La conservazione architettonica spiegata ai bambini (2 di 2)

di Gianni Biondillo


3. LA “FINE” DELLA STORIA

Dunque, con la scuola francese dei “Les annales”, la storia, nel Novecento, perde quella visione lineare dello trascorrere del tempo narrato attraverso il racconto sistematico dei fatti notevoli e memorabili di una nazione.
La presunta neutralità dello storico, che si immedesima nell’epoca studiata “dimenticando” ciò che è successo dopo per poter meglio ricreare l’incanto, viene ironizzata dal Benjamin che scrive: “La natura di questa tristezza si chiarisce se ci si chiede in chi propriamente “si immedesima” lo storico dello storicismo. La risposta suona inevitabilmente: nel vincitore. Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento”(16). E’ chiaro che la storia così come ci è giunta è la storia che i vincitori di ogni epoca hanno voluto che giungesse a noi; ma se sicuramente manca una documentazione alternativa a quella ufficiale, all’interno dello stesso patrimonio documentale si possono intraleggere, involontariamente sedimentate, se non le alternative almeno le altre possibilità di lettura: “Ciò che il testo ci dice espressamente non costituisce più l’oggetto preferito della nostra attenzione. A noi di solito interessa maggiormente ciò che ci lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera esplicita.[…] Nell’inevitabile nostra subordinazione al passato, noi ci siamo emancipati almeno nel senso che, pur rimanendo condannati a conoscerlo esclusivamente in base alle sue traccie, riusciamo tuttavia a saperne di più di quanto esso aveva creduto bene di farci conoscere.” (17)
La nuova storia sviluppa i suoi argomenti intorno al problema del tempo. Alla storia degli avvenimenti affianca una storia dalla lunga e dalla lunghissima durata, il senso univoco e progressivo del tempo si rompe lasciando lo spazio ad un sistema di tempi storici che cerca di cogliere la cultura umana al di là delle sue figure preminenti: da qui si comprende come tutto ciò che ci giunge dal passato ha valore documentario: un abito, un ex voto, un utensile, un segno sopra un muro… E’ la stessa carenza dei segni del passato (la loro, ovviamente, impossibile riproducibilità) che fa della loro conservazione l’imperativo metodologico (oltre che culturale) per lo storico. La storia non si fa dalla semplice somma delle sotto-storie ne nessuna di esse può arrogarsi il diritto ad una dominazione culturale: “Noi non crediamo più alla spiegazione della storia mediante questo o quel fattore dominante. Non c’è storia unilaterale.” (18).
Ma la storia più difficile e affascinante da scrivere è la storia delle mentalità, cioè una storia di quelle mentalità del passato che non sono più attuali; è questo un concetto assolutamente contemporaneo dato che “La storia positivista del XIX e dell’inizio del XX secolo ammetteva diseguaglianze tecnologiche, economiche, “arretratezze” dovute alla mancanza di conoscenze e perfino decadenze, ma non l’esistenza di differenze a livello della percezione e della sensibilità.” (19). Crollato il mito di una immutabilità delle mentalità e crollata con essa l’idea di un giudizio estetico che si fa univoco ed universale, l’idea di riproporre il ritorno di un’opera da restaurare ad un splendore originario, data l’impossibilità di una analoga percezione, si dimostra assurda.
L’operazione di separare la storia dell’arte da una “storia generale”, per quanto valida sul piano analitico, è errata se virtualmente non la si collega al “resto del mondo” andicappando l’opera d’arte dalla sua ricchezza storica e culturale e dandone una lettura faziosa e parziale. Non che lo storico, come si è già detto, non sia di parte: è chiaro che anch’egli non può stare al di fuori della sua cultura e della mentalità del suo tempo; la storia in questo senso è, per dirla con Foucault, “un certo modo che una società ha di dare statuto ed elaborazione a una massa documentaria da cui non si separa”(20); ma è altrettanto chiaro che l’intervenire direttamente sul patrimonio documentario per scrivergli sopra “l’unica” storia possibile è un’operazione ormai legata ad un concetto di modernità che non ha più senso; è solo la conservazione del patrimonio documentario che può permettere quella pluralità dei racconti che caratterizza l’essere contemporanei.
Il nostro secolo è il secolo della perdita della visione del mondo come un sistema di “stelle fisse”. La triade positivista progetto-programma-progresso, che caratterizzava ogni disciplina “moderna” tra cui anche il restauro, perduta l’univocità del tempo, presso la quale essa aveva senso, si disfa. Morta l’idea di Dio muore con essa un’idea di riscatto, di un tendere verso… (tipica anche della cultura marxista); le ricostruzioni razionali, anche e soprattutto nella scienza, non possono ricostruire tutti i passaggi logici dell’esistere; nell’orrizzonte del mondo contemporaneo l’uomo si deve muovere, hic et nunc, discretamente(21). La stessa terna estetica bello-vero-bene, distrutta già da tempo dalle avanguardie storiche, perde di significato: Arte diventa tutto ciò che noi chiamiamo arte.
La “bellezza” non è più insita, metafisicamente, nell’opera d’arte universalmente riconosciuta; l’esperienza estetica si caratterizza nel riconoscersi appartenenti di una comunità che esperisce in maniera analoga il “bello”(22); la massificazione della cultura è anche una moltiplicazione delle “comunità estetiche”. Distrutta l’univocità del valore estetico essa non può più essere la discriminante di un restauro; perduta la possibilità di scrivere una “storia assoluta dell’arte” ogni restauro che tenti di riproporre un valore estetico a discapito della multileggibilità del documento si dimostra un’azione di violenza culturale. Perchè se più nulla è sicuramente distinguibile dal bello questo significa che tutto ciò che ci proviene dal passato è, ipoteticamente, “bello”.
(Questo è chiaramente il paradosso dei paradossi: tanto quanto allora, mi si può ribattere alla maniera dei futuristi, tutto ciò che viene dal passato è ipoteticamente “brutto”. Certo. Nessuno può e deve veramente esimersi dal proprio giudizio di valore: il passato non è sacro e inviolabile in sé; non deve mortificare la qualità del contemporaneo).

