Italia-USA, 1-1

razquot3-small1.gif

di Roberto Santoro

“Heidegger fu acerrimo nemico di quello che chiamava ‘amerikanismus’, e che, a suo avviso, indeboliva l’anima europea. ”
(Buruma & Margalit)

“Hanno voluto la guerra e la guerra hanno avuto.”
(Giampiero Galeazzi)

La partita tra Italia e Stati Uniti ha fatto emergere il diffuso pregiudizio antiamericano, quella malcelata repulsione, che gli italiani nutrono verso gli yankee. A destra e a sinistra.

Leggendo i quotidiani del prepartita (Corriere dello Sport, Gazzetta dello Sport, la Repubblica, il Giornale, il Manifesto) e ascoltando i telegiornali (per esempio quello di Italia 1), e le trasmissioni delle redazioni sportive (dalla Rai a Mediaset), emerge un’immagine “disumana” della squadra guidata da Bruce Arena.***

I giocatori americani sono freddi, arroganti, efficienti, “scaltri tatticamente”, ma in fin dei conti vengono descritti come delle stupide macchinette che giocano in modo meccanico. Secondo il mister Lippi: “i movimenti degli americani sono quasi automatici”.

In fondo è “gente abituata a mangiare hamburger e bere birra”, assicura un tifoso italiano intervistato sulle spiagge di Cattolica. L’americanismo, dunque, è innanzitutto una forma di “riduzionismo”: i giocatori americani sono infantili, minorati, inferiori, è acclarato. Per Luigi Ferraiolo, Corriere dello Sport: “Il livello medio resta non altissimo, comunque decisamente inferiore al nostro”.

Sono una “squadra-cocktail, “malriuscita”, come scrive Gianni Mura, spostandosi (credo inconsapevolmente) dal piano tattico della strategia di gioco a quello della composizione etnica di un popolo: l’America è una civiltà senza radici, cosmopolita, razzialmente mista. Una caratteristica che si presta a giudizi storici più agghiaccianti, come quello espresso da Carolina Morace: “Questi (gli americani) dimenticano che nell’Ottocento quando da noi c’era il Romanticismo loro avevano il Far West e si sparavano addosso”.

Ecco riemergere il solito manicheismo tra noi (i greci) e loro (i barbari), per cui da una parte c’è la nostra provincia, tecnologicamente ed economicamente arretrata, ma depositaria dei veri valori della cultura calcistica, e dall’altra parte un mondo corrotto, fatto di giocatori pompati all’idrogeno e raccomandati dalla “Coca Cola”. Per cui ai nostri eroi del pallone, sempre pronti a sacrificarsi per un ideale supremo, la Vittoria***, si contrappongono i mercanti sponsorizzati dalle multinazionali, che giocheranno anche bene, sì, ma lo fanno per soldi: “ai rapporti di fiducia dell’onesto mondo rurale, si sostituiscono subdoli contratti forniti da uomini in abito scuro”.

E’ la storia del conflitto tra Vecchio e Nuovo (calcio), tra “cultura autentica”, provinciale, campagnola, e “i cavilli artificiosi” del mondo cittadino, metropolitano, globale, il mondo del capitalismo e della supertecnologia senza cuore. Ma il clan Moggi e gli stipendi d’oro di Totti & Co. dove li mettiamo?

Nella pubblicità di Dolce & Gabbana, lo spogliatoio della squadra italiana è situato in un’antica palestra siciliana. “Sono i valori a cui sono legato”, dichiara Stefano Dolce in un’intervista a Sport Week. Nella foto si vedono finto- poster anni quaranta alle pareti, finto-old-appendiabiti e armadietti in legno, finto-corpi lisci, oliati, e col pacco bene in mostra. Mancano solo la coppola e il gessato dell’uomo che non deve chiedere mai.

Una idillico revival, un gallismo rurale:
– il richiamo al sano Spirito della Patria-Palestra
– il bel suol natio
– le nostre caratteristiche razziali più ‘autentiche’ (e artificiose e paramafiose), che diventano i tratti del nazionalismo finto-etnico proposta dalla coppia di stilisti.

Un’operazione culturale che, se non riproponesse schemi e parole d’ordine del fascismo più bieco e pomposamente bellico, avrebbe curiosi tratti dal sapore burroughsiano (“lontano vento e polvere del 1920”).

Stefano Dolce parla del libro fotografico che ha realizzato vestendo la squadra di Lippi: “L’Italia è l’Italia”, confessa, “è il cuore”, e ancora, “siamo italiani, ci mettiamo davanti alla tv e ci viene fuori il tricolore che abbiamo nel sangue”.

