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Il fante atlantico

Gian Micalessin embedded a Falluja

terza puntata de “Il giornalismo italiano e l’Islam”
un’inchiesta di Roberto Santoro
[leggi la prima e la seconda puntata]

“E ora che ci faccio io tutto solo?”
“Lascia che ci pensi io, piccolo Berretto Verde”.
Berretti Verdi

logotipo Razzismi QuotidianiUn reporter di razza non sopporta l’odore di mocassini delle redazioni, preferisce scorrazzare in medio oriente in cerca d’avventura.
Mai una volta che sia rimasto in hotel, sempre fuori, a caccia di notizie, nella convinzione che basta un passo fuori dalla stanza per scoprire qualche eccitante novità.
Nel 1983, ventenne, Gian Micalessin era in Afghanistan con l’amico Fausto Biloslavo. I due hanno un remoto passato di militanza nella destra triestina e Biloslavo – ex Fronte della Gioventù – durante i suoi vagabondaggi è stato imprigionato e torturato dai sovietici, passando dai campi di addestramento dei falangisti ai tempi della guerra in Libano.
La coppia di giornalisti ha fondato la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa estera che con i suoi reportage di guerra si è guadagnata prestigiose collaborazioni con CBS, NBC, “Liberation”, “Der Spiegel”, “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”.
Oggi Micalessin scrive per “il Giornale”. Le sue crude corrispondenze dal fronte iracheno raccontano il dopoguerra dal punto di vista del giornalista embedded, che si muove al seguito delle truppe americane.

In Italia certi soloni del giornalismo considerano l’embedding una sorta di giornalismo prezzolato al confine tra malafede e propaganda. Io lo considero solo un punto di vista. L’inviato ovunque sia racconta solo lo spicchio di realtà che gli passa davanti agli occhi. Nessuno di quegli spicchi sarà mai la verità, ma contribuirà a regalare al lettore un’immagine verosimile.[1]

Il protagonista assoluto della narrazione di Micalessin è il Fante Atlantico (d’ora in poi lo chiameremo così), il soldato che combatte per le strade di Ramadi e Falluja, trascinandosi al confine con la Siria nella sua tuta distillante in kevlar.
Micalessin si cala così tanto nei panni del suo eroe da chiamarlo per nome: First Seargent William Sweet è un ragazzone cresciuto da qualche parte nel Nebraska, che avanza un passo alla volta tra le macerie per non finire spappolato sulle mine, alza il braccio e stringe il pugno per bloccare il plotone al minimo segno di pericolo.
Ogni dettaglio del giornalismo embedded è particolarmente vivido, chiaro. Siamo in perlustrazione tra le macerie di Falluja. All’improvviso sbucano un manipolo di ragazzini che circondano i Fanti e la tensione si stempera: “Slang! Un cancello, gli occhi stupiti di un bambino, quelli di otto marines, un infinito secondo di gelo, i mitra che s’abbassano, due testoline dietro la prima, il vicolo invaso di sorrisi”.[2]
Il sergente Sweet regala una manciata di caramelle ai bambini e in quest’immagine così semplice, in questo atto di nobile generosità, Micalessin riassume secoli di retorica del comando, fino a trasformare il gesto appiccicoso di Sweet in un’inquadratura consolatoria degna dei migliori happy end hollywoodiani: “Ed ora che ci faccio io tutto solo?” chiede il bambino vietnamita a John Wayne, che gli risponde: “Lascia che ci pensi io, piccolo Berretto Verde”. I due si allontano tenendosi per mano, sulla spiaggia, al tramonto.[3]

Un aspetto del mondo elettronico, postmoderno, è il rafforzamento degli stereotipi a proposito dell’Oriente. Televisione, film, e le risorse dei mezzi di comunicazione di massa in genere costringono l’informazione entro schemi sempre più standardizzati.[4]

Il giornalismo embedded è una forma di conoscenza immaginativa che serve a tranquillizzare le famiglie dei Fanti Atlantici in prima linea.
Il messaggio è rassicurante: mamma, stiamo bene, siamo più forti e più bravi del nemico, abbiamo visori notturni e sistemi di puntamento laser collegati alle centraline delle nostre stazioni orbitanti.
Dietro questo genere di scrittura ci sono i contributi dei diari di viaggio e dei romanzi di avventura che dal XIX secolo hanno contribuito a formare l’immagine che gli occidentali hanno dell’Oriente. Lo schema dell’eroe che parte per il fronte, vive una serie di avventure e torna a casa per raccontarle.