4. IL CORPO ARCHITETTONICO

La suddivisione del costruito in “architettura” ed “edilizia” è diretta conseguenza di una posizione estetica di matrice idealista (riconducibile addirittura a Platone) che vedeva la predominanza dell'”idea” sulla “materia”, la quale ha un’analoga similitudine nella separazione dell'”arte” dalla “tecnica”(23). In pratica: se è vero che la materia, attraverso l’utilizzo della tecnica, permette l’epifania dell’idea artistica, è in realtà quest’ultima che interessa all’intellettuale escludendo dai fatti interni dell’arte i problemi di bassa manovalanza tecnica. Questa suddivisione fra arte e non-arte nel costruito era anche un modo di deresponsabilizzarsi da parte di una certa intelighenzija architettonica riguardo discorsi inerenti la pianificazione disastrosa attuata dal dopoguerra in Italia; come a dire che tutto ciò che non fosse “arte” non dovesse entrare a far parte di interessi morali da parte dello storico demandando in altra sede, quale ad esempio quella politica, la problematica(24).
Inoltre la larga provenienza da studi umanistici faceva degli storici dell’arte dei promotori della “pittoricità” dell’architettura. Se l’opera è IDEA il valore della materia è puramente strumentale; è conseguente di ciò l’idea di restauro: ripristino della forma “ideale” attraverso la sostituzione della materia degradata(25).
Ma ciò che gli storici idealisti non sapevano (o non volevano sapere) è che il divenire del tempo non agisce solo sulla materia ma anche sullo stesso esperire dell’arte: l’unità mentale della cultura positiva, che vedeva nell’Idea la realtà non transuente dell’arte, è in degrado (potenza del tempo!): non saremo noi a riproporne un restauro (semmai una conservazione…).
E’ il corpo, non più lo spirito, l’argomento dell’estetica contemporanea: “E’ per l’arte ragione di vita e di morte essere immersa con tutto il suo corpo e i suoi sensi nella natura, proprio perchè il suo corpo vivente è lo stesso mondo delle materie. Essa si fa, prende corpo, nei suoni, nei colori, nelle crete e nei metalli, si fa manipolazione tecnica delle materie (secondo le singole tecniche artistiche, al limite una per ogni arte, ma anche una per ogni opera) nella misura in cui si fa selvaggia immersione intuitiva nei fiumi divenienti della natura.” (26). L’ambivalenza del significato della parola techne (arte-tecnica), come ci ha fatto notare Heiddegger(27), riporta le modalità dell’edificare in un ambito simbolico inscindibile dalla lettura estetica: la materia è come un sovracodice simbolico che permette la lettura significativa dell’opera; è impossibile proporre una supremazia della forma sulla materia: la costruzione di un edificio in polistirolo, per quanto formalmente ineccepibile, si dimostrerebbe “insensata”, cioè, innanzitutto, priva di scambio corporeo di senso. Non si può comprendere l’architettura attraverso le sue riproduzioni bidimensionali: l’architettura non sta né nel disegno d’architettura né nella fotografia d’architettura (che ne sono in qualche modo delle traduzioni traditorie); l’architettura sta nell’oggetto architettonico, nella sua fisicità, nell’interazione percettiva che si instaura tra il corpo umano ed il corpo architettonico. La diseducazione dei nostri sensi ha portato ad una priorità della vista che ha giustificato qualsiasi tipo di integrazione atta al recupero di una perfezione formale: l’uomo ideale comtempla l’opera vivendola ad uno stadio emotivo assolutamente razionale. Ma così non è! Lo spazio di una architettura lo si percepisce anche, e forse soprattutto, attraverso gli altri quattro sensi: ad una storia “visiva” dell’architettura bisognerà un giorno aggiungere una storia olfattiva, tattile, gustativa, uditiva dell’architettura.
Ma, attenzione, la percezione di una realtà architettonica non è una percezione “pura e semplice”, animale: la percezione sensitiva che si instaura di fronte, od immezzo, ad una architettura è una percezione culturale dove la pedina della memoria gioca una parte fondamentale. E’ nel vivo della materia che l’uomo lascia un segno di sè e del suo passaggio sulla terra, nessun segno può sostituirsi al segno originario, la presenza del segno deturpato mostra, infatti, l’assenza di ciò che fu e che non può essere più recuperato, lasciandone la ricostruzione intuitiva alla memoria. All’interno della conservazione dei segni del suo passato l’uomo si ritrova, pone le coordinate del suo essere nel tempo e nello spazio.

