Branchi di cani

di Laura Mancini

Non so quando fu che iniziai a pensare ai branchi di cani. Branchi, di, cani, sarei tentata di scandire per ricordare come singoli elementi possano compattarsi in un simbolo monolitico e depositarsi nella mente fino a produrre calcare e ruggine, fino al totale squagliamento in un immondo pantano. L’idea era prima assente e poi costante, mi svegliava di notte con dettagli sino ad allora trascurati e caricava di nuove energie visive durante i rituali di preparazione alla giornata che incombeva al di fuori della porta; infine percorreva con me le strade trafficate e rabbiose della città mentre accompagnavo le donne da casa alla stazione e dall’aeroporto a casa a bordo del mio taxi rosa senza licenza che mi esponeva al linciaggio della mafia turistica. Forse l’immagine dei branchi di cani venne a me per sostituire quella del linciaggio – un’alternativa più surreale ma per questo suprema al genere di brutta fine cui l’esperimento di auto-reddito mi esponeva, una fantasia di violenza incontestabile, impossibilitata a un co-protagonismo con altre morti. Erano i cani e i cani soltanto a potermi finire. Ciò che vedevo era semplice da decifrare: un compatto gruppo di cani bavosi deciso a uccidermi poiché l’istinto gli ordinava di farlo. E contro l’istinto non c’è molto da obiettare, valutavo con un convincimento che non avevo mai provato di fronte a nulla. La mia unica scelta fino all’inizio dell’ossessione era stata quella di lasciarmi ossessionare. Che cosa studiare, con chi dividere le spese di un appartamento, dove andare in vacanza erano questioni che non avevano mai raggiunto un’evidenza alla quale reagire secondo un preciso e implicito schema – A più B uguale C, C meno B uguale A eccetera. Nel sogno a occhi chiusi o aperti i cani si manifestavano all’improvviso cogliendomi alla sprovvista come l’organismo giudicante che non mi avrebbe fatto transitare e soprattutto che non mi avrebbe lasciata vivere ponendo fine a ogni problema.

Per scrivere questo memoir flash ho ripercorso in ordine cronologico le occorrenze del personaggio “branco di cani” nella mia quasi quarantennale vicenda e non so se il risultato sia quanti o qualitativamente rilevante, alla rilettura non sembra che i singoli episodi abbiano avuto un significato dirimente, nessuno di essi pare aver segnato un prima e un dopo, nessuno di quei branchi ha spartito le acque della mia in fondo lineare esperienza. Eppure la sola ripetizione epifanica, per ragioni misteriose e dunque degne di riguardo, mi pare acquisire un peso ogni giorno più tangibile. Un peso e un ringhio che mi porto dentro in ogni attività, dalla più squallida e corriva – avviare la lavatrice, parcheggiare la macchina, bollire le zucchine, depilarmi le ascelle, pagare le bollette – alla più intensa e complessa – non saprei citarne alcuna.

La prima volta in cui mi imbattei in un branco di cani avevo otto anni e mi trovavo a Bracciano, nella sontuosa e decadente villa di un’amica dei miei genitori. La residenza era composta da due piani di stanze su stanze e un immenso giardino con campi da tennis, piscina vuota e pista di atterraggio per elicotteri e jet privati. L’amica dei miei l’aveva acquistata a un prezzo stracciato da un attore americano che doveva aver coltivato il pallino di quella precisa zona lacustre durante il breve periodo in cui aveva avuto successo e un budget illimitato per dare sfogo alle sue in fondo scontate megalomanie hollywoodiane. Tra i segnali di rovina della casa c’era un branco di cani semi-randagi che si aggirava per il giardino – ettari ed ettari di parco, a loro completa disposizione. Poiché i miei genitori mi avevano avuto a un’età in cui negli anni Ottanta non era molto comune mettere al mondo bambini i figli dei loro amici nella maggior parte dei casi non erano miei coetanei ma già adolescenti e si sottraevano ai raduni dei nostri andandosene a spasso con i compagni di scuola, in viaggio, in gita, o in motorino chissà dove. Per la noia quel giorno mi misi a fare scherzi telefonici digitando numeri a caso da una delle camere da letto arredate con moquette, specchi, abat-jour e tolette. Poi vidi i cani dalla finestra, li corteggiai con lo sguardo seguendo il loro compatto moto verso una parte avvallata del giardino. Li raggiunsi all’istante, mi sedetti all’ombra di un albero che nella mia ricostruzione fiabesca è un ciliegio e lì cantai per un tempo pressoché infinito canzoni inventate di sana pianta sullo stile di Che sarà sarà. I cani si adagiarono sul prato intorno a me in un cerchio quasi perfetto e stettero immobili a sentirmi cantare. Ad ascoltarmi ammaliati, nella mia percezione degli eventi. Il randagio di taglia grande che si era sdraiato più vicino a me aveva sulla fronte una specie di sassolino lucido e liscio che toccai tante volte e che crescendo anni dopo valutai essere stata una zecca.

Il branco di cani che vidi a Palermo quando andai a trovare una mia compagna di università mi fece paura. Avevo conosciuto quest’amica di nome Virginia a un corso di storia contemporanea dal programma seducente – rivoluzione culturale, civil rights movement, Woodstock, Sessantotto, femminismo. Era tenuto da uno storico famoso e anziano che ipnotizzava la classe con un eloquio forbito e un ritmo retorico perfettamente equilibrato, scevro da qualsiasi isteria post-ideologica. Il parterre di Roma Tre era meno alternativo di quanto avessi sperato nel corso dell’estate precedente all’immatricolazione sognando gruppi di antintellettuali da sottoscala e collettivi politici internazionali. Trascorso un paio di mesi dall’inizio delle lezioni mi aggiravo sola per i corridoi cercando un nascondiglio dove mangiare il panino avvolto nella stagnola. Dunque quando avevo preso posto vicino a Virginia ero stata mossa da una certa speranza di socializzazione, basata su indizi estetici: esibiva uno spesso cerchio d’argento sul labbro inferiore – che lei chiamava “il gioiello” – e una specie di divisa collegiale nera a metà tra il redskin e il mod. Io ero reduce dalla fase rave e apprezzavo tutte le sottoculture di quello che consideravo un comune lato della barricata.

Al termine dell’anno accademico Virginia mi disse che sarebbe tornata a vivere a Palermo, si era trovata male a Roma, non aveva stretto amicizie – ero una rara eccezione, insufficiente a farle da tessuto sociale –, aveva discusso con la padrona di casa tanto aspramente da doversi rivolgere in modo poco punk ai carabinieri – che io chiamavo “le guardie” – e non le piaceva il cibo – la vostra frutta non sa di niente, diceva sprezzante. A Palermo, dove la raggiunsi ad agosto per consegnarmi al sentimento di inadeguatezza e anomalia assoluta nell’ambito del suo omogeneo giro di rocker coperti di tatuaggi old school, quello dei branchi di cani era un problema. Il suo migliore amico, vedendomi impietrita da una comitiva canina ruminante nell’immondizia, mi spiegò di aver trascorso le ultime ore di una notte brava a tentare di rientrare a casa senza riuscirvi per colpa dell’assedio dei cani che gli correvano incontro ringhiando al suo minimo tentativo di avvicinamento al portone del palazzo. Aveva dormito in macchina. Ero sbalordita, e lo fui ancora di più quando ritrovai il tema, o meglio il personaggio, o meglio il nemico, nel romanzo Il tempo materiale di Giorgio Vasta, segno che non avevo rielaborato il ricordo fino alla deformazione, ma che i branchi di cani all’inizio del secondo millennio infestavano Palermo.

Qualche anno dopo, ai tempi del lavoro creativo che non mi permetteva di progettare le ferie fino alla data dell’improvvisata partenza, il mio compagno e io trascorremmo una ventina di giorni di luglio e agosto in giro per il Sud Italia. Il nostro obiettivo era riabilitare l’immaginario del Sud, esplorarne le bellezze recondite, e ci ritenevamo tanto più soddisfatti quanto meno frequentata era l’area in cui ci riusciva di bazzicare, tappa dopo tappa. L’esito più alto del binomio ammirazione-emarginazione di quella vacanza fu Isola di Capo Rizzuto, in Calabria, dove pernottammo in un campeggio di fricchettoni adulti dediti ad attività come lo yoga kundalini al tramonto, i bagni nell’argilla rossa di cui la spiaggia in cui il campeggio collinare precipitava era ricca e la musica reggae che risuonava da mattina a notte fonda per tutta l’area delle piazzole, e del bar, e del parcheggio. Il campeggio era gestito da un collettivo bolognese, mentre il personale dedicato alla manutenzione e alle pulizie era calabrese e questo generava un’atmosfera coloniale scioccante che ci indispose e intrigò al tempo stesso. Non ci mischiammo né con gli uni né con gli altri, né con la popolazione villeggiante di cui snobbavamo le attività, tanto che una ragazza una sera mentre ero in fila per pagare la pizza mi chiese stai bene? per la sola espressione che mi deformava il volto.

Un tardo pomeriggio, per fuggire ai bassi dei subwoofer e alle nenie rastafariane andammo a correre nella campagna che circondava il campeggio, era sconfinata, selvaggia, arruffata e il miglior scenario possibile per un branco, di, cani. Al solo scorgere le nostre figure – una alta e sottile, l’altra minuta e luccicante – il maremmano capo, o così lo intesi sul momento, dalla sommità di un cucuzzolo ululò come ci si aspetta che faccia un lupo mannaro. Al suo richiamo seguì la repentina comparsa di una decina di simili che prese a venirci dietro nervosamente. Non correre, mi ordinò il mio compagno mentre entrambi correvamo, e proprio quando i cani erano a un palmo dai nostri glutei nervosi una macchina sopraggiunse sgommando con la portiera spalancata per offrirci un passaggio. Appena volati a bordo del sedile posteriore ci trovammo faccia a faccia con un pitbull che abbaiò forte ma era buono, spiegarono i proprietari, aggiungendo che quella dei branchi di cani era una vera piaga della zona. Loro campeggiavano nel villaggio accanto al nostro campeggio – un luogo per famiglie in cui faticavo a collocare la coppia di punkabbestia con pitbull che ci aveva salvato – e non uscivano se non in macchina.

E infine i cani di ieri. Guidavo lungo la Flaminia considerando con rabbia quanto odiassi le macchine, lo smog, la dittatura del motore, il modo assurdo in cui si accetta di vivere per mancanza di inventiva o stanchezza di ribellione. Da quando ho abbandonato il taxi rosa non utilizzo mai l’automobile e nelle rare occasioni in cui lo faccio mi agito, suono il clacson, pigio a scatto l’acceleratore, inchiodo e sbuffo tendendo la mascella e i muscoli della schiena. Guido con arroganza esponendo me stessa e chi è a tiro a inutili rischi. Dunque ieri mentre i pini e le loro radici ritorte sotto l’asfalto bitorzoluto scorrevano al mio fianco e contro le ruote della povera Yaris ho acceso la radio e sono piombata all’istante nel pieno del palinsesto di Radio Onda Rossa che a Roma Nord di norma prende male, ma ieri trasmetteva alla perfezione. Wow, ho pensato dimenticando le macchine e le radici, che fortuna. La trasmissione in cui mi ero imbattuta oltre a proporre una sofisticatissima selezione di musica industrial che Shazam non riconosceva trattava un tema affascinante: urbanistica siberiana. La giovane studiosa che dialogava entusiasticamente con il presentatore descriveva nel dettaglio il pregio artistico della metro di Mosca, le caratteristiche che rendono unica la sua architettura, il sistema circolare delle fermate. E poi, come un dono inatteso, ecco i cani: nella metro di Mosca ogni mattina branchi di cani vagabondi salgono a bordo di un vagone, cambiano linea al momento opportuno e infine scendono alla stazione del mercato, dove trascorrono la giornata girovagando alla ricerca di cibo. Quando il mercato chiude lo stesso branco riprende la metro, cambia nuovamente linea e torna al punto di partenza, nel luogo in cui ha sede la propria casa collettiva di strada, in una precisa zona della città. Un branco di cani randagi pendolari, capaci di prendere i mezzi di trasporto, uniti nel pellegrinaggio quotidiano. È un caso unico al mondo, studiato da zoologi e veterinari con chip e satelliti, che dimostra un comportamento animale in nulla inferiore a quello umano. Non ce la faccio, questo è troppo, ho detto ad alta voce accostando per fare benzina o gas – la spia rossa del serbatoio non spiegava quale dei due mancasse né mi era chiaro come insufflare il secondo nel veicolo senza farlo esplodere.

Sulla piazzola della stazione di servizio, nell’attesa che qualcuno apparisse per aiutarmi come ho sempre sperato e non è mai accaduto, ho visto comporsi la sequenza, ripetersi la visione, i branchi seguiti agli altri branchi, gli anni del bilico e quelli del disincanto, i cani alle calcagna di un nutrimento qualsiasi, gli studi inservibili all’autodifesa. Ho suonato il clacson che emette il suono ridicolo di una trombetta ridicolizzando ogni richiesta di attenzione pensando di nuovo a loro, imbattibili e determinati, pronti a sbarrarmi la strada in giardino, per strada, in campagna, su questa squallida piazzola che fa da terreno a un mancato incontro, da conferma a un colpevole spaesamento. Se solo arrivasse qualcuno, ho sussurrato al cemento mentre il ringhio montava, ancora e ancora.

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1 commento

  1. buongiorno e grazie a Laura Mancini e Silvia Contarini per questo bel pezzo che non fa una piega proprio perché non è “stirato”. Il rimando ipertestuale automatico è stato con un bel romanzo di Ian McEwan, “Cani neri”, che oggi sarebbe il caso di rileggere. Anche lì c’è una specie di ossessione per il cane, essere schiavo per eccellenza, che quando non è schiavo diventa malvagio. Il “miglior amico dell’uomo”, già. Ma al guinzaglio. Nel mio quartiere ci sono torme di cani al guinzaglio, e poi questa mania di contornarsi di cani feroci, “cattivi”, pitbull, etc.
    Da brava gatta randagia se mi capita gli offro una carezza, perché provo pena per loro. La provo per tutti gli animali “da compagnia”, anche per i miei due mici con cui ho un rapporto simbiotico da undici anni. Li castriamo, li sterilizziamo per adeguarli alle nostre vite insulse, spendiamo capitali in cibi per renderli obesi e soddisfatti. La Natura è per l’ennesima volta contorta e distorta e violata dall’egoismo umano. Gli animali non sono da compagnia, hanno bisogno di rispetto. Non fanno paura, siamo noi che li rendiamo terribili come siamo noi. E poi, tanto altro ancora ma sarebbe troppo per un commento a questa bella scrittura sincera. Grazie.

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silvia contarini
silvia contarini
Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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