Io penso che questa volta valga la pena rischiare e tornare in Iraq. Questa volta non è curiosità amore dell’avventura o sprezzo del pericolo. È solo puro e semplice dovere morale e professionale.[5]

La precisione del linguaggio professionale, quando si tratta di descrivere armi ultasofisticate, sfiora la perfezione. Micalessin è bravissimo a tenere il ritmo della guerra rock, il sound sparato a tutto volume dagli Humvee, come in questa visionaria rappresentazione della base dei Marines: “una galassia risplendente, una palazzina di quattro piani, un rettangolo di cemento circondato da mitragliatrici, filo spinato, barriere, ampi spazi vuoti e bagliori di fotocellule”.[6]
La forza d’urto della Fanteria Atlantica appare un cuneo strategico impossibile da respingere o fronteggiare. I Fanti sono la punta di diamante dello sviluppo militare high-tech, una forza bionica che può essere colpita solo alle spalle, di sorpresa, o cadere in un imboscata, ma che non potrà mai essere sconfitta in campo aperto, in uno scontro frontale.
La guerriglia è l’unica tecnica che gli islamici hanno a disposizione per infliggere perdite al nemico. La potenza assoluta della Fanteria Atlantica può essere piegata solo dall’asimmetrica, folle pulsione del kamikaze.
Il musulmano in guerra è sempre sleale, incapace di battersi alla pari con il suo avversario; può soltanto contare sulla forza dell’inganno. La storiografia sulle Crociate è piena di sporchi trucchi congegnati da quei maestri della truffa che sono gli orientali: arcieri a cavallo in azione di disturbo; fughe simulate che costringevano i cavalieri franchi a rompere i ranghi; fare terra bruciata intorno ai nemici.[7]
Le cartoline dal fronte di Micalessin possono essere paragonate a film come “Zulù”, “Le quattro piume”, “Black Hawk Down”.[8]
Pensiamo alle scene degli eroici piloti americani caduti negli inferi di Mogadiscio. Colpiti a tradimento dal solito miliziano armato di RPG, i piloti di Scorsese precipitano al suolo e si trovano ad affrontare completamente soli la milizia del generale Haideed.
Nel film, ad avere un nome, una matricola, un’identità, sono solo i Fanti Atlantici, i Rangers e la Delta Force, non i nemici, la folla bruna di Mogadiscio, che appare invece il solito magma indistinto di corpi, destinato ad esplodere nella fiesta della morte finale, quando i cadaveri dei piloti americani vengono squartati e fatti a pezzi per strada. Accade lo stesso nei reportage di Micalessin. L’islamico è sempre un’idra di mille corpi senza nome, un garbuglio di mitra e di braccia.
Ha scritto George Orwell visitando Marrakech nel 1939: “Hanno forse dei nomi? O si tratta semplicemente di materia scura, indifferenziata, non più individuale di quanto lo siano le api o i cristalli?”.[9]

La strage sul ponte di Khadimya

Baghdad, 1 settembre 2005. Dopo il pellegrinaggio al mausoleo dell’imam Musa al Khadim, qualcuno mette in giro la voce di un attentato. La Fama corre veloce tra un milione di sciiti che stanno tornando a casa; la folla trema, si agita, e nel fuggifuggi vengono travolte, schiacciate e uccise un migliaio di persone. La peggiore tragedia dall’inizio della guerra in Iraq.

