il mancato arrivo di suo padre. Raddoppiamento delle tasse universitarie, accesso vietato ad alcune facoltà di prestigio, decurtamento parziale dei primi stipendi…»

«Sì sì ho capito, grazie, non c’è bisogno che faccia la lista».

«Una firma qui… perfetto. Se suo padre non si presenta due mesi dopo la data, la reclusione familiare è obbligatoria e suo figlio sarà ospitato in uno dei centri per minori della città fino a quando non lo ritroviamo. Per le modalità di esecuzione parleremo con suo padre fra sei mesi circa. Gli ricordi di rispondere alle mail; senza risposta procediamo automaticamente con l’iniezione e la cremazione, a meno che non ci siano ragioni religiose contrarie esplicite, ma per queste deve compilare altri documenti».

«No, non mi sembra, mio padre è ateo».

«Perfetto allora. Grazie di essere venuto, e approfitti con suo padre dell’anno spirituale, mi raccomando!»

«Certo, grazie».

Ero ritornato alla macchina sollevato e angosciato al tempo stesso. Risposi a un messaggio di mia moglie: “Tutto a posto al Dépanneur, serve qualcosa per cena?”

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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