Le foglie di Adamo

Artwork di Lorenzo Trivelli

di Laura Mancini

La voce brusca dello zio e quella fioca del nonno riscossero Adamo dalla sua beatitudine. Si voltò e li vide sbracciarsi oltre il cancello mentre un uomo vestito di lenzuola sbatacchiava il lucchetto. Adà, sfiatava il nonno, Adamo! tuonava lo zio. Adamo fece un nodo al respiro. Appena cessato il chiasso lo zio e il nonno gli corsero incontro seguiti dall’uomo di lenzuola. Che fì, com’è success, piagnucolava il nonno accelerando il passo sciancato che gli aveva sempre conosciuto. Per lo spavento di quell’intonazione dolente che gli era invece estranea, Adamo poggiò la fronte sulla pietra e chiuse gli occhi. Si sentì sollevare e i calzoncini stretti sul ventre, i suoni confusi, l’aria di terra. Prese a scavare la pietra con la punta delle dita per arpionarsi ai segni di ferro che non sapeva essere lettere e numeri. 1923-1946.

Poi venne agguantato, arrotolato in un maglione e, in una pasta di lacrime e moccio, subito tradotto fuori dal cimitero, dove aveva trascorso ore felici sul marmo ghiacciato, in ascolto dei grilli, della civetta e del sentiero scricchiolante di ghiaia che i ragazzini di giorno discendevano in picchiata sgommando. Mè, mo torna Adamuc’, gli aveva suggerito il padre, ma lui era rimasto a contemplare le foglie dell’albero lucidate dal vento della notte. Supino, con le gambe raccolte sul busto, aveva ammirato quelle foglie e dietro le foglie le stelle, ammucchiate e scintillanti come dal gradino di casa non apparivano mai.

Il cimitero era circondato dai frutteti dove molti di domenica pranzavano al sole, sdraiati su tovaglie bucate. Vagando per quei giardini Adamo riceveva in dono ciliegie e pesche succose. Shìne com’ no confermava il padre, poteva accettarle, ringrazia e Adamo ringraziava. Un pomeriggio, lontano dalla madre da tanti giorni quanti rendono corti i vestiti e lunghi i capelli, aveva trovato su un uscio un cestino di mele e lo aveva preso pensando, ma non sentendo, shine com’ no. Poco dopo due uomini in divisa avevano bussato alla porta chiedendo vostro nipote è in casa? È stato denunciato per furto. La nonna aveva ululato per l’onta e la protesta, ma allo stanarlo sul retro con il cestino tra le ginocchia e le guance gonfie di frutta, era scoppiata a ridere, e con lei gli uomini in divisa. Avevano riso, e riso, tutti tranne Adamo, prostrato dal mal di pancia. Ia’, mo vattinne a papà, ma non si era mosso. Aveva percorso la strada in discesa dietro il carro del prete, e in salita con i soli nonni, ma poi di nuovo in discesa, senza altri che il buio e le stelle, per fissare il punto esatto in cui gli uomini che gli toccavano la testa con mani di legno avevano lasciato il padre. Nella foto incorniciata indossava una camicia bianca con un fiocco di carta al collo. Ti sì fatt’ grande, gli aveva detto per premiare il coraggio del bambino che Adamo non poteva più essere. Mammà mo risposa, zizì è pateto. Adamo aveva continuato a guardare le foglie ballare indifferenti.

Canta Adamuc’, gli aveva proposto il padre al mattino, e lui aveva cantato lungo tutta la strada sterrata che portava alla spiaggia, riempendo i polmoni di aria salmastra e restituendo alle chiome dei nespoli le sue fantasie più dolci, il desiderio di vivere libero in città, divertirsi e guadagnare. Erano verde, erano verde ’e fronne, intonò scendendo dalle fratte all’arena. Aveva temuto di scoprirsi la voce spezzata come le costole, il fiato corto, il passo molle, e invece riusciva ad accontentare il padre con i più schietti vocalizzi. La fine del mondo, lo sentì infatti gongolare. Me pare ancora ’e sèntere sì a vita mia, insisté Adamo esaltato dal riconoscimento. Era felice che il tono tenesse nonostante i fianchi contusi, la giornata di vacanza era lunga e ancora piena di occasioni.

