Lorenzo Mizzau: due poesie
Introduzione di Massimiliano Tortora
La ricerca poetica di Lorenzo Mizzau in questi anni si è concentrata su due aspetti. Il primo è quello della tensione narrativa. I suoi testi, infatti, descrivono situazioni, in cui ovviamente agiscono dei personaggi (Tom in questo caso) e si riconoscono scenari, ambienti, luoghi. Insomma come in ogni narrazione vi è uno spazio e soprattutto un tempo che scorre. Nel caso di Mizzau – come si vede leggendo il primo dei due testi – la temporalità è duplice: quella della scena del testo e quella (esibita e dichiarata) che separa il narratore-poeta dal protagonista. E a fronte di tutto questo scorrere del tempo, la narrazione però non parte, inciampando su sé stessa, come se fosse contrastata da qualche intralcio non pienamente visibile. Se ne ricava un senso di stasi e di immobilità. Questa immobilità conduce al secondo punto: la rappresentazione del soggetto sofferente. L’io di Mizzau non è in armonia con il mondo, ma nemmeno in una fase di scontro. E del resto non si può dire neanche che l’io subisce il mondo: semmai lo ha già subito, ne è rimasto vittima o ferito, e ora vive il conseguente dolore e l’inevitabile disagio: un disagio che trova espressione in immagini e tenta una sua via di espressione attraverso le continue allitterazioni, che creano un significativo rumore di fondo. Ed è con questo rumore di fondo che Mizzau cerca di sintonizzare il suo lettore.
- In cui si racconta l’ammirevole tentativo di Tom di far fronte alle insidie nascoste nel cuore del giorno
Tom s’è spinto alle estreme conseguenze:
misurava i marciapiedi con scarpe
nuovissime e pensava senza impegno
nell’alba opaca, cioè:
farciva fantocci di fumoluce
che non si appagavano di misere lotte
(la gloria militare persa nelle
sospirate battaglie giovanili,
col pieno vigore dei cinque anni:
sconfitte da papà le orde verdi
e la retrovia dei supereroi);
soldati rivoltati, dunque, assediano
il fiacco generale.
Tom faceva programmi per la sera,
scomodava gli amici,
e non prendeva sul serio il pericolo.
Una bici sale sul marciapiede,
cinque minuti fa,
evitando con eleganza i contrattempi
di macchine e rotaie.
Tom aveva imbrigliato la sua infanzia
con strenua fatica e il consueto scoramento
in quell’istante, e imbastito la biga
raccomandandosi alla mansuetudine
del vacillante senso della vita
che poteva dirsi in quell’istante chetato,
stabilito con malferma risoluzione.
La bici passò e d’istinto al muro
si appiattirono le sudate architetture
diplomatiche delle età del mondo:
l’accordo era saltato e Tom lasciò
la propria chanche seccare sul selciato.
Il giorno gli si chiuse sulla nuca.
2. L’architetto e la preistoria
Non da dentro ma da fuori, com’è
che si esce al vento? La sistole è il nodo al fazzoletto:
il muscolo è il tessuto più pesante:
il suo ritmo è ritornare al suo nodo:
àncora e una corda di grasso l’assicura
da vecchi venti in cui parlano più
che uomini, non ospitano voci
– inospitali, soli, sì, e terreni,
e spazzano i fondali corallini.
A queste latitudini
salgono a galla da mari viscosi
mondi come lucidi tuorli d’uovo,
grassi figli sopiti della terra,
non piangono salendo dalle faglie:
pacifici, corpulenta gioia per gli occhi,
– e ogni volta lo ricordo di nuovo.
È fondamentale il ruolo che gioca
la pesantezza dell’impulso alla discesa
nel parallelogramma delle forze.
Unghie grigie d’argilla
di mani piccole e concave e dita
piccole e rigide consolidano il fondo
della buca: aperto, aperto, arginato
il rovinare della sabbia nella buca:
non più scendere e riportare la sfilata
dei fossili e dei troni
di templi e vestiti e di tutto ciò che torna
(poiché già ci hanno detto che il destino
lasciò andare come un brutto aquilone chi
disperava del governo del sole
e il nuovo lo chiese alle porte della notte)
ma a cementare le pareti del riparo, e
dargli il nome di casa.
È qui che si attende. Sarà il bacio
della risacca a benedire la mia casa.