Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna

La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata
(Voltaire)

Isabella Salerno è una mia vicina di casa, apre la porta e mi fa passare. Tiene al suo aspetto, per incontrarmi si veste e si trucca, si accomoda i capelli. Sente forte il suo ruolo, è testimone di cose che ancora si respirano, polveri invisibili sull’arredo intarsiato e sui giochi di altri tempi, le boccette del profumo e la tappezzeria. I colori degli ambienti sono tenui, e i pavimenti tirati a cera formano cornici e geometrie. Cristalli, lampadari preziosi. Candelieri. Il pianoforte a coda primeggia nel luminoso salone dalle porte profilate, affacci che introducono ad altri vani e alle camere da letto.

Lei racconta quell’eredità.
Non è però la voce, a ritornare il tempo. Gli occhi che mi consegnano il ricordo della casa e delle donne della famiglia maritale che abitarono per almeno cinque generazioni in quelle mura, non tengono per sé nulla di non detto, giustificano con franchezza quella certa solitudine che motiva la forza con la quale mi accompagna a scoprire storie che s’infilano l’una nell’altra, come le stanze che comunicano tra loro in quell’antica casa padronale affacciata sulla Valle dell’Adige nella valletta dei Molini.

Occorre attraversarle tutte, stanze e storie, per arrivare apposta al destino delle sorelle Bertagnolli negli anni Venti di un secolo fa. È qui, in verità, che Isabella mi fa entrare.

Dalle cantine salirò a parlare della casa. La casa che respira. Quella che molti dicono avere un’anima. Quelle mura padronali hanno due e più anime, a ben pensare.

I.

Le sorelle Bertagnolli erano quattro, oltre a due fratelli. Si era ai primi del Novecento. Le prime due, gemelle, nessuno le distingueva mai: uguali come gocce d’acqua, anzi una appena con il viso più rotondo e scontornato, ma occorreva osservarle bene per vedere.
Con nomi che suonavano elegante l’uno, popolano l’altro: Alice, Beppina.
Le due, per nient’altro, neppure per indole e carattere, si distinguevano.
Era inutile chiamarle, si giravano entrambe, con un’astuta intesa che confondeva l’interlocutore terzo arrivato. Signorine ben educate, si strizzavano l’occhio, ed erano inopportunamente chiassose, a volte: forti del loro doppio, avrebbero dimezzato i rimproveri.
Avevano 19 anni, la guerra era finita un anno prima, e certo non tralasciavano di consolare quella loro sorella minore di poco, ma più assidua nei sentimenti, che pensava di continuo all’ufficiale partito, Adelina.
Kurz aveva abitato insieme ad altri graduati dell’esercito austroungarico nell’ampio e solido edificio dei contadini, attiguo e collegato alla casa padronale della famiglia, dove invece dimorava, nel lusso del salone e della stanza da letto affrescati, il comandante. Tutti i giorni, puntuali per sentirne strategie e ricevere ordini, questi veniva raggiunto dai sottoposti, occasione per le ragazze di incrociarne qualcuno con gli occhi, e più tardi, nelle pause di servizio, di incontrarsi credendo già di conoscersi, da basso nello spiazzo, o sulla strada che scendeva al Molinét.
Scambiare parole e sorrisi. Confabulare poi fra sorelle e amiche su chi fosse il più interessante e carino, col tempo il più caro. E infine il più amato.

Quando l’esercito aveva smobilitato, lasciando i Molini per prendere a nord e riguadagnare le terre d’Austria in una ritirata affrettata e confusa, l’ufficiale aveva lasciato ad Adelina qualcosa che non poteva, o non voleva, portare con sé: un bauletto pieno di scritti, documenti, e di vetrini impressi con le immagini delle fotografie scattate con una macchina a soffietto su un treppiede che come fotografo ufficiale del comando portava appresso per le frazioni e i sentieri dei boschi della destra Adige: da Nomi a Isera, da Sevignano e Servis, fino a Noarna e Sasso, fissando scorci e paesaggi, persone, angoli.

Ritiratisi i soldati austroungarici nell’autunno del 1918, Kurz era rimasto lì custodito nei suoi dagherrotipi e in quelle stampe.

II.

Le gemelle cinguettavano per casa nella bella stagione arrivata, e finivano col rischiarare per qualche ora la malinconia di Adelina rincorrendosi a quattro mani sulla tastiera del pianoforte, adoperandosi in sonate imparate da un insegnante sacerdote alla Scuola musicale di Rovereto e insegnandole a loro volta a qualche ragazzina di buona famiglia che da Villa e da altri borghi della Vallagarina voleva per buona grazia imparare.
Terminavano il pomeriggio ricamando.
La sera si sfidavano a scacchi, sempre chi fosse la regina, chi il suo re.

III.

6 gennaio 1920, dal Commissariato Civile pel distretto politico di Rovereto al padre Nicolò era appena stata rinnovata la Licenza ad esercitare indipendentemente l’industria di mugnaio.
Con malcelato orgoglio le gemelle s’intrufolarono in quel molino dove era loro proibito entrare perché i macchinari in moto erano pericolosi, il rumore assordante, l’aria satura di pula.
L’acqua deviava per canali e doccioni a ricadere impetuosa e pesante sulle pale a cassetta. La ruota girava, l’ingranaggio girava, la lanterna ruotava a muovere le macine che pestavano giorno e notte, tic tac tac tac.
Moltiplicato per cento, l’orologio della valle segnava il tempo.