5. LA MORTE DEL CORPO

Connesso all’idea di restauro vi è il concetto di recupero. Un recupero che guardando all’intero complesso urbano cerca di riproporre un habitat perduto, denso di tutti i suoi valori socio-economici, quasi miracolosamente, attraverso l’eliminazione delle superfetazioni che ostruiscono la visione ispirante e sovrastorica della città. Ma il tempo storico (ed anzi il tempo in generale) non si presta a fermarsi a richiesta: “esso non consente assolutamente di immaginare la vita come un meccanismo di cui si può arrestare il movimento per presentarne a volontà un’immagine immobile.” (28)
Bruno Zevi, con la sua classica loquela, non ha mezzi termini: “è perverso anchilosare la crescita, le strutture vitali non possono essere ibernate.” In questo senso il vero compito esaltante è non tanto “salvaguardare” (di quella salvaguardia asfissiante del “recupero dei valori del passato”) l’ambiente e il costruito ma è semmai il “reinventarlo con quotidiana tensione”(29).
Confermata e conservata la molteplicità segnica del palinsesto architettonico bisognerà correlare ad esso l’idea di un ri-uso, di una rimessa in gioco nella realtà urbana sia attraverso le dovute aggiunte che ne permettono un nuovo usufruire che di una nuova significazione la dove se ne sente il bisogno: “Interi quartieri sopravvivono in virtù della trasformazione semantica di alcuni loro edifici (i “lofts” di New York, le palazzine georgiane di Boston, gli edifici di Sullivan a Chicago) perchè è proprio in questa metabolè semantica che consiste una delle possibilità di persistenza dell’ immaginario.” (30) La salvaguardia del nostro patrimonio storico rientra, quindi, in quella logica ecologista che, consapevole della scarsità documentaria del proprio passato, chiede una partecipazione collettiva, e non solo disciplinare, alla conservazione attiva delle nostre realtà ambientali.
Ma, a pensarci bene, l’idea di bloccare ad un dato momento storico la realtà urbana del “centro storico” (idea tanto cara ai restauratori “tipologici”), sembra quasi l’ultimo disperato tentativo di nascondere una verità scomoda: l’entropia! Essa è in qualche modo la dimostrazione scientifica del divenire del tempo alla quale non si può sfuggire, quasi come l’ultimo giro di danza, al quale neanche l’imperatore od il papa poteva negarsi, con la Morte. Il degrado energetico di ogni realtà fisica ci segna direttamente sul nostro corpo, invecchiando: bisogna quindi decidersi da che parte stare. Se per la consapevolezza che comunque un corpo vivo è un corpo segnato, o per la lunga teoria dei tragici liftings che rimandano al poi una realtà che si recita di non conoscere. Oggi che la cultura “dotta” si sta riavvicinando (e in certi casi pericolosamente) al sapere mitico, dopo anni (secoli?) di fede altrettanto mitica per la ragione, è la cultura popolare, da sempre depositaria di culture altre, che sta perdendo il suo sapere simbolico: “non c’è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice.” (31).
La morte del corpo è oggi una abominevole anormalità.