“Speriamo che il sangue non incida”, è il commento, a caldo, del romanista Daniele De Rossi, subito dopo l’espulsione.***

“Cuore” e “sangue” sono le paroline magiche su cui viene costruito l’intero impianto della umanizzazione dei “nostri” e della loro “disumanizzazione”. Ecco cosa voleva dire la Morace quando parlava di “romanticismo”.

La visione romantica è nella esaltazione del gioco “intuitivo”, nella “creatività” italica, nel “guizzo” di testa di Gilardino, forme ideali, a un passo dal metafisico, in grado di rompere il macchinismo schematico degli avversari (i brasiliani sono i maestri del calcio magico).

Questo romanticismo ha origine nel nativismo tedesco (per esempio l’opera di Johann von Herder), e nei contro-movimenti anti-illuministici che hanno percorso la storia europea (anche quella che oggi vuol mettere un bavaglio alla Scienza).

Nel Novecento, lo stesso romanticismo è stato usato dai fascisti e dai nazisti, esportato nello Stato Shinto e nelle dittatura comuniste, è stato adorato dai kamikaze giapponesi prima e dai martiri islamisti poi (tutta gente che crede di avere un “cuore” e “un’anima” da difendere fino alla morte).

Ma vorrei rassicurare chi sta leggendo: una cosa è il pregiudizio antiamericano del bagnante di Cattolica, altra cosa farsi esplodere, donare il proprio sangue per una causa superiore. Eppure… come archiviare (ironicamente, dai!) l’ennesima bomba di Galeazzi? “Far saltare il bunker americano!”

Alcuni giornali sono stati più attenti di altri a non cadere in questa trappola culturale. Tuttavia, un editoriale di Mariuccia Ciotta sul Manifesto, e i reportage di Vittorio Zucconi su Repubblica, offrono qualche insidiosa caduta di stile.

La critica del calcio occidentale, nell’approfondimento di Ciotta sul Manifesto, è affidata a uno schema esotico piuttosto gratuito. Al “gioco duro” delle potenze belligeranti, americani e italiani, si oppone il “gioco come gioco” dei calciatori del Ghana. Secondo l’autrice ci vorrebbe “un po’ di Africa sul campo”.

Sentite questa: “Africa come luogo dell’immaginazione, sogno di calcio giocato senza quotazioni in Borsa, moviolone truccate e mazzette degli arbitri”. Ovvero l’Africa testuale inventata, direi vagheggiata, da Ciotta.

Il continente del calcio-che-non-c’è. L’idealismo romantico in salsa antagonista, insomma.

La corrispondenza da Kaiserslautern firmata da Vittorio Zucconi, infine, sembra alludere a quel “risentimento” che, secondo Buruma e Margalit, caratterizza i paesi (come l’Italia) che, pur godendo dell’aiuto e della protezione del governo degli Stati Uniti, nutrono una forma di amarezza, indignazione e sdegno, nei confronti di questo genitore sentito come “iperprotettivo”.

“Un’america fragile e blindata”, titola Zucconi. Il pezzo indaga le imponenti misure di sicurezza, germaniche e dell’FBI, dell’intelligence e dei tiratori scelti travestiti da pali della luce, che accompagnano la partita. Come se fosse colpa degli americani oppure degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco se in giro ci sono matti pronti a tutto pur di farSi e farVi fuori.

Quando Zucconi descrive una squadra e “corazzata”, ancora una volta disumanizzata, sta dicendo che l’unica uniforme che gli americani sono in grado di esportare nel mondo è quella militare: la maschera della sicurezza a oltranza, ed è per questo che faranno pressing in attacco e in difesa. Non sono capaci di fare altro, solo combattere, fuori e dentro il campo (la partita viene giocata accanto a una base militare americana).

Su questo siamo d’accordo: tante volte gli Stati Uniti se la sono andata a cercare. E’ vero che la “corazzata yankee” è figlia delle politiche della amministrazione americana nel mondo, di una politica interna guastata da vizietti come la pena di morte, e di un’economia drogata chiamata turbocapitalismo.

Ma nelle parole dei giornalisti liberal e di sinistra resta questa sorta di ‘fastidio’ verso una potenza ritenuta troppo forte e pericolosa, e dunque capace di giocare a calcio, sì, ma in modo “triste”. Ma dopo tutto quello che abbiamo letto, visto e sentito, la vera tristezza è stata il pareggio.