Di certo quel primo urlo, disordinato o premeditato, è l’inizio del terremoto. Il primo sandalo dinanzi a lui fa un passo a ritroso, investe il pellegrino dietro di sé. Così testa per testa, per mille, diecimila, centomila teste. Alla fine del ponte quel primo spintone decuplicato è un’onda, un sisma, uno tsunami sul formicaio disperato. Diecimila, centomila sandali a correre su teste e gambe, a calpestare mani e schiene. Il sangue dei corpi schiacciati disegna le barriere di cemento. Bimbi e donne spiaccicati strisciano con le ultime forze tra gambe e piedi in fuga, si ripiegano come fiori recisi, si spezzano in uno spruzzo di fango.[10]

La strage esprime magnificamente agli occhi del lettore occidentale il mito della massa islamica fuori controllo. Un’onda d’urto sconsiderata, incolonnata come una fila di vitelli pronti ad essere abbattuti al mattatoio.
Totalità anonima, spietata: il cumulo di sandali delle vittime abbandonate sulla strada; il neonato attaccato alla veste della madre morta; quelli che cercano di buttarsi dal ponte e finiscono affogati; chi spinge, chi urla ferito; un marito seminudo che abbraccia il lenzuolo in cui è avvolta la moglie; le acque fangose del Tigri piene di cadaveri.

L’arabo viene mostrato sempre come una moltitudine, niente individui, niente esperienze e caratteristiche personali, ma vaste panoramiche di enormi folle misere e infuriate o inquadrature di particolari, specialmente gesti ed espressioni di rabbia impotente e di grottesca irrazionalità.[11]

Particolari, dettagli: Thaer Abdel Razzak, diciannove anni, è una delle speranze della nazionale di nuoto irachena. Thaer si trova sul ponte quando si diffonde la voce della bomba. Lo spingono, si dimena, ma riesce a issarsi su uno dei piloni.
Attorno è il finimondo, un bambino oscilla pericolosamente, cade nel fiume, Thaer si lancia dietro di lui e lo riporta a riva. Il campione di nuoto ha fatto il suo dovere di piccola vedetta sciita. Sono questi apologhi a lieto fine che tranquillizzano la coscienza del lettore occidentale e ridanno umanità a quella massa senza nome.
Il 15 settembre 2005, un terrorista di Al Zarqawi finge di reclutare operai al mercato di Baghdad. Chiama a gran voce i lavoratori, la gente si ammassa attorno al camion e il bastardo si fa esplodere.
“Quando ho riaperto gli occhi”, dice uno dei testimoni, “piovevano sangue e grappoli di carne, c’erano laghi di sangue e macchine in fiamme”.
La pulpeggiante descrizione di Micalessin somiglia al XXVIII canto dell’Inferno dantesco, quando il Poeta incontra Maometto, nella ottava delle nove bolge di Malebolge. Il profeta dell’islam ha il ventre squarciato, l’intestino fuori dallo stomaco. Nella paurosa visione della calca infernale c’è sempre spazio per un dettaglio più orripilante di altri: la “corata” e “il tristo sacco” che il Maometto di Dante si trattiene con le mani sono le stesse dell’uomo che incontriamo alla fine del resoconto di Micalessin.[12]
Persino gli occhi dei ragazzini palestinesi che a settembre bruciano le sinagoghe sono diabolici. Dopo il ritiro israeliano dalla colonia di Neve Dekalim, un diciassettenne di Gaza sorride soddisfatto davanti alla macerie. Dettagli, particolari della mischia: “le folle” invadono gli insediamenti e le spiagge al confine con l’Egitto, “le masse” sventolano le bandiere di Hamas, i ragazzini assaltano il lungomare di Gaza per farsi il bagno. Hanno qualcosa di selvaggio e incontrollabile nei gesti, una gioia distruttiva nello sguardo. Nella foga dei festeggiamenti, in tre muoiono annegati.[13] Non c’è spazio per i giovani che amano, vivono e lavorano, non c’è civiltà a Gaza, c’è solo una totalità agglutinante e la sua follia.[14]

Il re degli ignoranti
Altri due strumenti chiave della prosa di Micalessin sono l’apposizione e l’aggettivazione. Marwan Barghouti è il “giovane leone” che sta per soppiantare la “vecchia guardia” palestinese di Fatah; Samar Sabih è la “parca del terrore” addestrata da Hamas; il presidente egiziano Mubarak è il “Faraone”; Condoleezza Rice “la caparbia signora” della Casa Bianca che ha rimesso in moto il processo di pace in medio oriente.[15]
Quando parla del presidente iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad, Micalessin accompagna spesso il nome proprio di persona al termine pasdaran.
Sappiamo tutti che il passato di Ahmadi-Nejad è un curriculum di intolleranza pratica e verbale, ma l’epiteto usato dal giornalista si ripete con troppa frequenza nel testo, finché viene il sospetto che l’iterazione in realtà serva a Micalessin per delegittimare l’avversario, per cui ogni volta che il nome viene ripetuto l’iraniano diventa più “falco”, più “irruente”, e un po’ più colpevole agli occhi dei lettori del Giornale.[16]
Il nucleare iraniano è un pericolo, ma per dimostrare questa tesi a Micalessin basta un’apposizione, non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni o precisazioni. Metti la kefiah in testa ad Ahmadi-Nejad e fallo urlare inferocito davanti ai Basij, i volontari della rivoluzione. Ripeti come un matra la parola pasdaran per beffeggiare l’iraniano, “essendo l’uomo senza aggettivi – quello normale – soltanto quello europeo, con la sua storia”, come ha scritto Anwar Abdel Malek.[17]
Attraverso parole mirate, scelte letterarie demagogicamente consapevoli, la carica istituzionale del presidente iraniano viene privata di ogni storicità, in nome della funzione che il personaggio è chiamato a svolgere all’interno dell’articolo giornalistico: Ahmadi-Nejad è la maschera dell’antagonista, il brutto e cattivo, “il re degli ignoranti” come lo chiamano al Foglio, che per esistere, per avere un ruolo nella narrazione, ha bisogno di un personaggio antitetico che gli si opponga, cioè, ancora una volta, il protagonista/reporter e il suo alter ego al fronte, il buon vecchio Fante Atlantico.

Lessico da Crociata
Da settembre 2005, il direttore Maurizio Belpietro manda in edicola i cinquanta volumi della imponente Biblioteca Storica sul Medioevo allegati con periodicità settimanale al Giornale. La prima uscita della collana è dedicata alla “Grande storia delle Crociate” di Jean Richard.
In due volumi, lo storico francese riscrive la storia della prima “guerra giusta” della cristianità, secondo la definizione di Sant’Agostino.
Anche allora si doveva liberare qualcosa, la Terrasanta: “Potevano, gli occidentali, rimanere indifferenti di fronte alla drammatica situazione dell’Oriente?”. No che non potevano, così pensarono a una “Istituzione di pace” guidata da un manipolo di arditi “condottieri” in cerca di gloria. Nell’introduzione, l’autore spiega che le Crociate furono un fenomeno legato all’Europa che ebbe semplicemente delle ‘ripercussioni’ sull’Oriente. Gli effetti collaterali dell’assedio di Gerusalemme, per intenderci, con il sangue arabo che arrivava alle caviglie dei cavalieri crociati. Per Richard fu un massacro ma “non sistematico”, un vero e proprio paradosso logico, dunque. Le stragi di ebrei, invece, furono provocate dalla “avidità suscitata dalle loro ricchezze”.
Richard cita anche i suoi modelli storiografici: René Grousset, John La Monte, Kenneth Setton e ancora Paul Rousset o Alphonse Dupront, tutte voci arabe, com’è evidente. Se poi vogliamo tenere esclusivamente conto del numero di pagine che Richard dedica ai vari argomenti della sua trattazione, scopriamo che la descrizione dell’“Oriente nell’XI secolo” ha un estensione di due cartelle e mezzo, a fronte delle dieci usate per spiegare la “Società occidentale alla vigilia delle Crociate”.
Di questo Oriente, lo storico trascura cultura, letteratura e scienze, per accumulare una sterminata serie di date, eventi e personaggi storici: gli Abbasidi, i Samanidi, i Fatimidi, gli emiri di Aleppo, il califfo al-Hakim, e così via, senza nessun riferimento alla vita materiale, alla società, al mondo quotidiano dei popoli che vivevano in quelle terre.
Una pappardella da imparare a memoria, peggio di quelle che si recitano in Via Quaranta.

NOTE
1. Gian Micalessin, Voglio raccontarvi l’altro Iraq, il Giornale, 22 ottobre 2005
2. G. Micalessin, Sono entrato nel regno di Al Zarqawi, il Giornale, 24 ottobre 2005
3. John Wayne, Berretti Verdi, Usa 1968
4. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli 2001, p. 35
5. G. Micalessin, cit., il Giornale 22 ottobre 2005
6. G. Micalessin, Io, 23 marines e quattro jeep nella trappola letale di Falluja, il Giornale, 23 ottobre 2005.
7. J. Richard, La grande storia delle Crociate, Il Giornale – Biblioteca Storica 2005, p. 128
8. Cyril Endfield, Zulù, GB 1964; Shekar Kapur, Le quattro piume, Usa 2002; Ridley Scott, Black Hawk Down, Usa 2001
9. E. Said, cit., p. 249
10. G. Micalessin, Panico tra i pellegrini a Bagdad, il Giornale, 1 settembre 2005
11. E. Said, cit., p.285
12. G. Micalessin, La trappola di Zarqawi, il Giornale, 15 settembre 2005
13. G. Micalessin, I palestinesi festeggiano e bruciano le sinagoghe, il Giornale, 13 settembre 2005
14. G. Micalessin, Gaza, strage alla festa di Hamas, il Giornale, 24 settembre 2005
15. G. Micalessin, Sharon abbandonato dal Likud, il Giornale, 31 agosto 2005; Gaza, una studentessa la Lady Bomba di Hamas, 12 ottobre 2005; La Rice spalanca le porte ai palestinesi, 16 novembre 2005; Egitto al voto, Mubarak vuole stravincere, 9 dicembre 2005; Elezioni palestinesi a rischio. L’ANP ora vuole rimandarle, 22 dicembre 2005
16 G. Micalessin., L’Iran: ‘Israele deve scomparire dalla faccia della terra’, il Giornale, 27 ottobre 2005; E l’Iran adesso sconfessa le parole del suo presidente, 30 ottobre 2005; Teheran ora chiede di trattare. L’UE: prima fermi i piani nucleari, 7 novembre 2005
17 E. Said, cit., p. 101

leggi la puntata precedente – leggi la quarta puntata

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14 Commenti

  1. Sicuramente le nostre categorie cognitive rispetto all’Islam contemporaneo sono distorte.

    Tuttavia siamo veramente sicuri che esistano oggi, nel mondo islamico, voci e volti ufficiali realmente alternativi a quelli, aggressivi e intolleranti, che ci si presentano, al di là della retorica del fante atlantico e della crociata?

    E del resto se il nostro giornalismo vulgare tratta il mondo islamico descrivendolo come un’idra informe senza individualità, una massa infida e aggressiva, perché non riflettere anche sul fatto che il giornalismo vulgare del mondo islamico concepisce la folla occidentale come un orda di galline da stia degenerate?

    Probabilmente, alla retorica del fante atlantico corrisponderà una retorica dell’uomo di Dio. Puntare il dito solo sul fante atlantico (perché è più facile, ce l’abbiamo in casa), non ci fa vedere l’altra, speculare metà della mela; sarebbe interessante sentire anche l’analisi di qualche Micalessin islamico, kefie a parte…

  2. D’accordo Daniele, quello che dici (che ti chiedi) sul corrispettivo islamico è altamente verosimile, però io per il momento ho letto questo testo e l’ho trovato molto interessante, preciso, lucido. Un ottimo lavoro.

  3. @daniele ventre
    se ti va, leggi il commento che ho inserito a “Germania-Polonia 1-0”.
    Credo che potremmo discutere anche su quella base.
    Un saluto

  4. Gian Micalessin. Sono rimasto colpito da questo nome, mai sentito prima, mentre giravo in internet alla ricerca di tutto ciò che la stampa italiana avesse detto e scritto su Zakariya Zubaydi. La maggior parte degli articoli sul leader dei Martiri di Al Aqsa a Jenin porta(va)no la sua firma; articoli apparsi su Il Giornale ma riproposti, ovviamente, su informazionecorretta.com (il disgustoso house-organ online dell’ambasciata israeliana in Italia), radicali.it ed altri canali più o meno ufficiali legati al peggior razzismo sionista (ovvero un gran numero di blog ospitati su ilcannocchiale.it). In particolare mi incuriosì un pezzo (da Il Giornale 29/8/2005, pg.12) in cui il nostro metteva in piedi una scenografia alla 1997: Fuga da New York (“Non ti da più appuntamento nel labirinto di rovine del campo profughi, non ti fa più impazzire con appuntamenti saltati e corse a rimpiattino tra le viscere di questa kasba distrutta e polverosa”) dove far svolgere il plot dell’incontro tra i due protagonisti dal machismo imbarazzante: l’indomito giornalista solitario e lo sprezzante ventinovenne fighter in testa alle classifiche dei “terroristi” più ricercati dall’IDF in Cisgiordania. Una scenografia che a partire da quei “non ti da’ più… non ti fa più…” presuppone un passato comune tra i due, una complicità guerresca tra “combattenti” disposti su opposti fronti, più o meno dichiarati, ma uniti dall’estetica della guerra che trasforma l’intervista in un confronto tra pari superuomini. Tutto il contrario di quella “totalità anonima” alla quale si riferisce Santoro, non perché abbia sbagliato analisi ma perché, almeno nell’articolo in questione, il fuoco è sull’individualità jungerianamente intesa dei personaggi, che si ergono dall’indistinto grazie alla scelta radicale dell’azione. Sappiamo che questo pensiero coscienziosamente “di destra” in cui si muove Micalessin paradossalmente concede una forma di rispetto verso “il nemico” quando è solo, fuori o a capo della “totalità anonima”, allo stesso modo in cui simpatizza per una forma di massa identificabile come corpo armato regolare e compatto come un sol uomo: la potente forza israeliana “di difesa”, quel fondamentale distaccamento della Fanteria Atlantica attivo da mezzo secolo nel crocevia mediorientale. Il corpo armato d’Israele scavalca con la sua indiscussa superiorità bellica qualsiasi possibile retaggio antisemita che il volenteroso camerata Micalessin possa aver conservato dall’adolescenza rasata (apro una piccola parentesi: se Biagi davvero “non può capire e non vuole nemmeno fare la fatica di capire” come può un Jarach farsela con la Fiamma Tricolore, sarei umilmente disposto a tentare una spiegazione e fargli venire la voglia di ascoltarla, ma ovviamente immagino che quella chiosa-bomba sottenda ben altra rassegnazione). Da questo azzarderei una prima conclusione: l’embedding di personaggi come Micalessin è atipico, andrebbe trattato con le categorie dell’edonismo dannunziano e mai niente di più. La seconda conclusione riguarda il motivo per il quale m’incuriosì l’articolo: so a che livelli può arrivare il narcisismo di Zubaydi, sempre ben disposto ad esporsi all’occhio dei fotografi occidentali nella più figa delle pose, ma sono a conoscenza anche della sua intelligenza “tattica” (e non solo) che difficilmente concederebbe fiducia a una figura così chiaramente schierata. E non sono disposto a credere che il discorso di “parità etica” fatto per Micalessin valga anche per lui, nella sua testa: nascere a Jenin e perdere praticamente tutto prima della maggiore età (e non per scelta) costituisce un background decisamente diverso da chi può, a vent’anni, scegliere di imbarcarsi per l’Afghanistan dei rambotre. Voglio dire con questo che quel piano di confronto sul quale Micalessin edifica la storia esiste solo come finzione letteraria: non c’è nessun punto di contatto tra i due, che lo si voglia o meno. Per questo motivo, e solo per questo motivo, l’informazione offertaci da questo signore è falsa – merda pura, cliché cinematografico fuori dal contesto di una realtà che non sia la sola, egotista ed esteticamente determinata, esistenza di questo calvo attore mancato. Dalla vita sentimentale cementata, ovviamente, all’interno del piccolo, piccolissimo schermo: gossip vuole che sia legato in vincolo affettivo a Monica Maggioni, ex conduttrice di Unomattina Estate, della quale segnalo un’emblematica intervista: http://www.sabellifioretti.com/interviste/archives/2003/08/monica_maggioni.html

  5. @Diego
    Il tuo commento offre parecchi spunti su come si scrive una “sceneggiatura” embedding.

    Ottima l’osservazione sui “capi” della “totalità nemica”, tipo il feroce ma giusto Saladino delle Crociate (sempre il film), oppure i capetti delle milizie di Haideed scolpiti nell’ambra da Scorsese.

    Anche il parallelo tra Micalessin e il ribelle palestinese mi ha colpito: si vede che conosci bene quella situazione.

    Sono meno d’accordo sui toni, però. Sulla grande congiura sionista, per esempio (non conosco così bene il blog del Riformista, proverò a informarmi).