L’attuale società tende ad omologare tutti i saperi, e tutti i sapori, sotto l’omnicomprensivo valore economico(32). L’omologazione dell’abitare è assoluta: dalla banalizzazione del costruito alla perdita del rituale abitativo. Costruire non è più un’operazione iniziatica e l’abitazione non è più un luogo dotato di senso ma, bensì, un bene economico: la “morte” di essa, se viene presa in considerazione, è la perdita di un capitale: “Tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte – è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell’accumulazione per l’economia.” (33). Nelle società primitive, o comunque in quelle preindustriali, la morte non era l’annullamento dell’essere: lo era, semmai, la sua negazione sociale. Al termine della sua esistenza un edificio non moriva, ma continuava a scambiare simbolicamente con la comunità: chi attraverso la sacralizzazione di un luogo, che comportava una vocazione del luogo (il genius loci) (34) attraverso i secoli, chi attraverso una vera e propria “antropofagizzazione” architettonica. Le singole parti dell’edificio venivano riassorbite in nuovi edifici creando una continuità sociale attraverso una trasposizione sia fisica che semantica dei contenuti simbolici dell’antico edificio: è in questo senso che un edificio si può dichiarare storico; non perchè rappresenta un dato momento storico, ma perchè è il risultato dello trascorrergli della storia addosso.
La città musealizzata è una città bloccata: è la fotografia di un ciò che “è stato”(35) e che non può più scambiare senso. La bestemmia della deperibilità, e quindi della peribilità, della materia viene ovviata dalla sua programmatica sostituzione. La distinzione operata dai restauratori fra arte e non arte diviene un’astrazione che si ritorce proprio sul sentimento estetico comune: ciò che non è “bello” può essere abbattuto; ciò che è “bello” deve essere programmaticamente ringiovanito: ma l’architettura che non può invecchiare è un’architettura già morta! Perchè con essa la fruizione e lo scambio simbolico sono come fossilizzati; in questo senso le operazioni di restauro appaiono analoghe a quelle igeniste dei funeral homes americani: “Morte truccata e idealizzata con i colori della vita: l’idea segreta è che la vita è naturale, la morte contro natura – bisogna dunque naturalizzarla, impagliarla in un simulacro di vita. In tutto questo c’è dunque il rifiuto di lasciare che la morte significhi, assuma valore di segno.” (36). Dimentichi dell’esistenza della morte il lento morire del nostro ambiente non ci smuove. Tranne nel caso dell’assurda, incalcolabile (e proprio per questo assurda, perchè non prevedibile dalla scienza), catastrofe ambientale(37). Il crollo inaspettato di un monumento, come nel caso della torre di Pavia o della cupola della cattedrale di Noto, ci scandalizza. Esso ci appare come il disperato sacrificio di un mondo che chiede, desidera, dispera di una nuova fruizione poetica dell’esistente.
Le reazioni a questo appello possono essere diverse: o l’ascolto continuo ed indifferenziato dei piccoli dolori del nostro patrimonio simbolico per ristabilire con esso una nuova relazione; o la ricostruzione in toto, come se nulla fosse accaduto, del monumento deviante, omologandolo “più bello e più grande di prima”.
Il restauratore pare, così, un psichiatra che propone per il suo paziente una terapia farmacologica d’assalto per poter ristabilire la condizione fisica precedente la malattia. Ma l’idea che questo possa accadere è assurdo; perchè ogni “malattia” ci segna, anche in senso iniziatico, irreversibilmente. Il problema non stà nel cattivo psichiatra ma nell’idea consolidata della psichiatria come disciplina(38): la conservazione, in questo senso, non è un anti-restauro! La conservazione, più semplicemente, non prende in considerazione il restauro come parametro disciplinare.

