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Si può recensire un tramonto?

 

 

di Sergio Garufi

Emanuele Trevi

“Si può recensire un tramonto?”. Con questo interrogativo ingenuamente paradossale comincia il primo libro di Emanuele Trevi, intitolato Istruzioni per l’uso del lupo. L’opera è una “lettera sulla critica” rivolta all’amico Marco Lodoli, composta quando l’autore aveva solo 30 anni, e quella domanda provocatoria racchiude in sé un’idea di scrittura che trascende i rigidi steccati che delimitano gli ambiti di competenza e i generi letterari. Concepito dopo l’abbandono dell’insegnamento universitario, vissuto come una pratica filologica sterile e oziosa riservata a una ristretta cerchia di adepti, qualcosa di radicalmente estraneo alla realtà quotidiana, Istruzioni per l’uso del lupo è un saggio che propone una via alternativa all’accademismo elitario e al bavardage sociologico del giornalismo culturale.

Per Trevi la critica è una mediazione fra il mondo e il senso, non fra l’autore e il pubblico, e la letteratura è lo strumento con cui il critico tesse relazioni fra l’uno e l’altro, o proietta l’uno nell’altro, o genera l’uno dall’altro; senza mai dimenticare che se nel suo orizzonte c’è solo la letteratura (e non c’è mondo, non c’è senso), allora ha già smesso di essere critica. Il suo scopo primario è quello di saldare “le cose che si scrivono e le cose che accadono”, rintracciando le parentele profonde che legano le une alle altre, e prendendo coscienza del fatto che le avventure intellettuali e quelle esistenziali non sono altro che due facce del medesimo destino, due ordini della realtà che si conferiscono a vicenda spessore ontologico.

Il mezzo grazie al quale realizzare questa mirabile utopia letteraria è il linguaggio. Il desiderio di recensire un tramonto allude infatti a uno stile di scrittura che sappia “donare alle parole, anche quelle più comuni, la stessa evidenza misteriosa del paesaggio che descrivono”. Ma questa ambiziosa poetica era anche un’orgogliosa rivendicazione di quanto la necessaria e vivificante osmosi fra arte e vita non potesse porre limiti di genere al suo personalissimo modo di intendere la letteratura, in qualche maniera preannunciando il suo futuro esordio come narratore. Già nella prefazione a Il mestiere dello scrittore e la sua tecnica, Trevi aveva eletto Sklovskij – che, in qualità di critico-scrittore, si oppose sempre alla “separazione delle carriere” – come proprio maestro di scrittura.

Nel 2003, la pubblicazione di un ibrido come I cani del nulla, la sua prima opera narrativa, provocò non pochi imbarazzi classificatori. Le recensioni del libro, quasi unanimemente elogiative, ricorrevano spesso all’ossimoro per definirne l’ambigua natura, e forse il meno strampalato fu saggio autobiografico, che teneva conto sia del perentorio sottotitolo (Una storia vera), che delle frequenti digressioni critiche. Fra le rare voci dissenzienti, vi fu chi accusò quel testo di “ombelicalismo”, che è il marchio infamante con cui si liquida, senza mai indicarne il discrimine, un genere letterario nobilissimo e famigerato, al quale appartengono sia le memorie del velleitario semianalfabeta che i capolavori di Proust e Céline o gli autoritratti di Rembrandt. Ciò non ha impedito a Trevi di proseguire il suo felice percorso creativo, regalandoci l’anno seguente quella commovente nèkya che è Senza verso, e oggi L’onda del porto, in cui recensisce un viaggio in India compiuto nei giorni della tragedia dello tsunami.

Proprio nelle prime pagine di quest’ultimo libro l’autore accenna, con evidente insofferenza, alla vexata quaestio della letteratura ombelicale, obiettando che “tutto il mondo, che lo si voglia o meno, è un ombelico”. A questo ci sentiremmo di aggiungere una riflessione di Meneghello, che sosteneva che “il punto di partenza di ogni narrazione è autobiografico, ma non dev’esserlo il punto di arrivo; perché qualunque frammento di esperienza personale, per ordinaria che sia, contiene in sé gli elementi costitutivi della realtà a cui appartiene, quasi lo schema essenziale, i semi del proprio significato”. Compito di ogni autentico scrittore, affinché la propria esperienza acquisti valore paradigmatico, è dunque quello di estrarre e convertire in simbolo questo dna del reale; in assenza del quale si resta confinati in una dimensione solipsistica. La voce di Trevi possiede una proprietà transitiva, cioè riesce a giungere fino al lettore, perché è alimentata da una disposizione all’ascolto che costituisce l’essenza stessa dell’atto estetico. E “ascoltare vuol dire trasformarsi in ciò che si ascolta, condividerne in qualche maniera il destino, aggirando la barriera dell’identità”; come scrive in Musica distante. Ecco perché il compiacimento ombelicale e la dimensione solipsistica sono del tutto assenti nella scrittura di Trevi.

L’onda del porto (il titolo traduce il termine giapponese tsunami) racconta la storia di uno scrittore romano in crisi creativa che lascia la propria città fredda e piovosa e parte per una vacanza in India programmata prima che si verificasse quella terribile ecatombe. Nelle speranze del protagonista, la vacanza ha un fine palingenetico, e per raggiungerlo dovrà essere, con fedeltà etimologica, un’esperienza del vuoto, di liberazione del sé. Nel saggio incluso in Costellazioni italiane 1945-1999, Trevi asseriva che “il narratore è colui che, letteralmente modellato dalla storia che gli si offre, prima accoglie in sé la verità del mondo ridotta alla misura di un racconto, e poi, a sua volta, la riproduce” .

Così, quando il protagonista de L’onda del porto giunge a Mullur, “un posto abbastanza insignificante”, prima tappa del suo viaggio, ne resta imbrigliato, e col passare dei giorni decide di fermarsi, di ascoltare le storie che gli si offrono. Vijesh e Vinosh sono due ragazzini che gli si fanno incontro e con i quali stringe amicizia. Insieme a loro trascorre il suo tempo, visitando il villaggio, assistendo a una rappresentazione teatrale, e venendo presentato a Neema, la ragazza italiana che dirige, assieme a J.P., un sessantenne dall’aspetto aristocratico, una scuola per bambini di strada figli di paria derelitti. Con la ragazza italiana si reca in un paese distrutto dall’onda anomala e sente il racconto di due pescatori, dalle fattezze simili a quelle del Gatto e la Volpe nel Pinocchio di Comencini, che al momento della tragedia erano in alto mare e non si erano accorti di nulla. “Tornati a riva verso mezzogiorno, per trovare il mare dove fino alla sera prima c’era il loro villaggio, l’unico posto del mondo che conoscevano, il Gatto e la Volpe erano rimasti soli al mondo. Né mogli né figli né fratelli erano scampati. Uno dei due ha detto una frase in tamil che l’amico tassista ci ha sùbito tradotto in inglese – abbiamo pianto tutte le lacrime che potevamo piangere”.

Il Gatto e la Volpe, ma pure i piccoli Vijesh e Vinosh, la bella Neema e l’anziano J.P., sono dei personaggi in cerca d’autore. Ascoltando le loro vicende, il protagonista compie una provvidenziale metamorfosi: riesce a dimenticare se stesso e le proprie angosce, perché quell’oblio “era il seme della felicità”; e da personaggio ridiventa autore, ritrovando l’ispirazione perduta. E’ un percorso parallelo a quello indicato da Nicolas Bouvier – autore di culto per gli appassionati di odeporica, su cui Trevi si sofferma in una delle illuminanti divagazioni colte intercalate alla narrazione -, in cui il viaggio viene inteso come “un processo di alleggerimento, una pratica concreta di inconsistenza e progressiva perdita di spessore”. Perfino lo stile segue lo stesso itinerario: all’inizio del libro è eccessivamente ricco ed esornativo, tanto da far pensare a un difetto di cui aveva già fatto ammenda (quando, in Senza verso, ammise di avere “un’inclinazione per un linguaggio pieno di aggettivi”), e in seguito diventa più controllato e asciutto, riuscendo paradossalmente a comunicare una maggiore partecipazione emotiva. Rarefazione sia stilistica che semantica, perché, come scrisse ne I cani del nulla, “tanto più arcane e belle, tanto più inspiegabili, le cose, quanto più sono semplici, non significano realmente nulla, sembrano non voler fare nemmeno lo sforzo”.

Il finale lirico e struggente con la tartaruga, per molti versi simile e speculare a quello di Vergogna di Coetzee, dà l’impressione di un happy end troppo rassicurante e consolatorio, ed è forse l’unica pecca di un libro dai molti e non trascurabili meriti. Al talentoso Trevi sembra mancare il coraggio della spietatezza, la volontà di regolare i conti, di chiudere l’incontro; quella che in gergo pugilistico è chiamata la castagna. Il lettore rimane in piedi, scosso e intontito, però non va al tappeto. E’ una specie di sentimentalismo o di cavalleria che si addice al personaggio, ma in arte non è un bene. Perché se è vero che “ogni grande racconto scaturisce da una disciplina dell’ascolto”, da una curiosità osservatrice, che sono i sintomi più nobili di ogni autentica vocazione artistica; è altrettanto vero che non si può ridurre la funzione dell’autore a quella di un volontario della Caritas o di un magnetofono, tipo il microfonista di Lisbon story. In questa indebita commistione fra estetica e morale, personalmente scorgo il limite più evidente dell’idea di scrittura di Trevi. Lo scrittore non va giudicato con i parametri delle buone maniere che vigono nei rapporti sociali, e la curiosità per ciò che lo circonda non è di natura filantropica. La funzione soteriologica si può compiere assumendo su di sé il ruolo sacrificale del capro espiatorio, o riscattando dall’oblio un’esistenza anonima, ma il rapporto con “l’altro” resta pur sempre una forma di vampirizzazione; come gli dèi che tessono sciagure affinché noi si possa raccontarle e leggerle.

Pubblicato su Stilos, 3 gennaio 2006

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7 Commenti

  1. Ecco come invogliare un lettore ad avvicinarsi a un autore che non conosce, o conosce poco. Ecco un esempio mirabile di quello che la critica dovrebbe/potrebbe essere. E, contemporaneamente, uno splendido esempio di scrittura in prosa. Complimenti.

  2. Fare critica consapevole su un autore significa anche andarsi a leggere le prefazioni, i vecchi saggi e gli articoli introvabili dello scrittore. Sembrerebbe una verità tautologica, lapalissiana, una banale impostazione di metodo. Ma non è così, lo sappiamo; e il pezzo – bellissimo – di Sergio brilla ancora di più anche per questo.

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Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.
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