    Come pure su quella che chiami “merda cinematografica” che in realtà, almeno per me, ha un suo fascino potente, il fascino delle narrazioni, che da un punto di vista stilistico e contenutistico rendono i reportage di Micalessin godibilissimi.

    Sul resto dovremmo essere più o meno d’accordo. Ma dammi un po’ di tempo per navigare sul tuo blog e saprò dirti meglio (per adesso ho visto solo le foto, belle).

  6. Non ho mai parlato di congiura, né piccola né grande. Ho parlato di “peggior razzismo sionista”, sfortunatamente molto più tangibile.
    La congiura è nascosta, sottotrama per definizione, potrei parlarne solo per conto terzi e comunque ci credo poco.
    Lo squallore a cui mi riferisco è più banale (?): ben visibile e, fortunatamente, limitato ad una fetta di sedicente rappresentanza ebraica italiana (comunque legata ad un’istituzione qual’è un’ambasciata) di cui fa parte, per esempio, lo stesso Jarach.
    Posso farti una lista dei blog (scelti a caso) del tipo di cui sopra ospitati sul cannocchiale:
    http://esperimento.ilcannocchiale.it
    http://liberaliperisraele.ilcannocchiale.it
    http://ilsignoredeglianelli.ilcannocchiale.it
    http://inpartibusinfidelium.ilcannocchiale.it
    In ognuno di questi troverai altri link a blog (sempre de ilcannocchiale)monotematicamente simili. Se ti fai un giro converrai anche tu che la massiccia presenza di questa roba in zona riformista non può essere un caso.

    In breve, il mio privatissimo punto di vista.
    Il “fascino delle narrazioni” ha, da merce qual’è ovvero quale viene prodotta (e, sottolineo, v e n d u t a), i suoi validi canali di intrattenimento. Dare a questa merce il plusvalore di una realtà presunta -meglio, presumibile- rende il tutto moralmente distruttivo. Io non riesco a goderne. Forse perché ho una carenza cronica d’ironia, il che, mi rendo conto, non aiuta.

  7. @diego
    ma la colonna sonora del primo dei blog cannocchialeschi che hai messo in lista ke d’è? Non se può sentì! Ahahah!

  8. Diego complimenti per il tuo blog.
    Ho girato un po i blog del canocchiale. Terribili anche se c’è di peggio in rete.
    Certo che uno che mette la bandiera israeliana a sventolare nel suo blog sia per il si al referendum è abbastanza singolare.
    Fra coloro che vollero la nostra costituzione com’è stata scritta, gli ebrei (e anche i sionisti) erano moltissimi, c’erano poi tutte le parti politiche, mancavano solo fascisti e razzisti.
    La riforma di oggi oltre ad essere stata fatta coi piedi (di calderoli) è stata voluta e votata anche da un partito razzista come la lega (che quando si distrae è pure antisemita) e da parecchi fascisti. Si, ripeto è abbastanza singolare la cosa, ma non mi stupisce, ormai nulla mi stupisce.
    geo

  9. @georgia

    ho visto sul tuo blog che dai grande spazio alla campagna per il no.
    Speriamo che il cuore non venga spezzato. Ma per conto mio credo che me ne andrò a mare proprio perché, come scrivi, grande è la confusione all’equatore e ci si può solo perdere.

    Le modifiche costituzionali sono state approvate dall’asse nordista, conservatore e padano. Vero. Non sono il frutto di un’intesa larga, come quella che riunì i padri della patria costituente.

    Ma ti segnalo che il professor Sartori, e qui faccio una riverenza, sostiene che oggi il problema non è il premierato, ma è “il tipo di premierato” che hanno scelto Calderoli e Co., il premierato sbagliato.

    La vera riforma, secondo Sartori, sarebbe il premier eletto direttamente dal popolo. Che ne pensi? Andiamo verso una deriva Sudamericana? Mi sembra che Sartori sia più di casa a New York.

    D’altra parte che sia parlamentarismo o premierato contano gli uomini, i partiti, la storia politica la fanno loro.

    E che il premier abbia il potere di sciogliere le camere, be’, se fossi in Prodi, aspetterei il momento giusto per farmi da parte, indire nuove elezioni, vere primarie, e vincere le elezioni come si deve, con un candidato-puer, come si deve, per governare (altra cosa è palleggiare con manette, principi e papponi, mentre la Rai resta la Rai).