Al mare c’erano solo coppie appartate e qualche pescatore in riva. Adamo passeggiava controvento, rifiatando dal cicaleccio che sulla corriera, a scuola e al bar avvolgeva ogni suo sorriso e ogni suo silenzio. Cussì ci piace a nuie. Così piaceva a loro, era vero, si disse, scalciare pietre senza pensieri, fumare e cantare con sentimento. Il mare era di vetro, il cielo una coperta. Adamo si massaggiò in segreto i due ematomi sulle anche, ovali corti e larghi come le suole delle scarpe che li avevano impressi. O come le foglie di magnolia che avrebbero ombreggiato il suo sonno cittadino, tra le braccia della destinataria della lettera nascosta in tasca. ’Sta vita che sarìa s’io nun tenesse a te? Ispirato dalla visione, aggiunse il verso nello spazio bianco che precedeva la firma. Mancavano due mesi alla comparsa natalizia della bella guagliona, come lei non avrebbe tollerato di essere definita se avesse udito ciò che solo Adamo poteva. Ma assai bella, brav’ rintuzzava il padre a sorpresa di tanto in tanto, per ricordargli a quale fine fossero destinati i suoi dispiaceri quotidiani. Era un puro caso che la sera precedente Adamo avesse ricordato di trasferire la lettera nel vestito della domenica, prima che quello della settimana fosse messo a bollire. Immaginò gli occhi da gatta fondersi in un orrore ciclopico, la bocca accartocciarsi in un cruccio e ridacchiò imbarazzato. L’amour, l’amour, che te fa fa’ l’amour, buttò lì il padre per calmare il tremolio di ginocchia in cui sempre l’idea di lei lo precipitava.

Poi le nuvole stesero un velo sulla spiaggia e nel cuore trillante di Adamo, il vento increspò il mare con piccoli mulinelli di schiuma e la sabbia si sollevò in un nastro feroce. S’è fatt nir nir, sospirò il padre per avvisarlo e Adamo mirò dritto alla gola del porto, dove trovò la coppola, le braccia conserte e la bocca serrata in un taglio. Per un minuto o due non fece altro che registrare le onde dietro di sé, quanto eterne e vere, sentendo la potenza del mare allargargli le spalle, raddrizzargli la schiena, tendergli i muscoli, uno a uno. Sullo sfondo del panorama al contrario erano il muro di sassi, lo sbattere delle persiane, la chiesa, la piazza, il bar del corso, le saracinesche abbassate, la villa, le panchine, la fontana e quella cattiveria piccola così. Corr’ Adamuc’ precisò il padre colpendo forte al centro della mente buia di Adamo, poiché mai, nemmeno nei giorni più duri, lo aveva spinto lontano.

Li vede questi? gli chiese il medico. Adamo non confermò l’ovvio tenendo gli occhi fissi sulla lastra. Sa che cosa sono? Sembravano foglie di una talea ben radicata nel terreno, o piccoli funghi germogliati all’ombra di un boschetto. Metastasi, e uccideranno sua madre. Suo padre è informato? Suo padre era morto, ed era vivo, e non aveva mai sentito la parola metastasi, avrebbe puntualizzato Adamo se di fronte non avesse avuto uno dei morti, ma uno dei vivi. Cosa possiamo fare, commentò piatto invece, per fingersi interessato e andare al sodo. Niente, non possiamo fare niente. Adamuc’ lo chiamò il padre per sollecitarlo a dire altro. Adamo controllò l’orologio facendolo roteare sonoramente sul polso e strinse la mano al medico; poi, giunto al pianterreno del corpo B, telefonò al fratello e gli riferì ciò che gli era appena stato illustrato senza note di biasimo per l’interrogatorio patibolare. Più tardi, mentre percorreva il centro a passo d’uomo sgrullando la cenere più all’interno che all’esterno dell’abitacolo, sentì le parole del padre carezzargli la barba lunga due giorni. Starebbe bene partire consigliava con il tatto che sempre gli usava, ma poi, come spaventato dalla mancata reazione del figlio, aggiunse: Sì tu il primo. Adamo sapeva di essere il primogenito, e l’unico ad avere dimestichezza con le carte, la casa, la banca, ma anche che nulla sarebbe riuscito a farlo retrocedere nel passato, nemmeno il commiato da chi lo aveva messo al mondo. Non sia mai, non seppe trattenersi dall’infierire il padre, che ti penti quann’ è tardi. No, replicò Adamo fermo, era sfuggito alla risacca delle onde e non si era scusato per aver rubato le mele, la sua piccola storia aveva tentato continuamente di attribuirgli colpe che colpe non erano.