NOTE
*** L’allenatore americano viene scannato a dovere: “non parla l’italiano, capisce solo un po’ di dialetto, ‘cumpà’, ‘paisà’, pasta e fasuli” (Matteo Dalla Vite, La Gazzetta dello Sport, 17 giugno 2006

***Pensate all’infortunio di Perrotta. Il giocatore resta in campo dolorante. Un’immagine che ricorda al telecronista altre scene eroiche che ebbero come protagonisti calciatori italiani pesti ma non domi. La retorica del sacrificio di sé funziona così, è il “siam pronti alla morte” a cui “l’Italia chiamò”. Per Buruma e Margalit: “Il fascismo si appellava proprio a uomini mediocri, lasciando loro intravedere la gloria di sentirsi parte di una nazione preferibilmente dotata di virtù superiori e qualità spirituali. Spesso i movimenti religiosi politicizzati attraggono la gente per analoghi motivi. Il Sacrificio di sé per una causa superiore, per un mondo ideale libero da sofferenze e ingiustizie, è l’unica via dell’uomo medio per sentirsi un eroe. Meglio morire gloriosamente per un ideale che vivere nel Konfortismus. La scelta di una morte violenta si traduce così in un atto eroico di volontà umana. Nei sistemi totalitari può essere l’unico atto che a un individuo è dato di scegliere liberamente”. (Occidentalismo, Einaudi 2004)

***Guido d’Ubaldo sul Corriere dello Sport di sabato scorso: “De Rossi non si fa condizionare dalle dichiarazioni bellicose degli americani alla vigilia: ‘Sarà una partita dura, maschia’ dice il giocatore intervistato durante il ritiro, ‘(…) io dovrò stare attento a evitare un’altra ammonizione dopo quella con il Ghana’ ”.

Print Friendly, PDF & Email

7 Commenti

  1. Ho trovato di grande interesse anche i commenti del dopo-partita, dal poco che ho seguito sui giornali. Su “Repubblica”, ad esempio, ho trovato un piccolo catalogo dell’autodenigrazione (dell’auto-orientalizzazione, mi verrebbe da dire) del popolo italiano, attraverso quel simbolo principe che ne è la Nazionale. Quell’orientalismo (o occidentalismo) di sinistra che già Santoro ha potuto stigmatizzare. L’operazione in apparenza progressista del profanare il mito calcistico dei soliti italiani truffaldini, profondamente conservatrice, in realtà, nel suo ridurre tutto all’uno, all’archetipo dell’Italiano.

    Unici che si salvano, naturalmente, anche su “Repubblica” (su “Repubblica”, dico, quella con Scalfaro che in prima pagina ci fa la morale un giorno sì e l’altro pure, che veggente ci spiega come guarire dai cinque anni di regime), gli unici che si salvano, dico, sono “i nostri ragazzi” di Nassirya che (in un apposito trafiletto), pur delusi dal risultato, applaudono sportivamente, e ringraziano gli azzurri che hanno pensato a loro…

  2. Se ci si accosta alla lettura dei saggi contenuti nel testo La Bildung ebraico-tedesca del Novecento a cura di Anna Kaiser edito dalla Bompiani ci si accorge del danno che la cultura europea ha subito cedendo al modello americano e anglossassone sull’idea della conoscenza come “formazione” trasformatasi in “apprendimento”.

  3. @andrea raos
    Sul dopo-partita:

    Alberto Piccinini, ‘La battaglia yankee’: “E’ rissa da discoteca riminese (altro che guerra, quello è il clima) quando il mediano Mastroeni entra pesante su Pirlo al 44’. Rosso diretto. Espulso anche lui. Da qui in poi fair play non ti conosco. Non una stretta di mano. Non una pacca sulla spalla. Bum bum bum” (il Manifesto, 18 giugno).

    Due titoli con sommario del Giornale di Belpietro:
    1) E’ stata davvero una guerra
    Italia-Stati Uniti finisce 1 a 1. Sfida a suon di botte e colpi proibiti…
    2) La Little Italy si mobilita contro l’esercito Usa
    I pochi italiani di questa città della Baviera tengono testa ai tanti americani della base di Ramstein.

    Vittorio Zucconi, ‘I masochisti della Nazionale’: “Quegli americani che, mi ero permesso di avvertire nei giorni scorsi, fanno più male quando perdono le guerre, di quando le vincono. E combattono come possono, per una volta da guerriglieri, contro le presunte truppe corazzate azzurre” (la Repubblica, 18 giugno).

    Luigi Ferrajolo, ‘Italia, che sofferenza’: “Altro che goleada. E’ stata una corrida, lacrime e sangue. E soprattutto non è stata una partita di calcio”. (Corriere dello Sport, 18 giugno)

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta...

L’orso di Calarsi

di Claudio Conti
«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: