Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno. Lui, secondo l’amico, doveva concentrarsi sullo stomaco, sul polmone sinistro e quello destro e, in generale, doveva accogliere la possibilità che la vita si svolgesse puramente dentro quel corpo. In che senso, aveva chiesto lui, più e più volte. L’amico aveva detto: non pensare, e lui aveva sorriso come per dire okay.
Si trovò quindi nella stanza, ma non nella stanza e, se mai avesse scorto un uomo oltre il vetro, lo avrebbe cancellato di mente assieme alla finestra già fosforescente, prossima a disintegrarsi nello scoppio di un ordigno nucleare (così immaginava, o si giustificava la sparizione dell’esteriorità, bum, gridava tra sé e si dimenticava, come prescritto, ogni incantamento per cadere nella nuda realtà intracorporea).Dopo aver disintegrato tutto, rimase come sospeso nel vuoto, finché persino l’epidermide non era più con lui e finalmente il tale poté essere sé stesso, cuore, polmoni, vene e altre sudicie strutture sempre più interne; guidato dal diktat dell’amico si sentì sprofondare in una realtà di cellule, e ancora, sempre più giù, diretto nella tana dell’infinitamente piccolo dove forse avrebbe trovato pace, ma non accadde. Improvvisamente si trovò all’in piedi. Si era in effetti issato giù dal morbido e contemplava il letto (esistente) con la sua forma sicuramente tiepida ricopiata contro il materasso, ed esisteva di nuovo il telaio della finestra ma non il vetro (che arrivò un attimo dopo, come ricomponendosi) e finalmente giunse all’affaccio il cosiddetto mondo. L’uomo telefonò all’amico, che si complimentò per l’esito fortunatissimo, e una volta chiarito a sé stesso che era in grado di alzarsi di lì a soli colpi d’immaginazione cominciò a guarire, lentamente, e di nuovo la voce riprese tono, e il corpo riprese tono, e la musica della vita anche, ma, a conti fatti, rimaneva un dilemma: dentro oppure fuori. Anche dopo aver ricominciato a lavorare nell’ufficio degli oggetti smarriti, il problema era là sul tavolo, come uno dei tanti oggetti: dentro o fuori. Persino nelle giornate di sole, per non parlare di quando pioveva a dirotto, lui si doveva interrogare sul dentro o fuori. Anche di notte, quando metteva sul cuscino la testa e si sentiva un vecchio peluche messo a dormire da un gigantesco uomo inesistente, doveva interrogarsi. «Dentro o fuori» era un compagno trigemellare, per via delle tre parole, che lui considerava nelle sue scampagnate, quando il fuori, le montagne o il piatto di certi orizzonti arrivavano a stupirlo per quanto rappresentassero efficacemente il “dentro e fuori”, perché si emozionava guardando e contemporaneamente si trovava lì fuori, nel mondo, presente a sé stesso: dentro o fuori non aveva più senso, eppure continuava in modo irreparabile ad avere una certa forza di persuasione. Telefonò all’amico e pose la domanda. L’amico, che non aveva tempo o forse non giudicò davvero importante la questione in base al tono un pochino divertito dell’altro, disse che non era un vero problema, ma bisognava concentrarsi con tutte le energie sui veri patimenti che rodevano la vita dall’interno: la crisi politica in atto, disse; tu pensa solo alla crisi politica… L’uomo che era stato depresso perse l’orientamento e fu, per un istante, dentro la crisi politica, e subito dopo fuori la crisi politica senza capire dove sarebbe stato veramente vivo. La vita era dentro, la vita era fuori? Si ritrovò nella crisi politica e discusse animatamente, fra sé e sé, della fastidiosa o annosa o scoglionata idea alla base della crisi politica. Poi volle discuterne fuori. Al bar. In ufficio. Con chi gli capitava a tiro. Il problema non era più lo stesso, dentro o fuori. Ma rimaneva comunque lo sconcerto. L’amico gli aveva incasinato la vita. Si rimise a letto con l’idea di rimanerci per un anno, o magari anche due – almeno fino al termine della crisi politica in atto, così, quando finalmente ne sarebbe uscito, avrebbe potuto serenamente impegnarsi a risolvere il vecchio quesito, dentro oppure fuori. Ma l’amico suonò alla porta. Ai rintocchi abbastanza sgradevoli, come di campane, ma erano le sue nocche, si aggiunsero una specie di velenosi sussurri: ti prego, ti prego… L’altro era fuori, lui non capiva e non usciva dal suo letto. Poi l’amico scomparve. L’amico, o chiunque altro, direbbe che il malato ha scelto il dentro. Se la questione veramente importasse. In realtà anche per l’amico, come per chiunque altro, il fuori è semplicemente un dentro rivestito con una patina di estraneità, un dentro sicuramente più esotico. Vecchia questione.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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