    Anche la retorica che gronda dallo spot del comitato per il no, la difesa dei padri costituenti, andrebbe focalizzata meglio, per esempio pensando a quello che diceva Salvemini sull’inciucio costituente tra dc, pci e psi.

    C’è un altro scrittore italiano, uno di quelli dimenticati, che per questo non chiamo per nome (sarebbe inutile), uno di quegli autori che appunto restano fuori dalle carte costituenti della letteratura italiana, quella dei padri, di un Ferroni e un Luperini, per esempio, be’, che dopo aver assistito alla tragedia della guerra, alla morte civile, alla disgregazione dello stato dopo la sconfitta nella Seconda Guerra mondiale, con un pizzico di malignità, dietro i grandi propositi e le strette di mano dei costituenti, suggeriva già l’influenza (aviaria) della spartizione partitocratica del potere, il germe malato del parlamentarismo italiano che da cinquant’anni blocca qualsiasi riforma, rallentando i processi storici costituzionali, ma anche sociali ed economici del paese.

    Oltre allo scrittore innominabile di sopra, vorrei ricordare la portata corrosiva de “l’Orologio”, un romanzo-saggio di Carlo Levi, sulla crisi dell’azionismo e della resistenza. Oppure i libri di un altro outsider come Gianni Baldi (“Clandestini a Milano”), tutti scrittori che la storiografia del dopo Tangentopoli ha rivalutato e che i politici della sinistra di oggi non dovrebbero sottovalutare.

    Ripeto: gli spot fininvest sulla diminuzione dei parlamentari sono indecenti, e l’autorità televisiva li ha bloccati troppo tardi. La destra neoborg e padana vuole vincere per dare la spallata a Prodi, sanno già che dopo sarebbe un (piccolo) disastro.

    Ma il la Puglia in mano a Vendola la devolverei, e a quel punto vedremo cosa significherà il federalismo fiscale in salsa meridionalista.

    Sulla riforma di Calderoli e la controriforma dei No
    http://www.referendumcostituzionale.org/votano.asp

    Qualcosa su Gianni Baldi, ma molto poco:
    http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri19.htm

  10. ROBERTO
    La vera riforma, secondo Sartori, sarebbe il premier eletto direttamente dal popolo. Che ne pensi? Andiamo verso una deriva Sudamericana? Mi sembra che Sartori sia più di casa a New York.

    GEORGIA
    mmmmmmmm …
    Non credo a nessuna deriva sudamericana :-) se vince il no.
    Ma non ci crede neppure Sartori.
    Restiamo se dio vuole con la vecchia Costituzione e non credo che si parlerà più di premier eletto.
    Ad ogni modo io non ho pregiudiziali su un tipo di governo o un altro, ma certo tra la costituzione di calamandrei e quella di calderoli non ho dubbi su quale scegliere, senza se e senza ma scelgo la prima.
    Ti sei mai domandato come mai una volta fatta la disastrata riforma hanno subito elimnato l’uninominale che ci avevano fatto passare per il meglio del meglio?
    Qualsiasi altra modifica, visto che siamo tornati al prorzionale dovrà coinvolgere una ampio settore del parlamento, sarà impossibile far passare una legge costituzionale con la sola maggioranza e questa sarà una garanzia, se vince il no, ma sarà una iattura se passerà sto macello demenziale fascio-leghista, perchè ci rimarrà sullo stomaco per parecchio.
    Caro roberto in questi giorni ti leggevo un po’ perplessa e non riuscivo a capire bene come eri, certe cose che scrivi mi piacciono altre mi lasciano perplessa, così avevo deciso di rimandare il giudizio su di te.
    Ora mi sono fatta una idea.
    Bene, buon mare allora, sono sempre gli stessi ad andarsene al mare in momenti come questi;-), io invece sarò fuori ma tornerò apposta per votare, mi sembra il minimo che possa fare. Per riavere una costituzione come l’attuale dovrei avere un guerra e una lotta di liberazione e sinceramente ne vorrei fare a meno, quindi vado a difendere l’unica cosa buona che ci è rimasta, tu abbronzati anche per me … e diventa bello nero. georgia

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jan reister
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