NOTE:
16) W. Benjamin, Angelus Novus / saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1962, pag. 75.
17) M. Bloch, Apologia della storia, P.B.Einaudi,Torino, 4ª ed.1973, pag. 69.
18) F. Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori, Milano, 1973, pag. 39.
19) F. Ariès in: La nuova storia, (a cura di) J. le Goff, Mondadori, Milano, 1983.
20) M. Foucault, L’archeologia del sapere, B.U.R., 1980, pagg. 10-11.
21) Vedi in riferimento a questi temi, sgombri da polemiche passato ormai un ventennio: G. Vattimo , La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985.
22) Vedi: H. G. Gadamer, L’attualità del bello, Marietti, Genova, 1986.
23) Eppure la predominanza della forma sulla materia, così come ci viene dalla tradizione aristotelica (vedi La metafisica di Aristotele), era già stata messa in dubbio in una splendida e isolata intuizione di Giordano Bruno: “Tal forma piuttosto deve desiderar la materia per perpetuarsi, perché, separandosi da quella, perde l’essere lei, e non quella che ha tutto ciò che aveva prima che lei si trovasse e che non può aver de le altre. Lascio che, quando si dà la causa della corrozione, non si dice che la forma fugge la materia o che lascia la materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma per prender l’altra.”; G. Bruno, De la causa, principio et uno, (dial. metaf.), IV, pag. 245.
24) Non facciamo di tutt’erba un fascio: in quegli anni Giuseppe Samonà (architetto però e non storico) scagliandosi contro i vecchi accademici che giudicavano “l’edilizia più modesta come non architettura” scriveva che considerava come architettura del nostro tempo “quasi solo quella legata alla vita intima quotidiana dell’uomo”. Vedi Francesco Tentori, I Samonà. Fusioni fra architetture e urbanistica, Testo & Immagine, Torino, 1996, pag. 15.
25) Su questi temi vedi: A. L. Maramotti, La materia del restauro, F.Angeli, Milano, 1989.
26) D. Formaggio, L’arte come idea …, pag. 18.
27) M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976; mi si perdoni l’ennesima, noiosa, citazione heiddeggeriana; comunque l’intera questione della tecnica letta attraverso gli scritti di Hegel, di Heiddegger, di Adorno ed altri si può trovare sviluppata nel primo capitolo (al quale rimando gli interessati) di: G. Nardi, Le nuove radici antiche, F.Angeli, Milano, 1986; se ne veda, in fondo, la smisurata bibliografia.
28) F. Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori, Milano, 1973-6, pag. 87.
29) B. Zevi, Paesaggi e città, Newton Compton, Roma, 1995, pagg. 95-96.
30) G. Dorfles, Elogio della disarmonia, Garzanti, Milano, 1986, pag. 122.
31) J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, U.E. Feltrinelli, Milano, 1990, pag. 12.
32) Della cinica economia del guadagno, nulla a che vedere con una economia morale come quella insegnataci da Ruskin; vedi, per intenderci, J. Ruskin, The political…, op. cit.
33) J. Baudrillard, Lo scambio simbolico…, pag. 162.
34) Si faccia riferimento, riguardo questi temi, a: C. Norberg-Schulz, Genius Loci, Electa, Milano, 1979. E a contr’altare alle parole del primo capitolo di: B. Zevi, Paesaggi e città, op. cit.
35) R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino, 1980.
36) J. Baudrillard, Lo scambio simbolico…, pag. 201.
37) Tutto un discorso a parte meriterebbero i problemi della scienza e le loro critiche, si faccia comunque riferimento a: E. Severino, Legge e caso, Adelphi, Milano, 1980.
38) Mi sto rifacendo qui (anche un po’ scherzosamente) a tutta una publicistica anti e a-psichiatrica, vedi: G. Antonucci, Il pregiudizio psichiatrico, Eleuthera, Milano, 1989.

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18 Commenti

  1. Beh, Gianni, devono essere dei bambini alquanto evoluti per leggere questo saggio, così ben documentato. Intanto, sinceri complimenti. E’ confortante, se non esaltante, constatare che ci si interroga e si ribadisce la necessità di tutelare i monumenti, i centri storici, di non sprecare i segni che, attraverso l’architettura, ci arrivano dal nostro passato. Questo in un’epoca in cui la speculazione edilizia e la voracità di avere dei metri quadrati o metri cubi da vendere sembra prevalere su tutto. Mi piace la tua distinzione tra restauro come riscrittura e rifacimento che comporta la distruzione di segni e la conservazione, anche se è sottile la ulteriore distinzione tra conservazione-museale e quella invece valorizzativa. Certo, no ai centri storici-museo, ma con estrema attenzione. Mi fa piacere leggere che c’è qualcuno – credo un progettista, no? – che non si fa sedurre dal gusto della sfida coi progettisti del passato, per cui dietro le parole di “tutela” e “valorizzazione” si cela la propria volontà di affermazione, il proprio confrontarsi coi grandi del passato. Conservare, tutelare (ed etrema cautela nel “valorizzare”) il nostro passato architettonico significa guardare al futuro. Tra i testi ti segnalo anche alcuni libretti dell’arch: Pierluigi Cervellati, che inventò negli anni Settanta il celebre piano del centro storico di Bologna: uno, in particolare, “L’arte di curare la città” (Il Mulino) è un libello abbastanza furioso che interviene anche sugli argomenti che tratti tu.