Nel pomeriggio andò a prendere le bambine al corso di musica e con la scusa di voler sentire quanto fossero progredite dispose le sedie in balcone per suonare qualcosa insieme. L’acqua te ’nfonne e va, urlarono con due chitarre e tre voci al boschetto su cui affacciava la palazzina. Angeli sono, stelle del firmamento gli sussurrò il padre perché capisse che gli era vicino in ogni istante, dalla sua parte ovunque fosse. Canta Adamuc’ e Adamo cantava, assecondando le stonature delle figlie con tutto il fiato che aveva in corpo e gettando ogni dubbio residuo a quel tramonto monco d’oro e di rosso nella certezza che il brutto potesse infine scivolare sulle piastrelle lucide, mutare in linfa, penetrare la terra secca del giardino e generare un altro platano, che il sodalizio attorno al quale l’asse della sua vita aveva girato non subisse intrusioni, che i vivi restassero coi vivi e i morti coi morti con quell’unica, personale eccezione, e che l’eccezione durasse in eterno, tramandandosi. Piangi? gli chiese la piccola. Ti prego piangi! lo spronò la grande, ti vuole consolare, disse indicando la sorella, è la fissazione del momento. Ma nessuno è più felice di me, replicò Adamo, ed era vero: nessuno era più felice di lui.

Nel Giorno dei Morti, che era il giorno dei vivi, Adamo tornò a controllare in quali condizioni versasse ciò che si era lasciato dietro. Il cielo era bianco e i rami degli alberi lo additavano agonizzanti come a dire sai e non parli, tu lo sai e non dici niente. Una coppia di mezza età puliva a testa china il vialetto con rapide mosse decise, l’uomo spazzava affastellando la sterpaglia in capannelli che la donna travasava dentro grandi buste nere. Adamo li salutò prestando attenzione a non interferire coi loro mucchi e distratto dallo schivarli si trovò di colpo al cospetto della foto e della pietra – il fiocco di carta, gli occhi di fuoco, 1923-1946 – senza riparo dall’emozione, ma l’emozione era il sollievo e non recava violenza. Sempre chesto sono, ribadì il padre snervato dalla sua circospezione, la senti anche tu la voce, che giovane rimane. Adamo si mise in tasca una foglia secca prefigurando il milione di frammenti puntuti che ne sarebbe derivato, tra i ricci crespi della fodera del montone. Un pizzico per ogni ragione del bene, un pizzico per ogni ragione del male. Semp’ a penzà e ripenzà lo redarguì il padre morbido. E morbido era tutto, di quel giorno, il prato, il muschio, la stoffa, i petali, il suono aperto e poi chiuso del proprio nome che Adamo sentì cantilenare quando era ormai prossimo all’uscita. Da una siepe tosata di fresco sbucava il volto raggrinzito di un buon amico, furbo e triangolare come il tempo lo aveva conservato. Il padre, tramortito dal riconoscimento, strepitò ved’ tu come s’è fatt’! trovando il bambino di un tempo canuto e zoppo, invecchiato com’era il figlio, e come lui non era. C’incontriamo nella terra dei vivi, disse l’amico quando fu tanto vicino da toccare la spalla di Adamo. Rivelava nel portamento una maestosa decadenza che la parlata lenta, come di chi voglia essere meglio compreso, non smentiva. Hai ancora la Olympia blu? gli chiese Adamo per camuffare quanto gli fosse duro quel morbido, quanto nero quel bianco. L’amico emise un sibilo che era forse ironia e guardandolo dritto negli occhi scandì fuori contesto: ho sempre avuto di te una stima, un’ammirazione. La prima foglia si ruppe sotto la pressione delle dita, e continuò a sminuzzarsi mentre l’amico infilava tra i pensieri sconnessi nuove implacabili e definitive sentenze. Passano gli anni, ma i sentimenti tuoi non si spengono. Poi tacque, aspettando una reazione. Adamo scosse confuso la testa per chiarire che anche lui credeva in quella negazione e no, si risolse a dire rimestando la foglia rotta in tasca, non si spengono. Adamuc’, disse il padre, jammucenne.

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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