  2. E’ scritta con la dovizia con cui Razinger ha curato la sua prima enciclica.
    Spero di non doverti baciare le pantofole, o meglio il tecnigrafo..ah proposito c’è chi lo usa ancora?

  3. Stampato, letto e piaciuto. Mi commiato con gli auguri di buon compleanno (l’ho scoperto leggiucchiado i commenti in giro).
    Ma quanti sono? 28? :-))

    Buona giornata. Trespolo.

  4. Oggi?
    3 febbraio san Biagio!
    acquario come mozart, genialità, stravaganza, anticonformismo e intelligenza finissima.
    Auguri!!!!

  5. come nel senso che non hai capito o nel senso che non sai come fare?
    semplice ora e posto con ivnito diffuso a tutta la rete…..:-)
    cosi’ arrivano anche i lettori dei tuoi libri e i vari fans….

  6. Premetto che il testo ancora non l’ho letto, ma lo farò.
    Non ricordo quando e dove, una volta trovai su una rivista un articolo così fatto: una pagina bianca, senza testo, con solo i numeretti delle note sparsi qui e là, e in fondo le note coi testi di riferimento.
    Come per dire inutile che scriva il già scritto, leggetevi le fonti direttamente, qui e qui.
    Mi pare fosse una cosa di Peter Eisenman su un vecchio numero di Lotus, ma non ne sono sicuro.
    Ci sono persone colte che di un testo danno solo una scorsa alle note e in questo modo sanno più o meno qualcosa sul contenuto.
    Io qui ho fatto lo stesso, ma essendo rozzo, questa idea non me la sono fatta, cioè me la sono fatta solo un po’.
    Però ho notato che manca, tra l’altro, un testo di Alois Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, Bologna 1981, che per me è ancora un riferimento, un faro nella notte, argomentazione riguardante il rapporto tra architettura e tempo.
    Lo conosci Gianni?

  7. E’ un testo fondamentale pure per me, Tash. E molto di quello che scrivo è implicitamente vicino a molti dei suoi ragionamenti. Insomma: ti tocca leggerlo, il mio pezzo. ;-)

  8. letto, interessante.
    ma troppi concetti controversi, ciascuno dei quali meritava un approfondimento a sé, una trattazione specifica.
    ciascuno di essi possiede peraltro un’amplissima bibliografia, che può diventare, e qui e là nel tuo saggio effettivamente diventa, paralizzante ai fini di un discorso chiaramente intelligibile.

    esiste anche per gli edifici il concetto di integrità, che fa sì che per alcune opere sia importante il ripristino dell’immagine precedente la manomissione, il danno, la superfetazione, eccetera.
    non sempre la lettura del tempo in un manufatto è giusta e confortatante se danneggia il messaggio estetico del manufatto stesso.
    e se è vero che esiste un’estetica del tempo, del suo trascorrere sulle cose, è pure vero che una delle caratteristiche dell’agire umano consiste proprio nell’opposizione all’inelutabile degrado per conservare un’immagine significativa, importante, speciale.
    non è vero che la distinzione tra architettura ed edilizia sia artificiosa e aristocratica: è nei fatti e nelle modalità, anche autoriali che segnano l’origine di un edificio ed è molto utile per capire che pesci prendere all’atto della conservazione.
    una cannonata al centro della facciata di palazzo rucellai non è la stessa cosa di una superfetazione medievale del colosseo.
    non c’è dunque un limite netto tra conservazione ruskiniana (estetica del tempo) e restauro (estetica dell’oggetto): molto spesso è opportuno usare ambedue i registri, ambedue i sistemi tecnico concettuali, facendoli coesistere perché questo domanda una specifica opera, eccetera.
    e stiamo parlando di architettura: nell’arte figurativa il discorso è ancora diverso.
    insomma questa cosa che hai scritto meriterebbe un intervento a sé, non un commento.
    ma non sono mastro di chiavi, qui.

  9. Tash. Non sono d’accordo. Su alcune cose che scrivi ma soprattutto sul fatto che tu non possa replicare. Fallo e vedrai che io ti pubblico.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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