Nella Val dei Molini c’erano pile per l’orzo, al primo molino frumento e farina bianca. Al molino di sopra granturco da masnar el zaldo. Segale al Molinét, e grano saraceno: a ciascuno la sua granaglia. Attività. Un gran fervore.

IV.

Non solo mugnai e proprietari di tre degli undici molini che pescavano lungo il torrente Cavazzin ai Molini di Nogaredo, i Bertagnolli erano facoltosi possidenti di molti fondi e pertinenze. Possedevano pascoli, boschi e frutteti, vitigni. Una distilleria. Persino il solido maso che era stato anticamente dei nobili Lodron, a Bellaria di Cei.
Il padre di Alice e Beppina lo aveva comprato per andare a caccia e riposarsi, una volta finita la fatica venatoria, banchettando con i suoi amici. Originario della Val di Non e di modesta estrazione, Nicolò era stato fortunatamente adottato come figlio dallo zio Nicola, sposo in seconde nozze di una nobile vedova roveretana, Teresa de Zambotti, per tutti la Signora.
Sposando lei, dunque, ad inizio Ottocento i Bertagnolli si erano accasati in Vallagarina e ora si occupavano di amministrare le loro sostanze e far fruttare i loro beni, riuscendoci con capacità e lunghe vedute.
Quel maso a Cei, ultima costruzione passato il lago sulla strada che veniva da Rovereto per Castellano, era il primo ad attirare l’attenzione di chi invece arrivava dalla Val d’Adige risalendo la carreggiata che saliva da Aldeno, sul versante opposto. Detto la Ca’ Vecia, non lo si poteva che notare, nella splendida tenuta boscosa, per la sua possente e compatta struttura, l’intonaco bianco a spruzzo, fiori ovunque, rigogliosi sotto ogni finestra dagli accesi scuri verdi. E prati, intorno, suggestivi per le ragazze a farsi ritrarre da un pittore al suo lavoro, tela e cavalletto. O comodi e ampi per le danze, al suono di un grammofono portato nella bella stagione.
Infatti già dalla tarda primavera numerosi ospiti raggiungevano le sorelle per le feste campagnole e i balli. Alice e Beppina indossavano begli abiti e si muovevano riparate da un ombrellino da sole. Altri si stringevano a chiacchierare, a dirsi come fosse bella la vita. La giovinezza.

V.

Non erano vanitose le ragazze, anzi. Educate alle arti e alla conoscenza delle lingue per merito delle lezioni del professor Giovanni Zambotti, erano state abituate dalla madre a mescolarsi in certe mansioni ai mezzadri, così da poter capire il valore del lavoro e della fatica.
Le gemelle terminavano le molte giornate salendo per la via strova, detta così per l’ombra che rovi e cespugli stendevano lungo il pendio che dai Molini portava ripidissimo fino a Pedersano. Poi ridiscendevano la strada fino al Molino dei Picadi, e da lì si arrampicavano ancora su, lungo il torrente Cavazzin, per arrivare alla Cava Preera con la sua pietra forte e rossa.
Mai stanche.
Altre volte si nascondevano nell’incavo di roccia, lo stol, di fianco alla cascata del Rio Rizoi che alimentava il terzo dei loro molini. Uno splendido roseto copriva l’ingresso della grotta e profumava il segreto di quel ritrovo.

VI.

Forse il dottor Scrinzi, medico condotto di Villalagarina, incontrò per caso a Trento quel suo amico di studi adesso impegnato in uno dei tre ospedali militari zeppi di feriti, ammalati, morenti.
Forse allora si sentì dire dal dottor Pergher che non riusciva a seguirli bene, quei soldati, perché dal primo del mese – ed era novembre del 1918 – aveva assunto il servizio di medico comunale per la parrocchia di Santa Maria ed aveva molto lavoro in città per la clientela privata, data l’assenza dalla città di molti medici e l’imperversare dell’epidemia di febbre spagnola…
Ecco, era così che da quasi un anno quella sorta di “peste” imperversava.

Stava falcidiando a migliaia gli abitanti del Trentino, oggi si crede siano stati diecimila a morirne. Nel mondo un miliardo di persone l’aveva contratta.
Le vittime vengono stimate dai 40 ai 100 milioni, saperlo con esattezza è però impossibile.
La pandemia non proveniva dalla Spagna, ma dal Texas e, a partire dalla primavera del ’18, venne importata in Europa dai soldati americani coinvolti in guerra.

Al termine della Grande guerra, nell’affanno del rientro in Trentino delle migliaia di profughi civili, dei soldati di ritorno e di altri in ritirata, dei prigionieri di ogni nazione da rimandare in patria e nella babele delle lingue, nella devastazione in cui era stata ridotta ogni cosa – strade, case, campi – fra le la malattie e gli stenti, i lutti e la sofferenza di tutti, le autorità avevano taciuto il dilagare dell’epidemia per non abbattere la popolazione troppo provata.
I morti, quelli registrati – perché altri non si arrivava nemmeno ad annotarli – vennero segnati come morti per bronchite, polmonite fulminante, Grippe – cioè influenza. Peste polmonare.

VII.
Ogni anno i Bertagnolli ospitavano un calzolaio, un seggiolaio a rifare le sedie e una sarta chiamata a cucire vestiti e accomodare accessori per tutti. Uno alla volta i componenti del nucleo patriarcale scendevano nei locali più bassi della casa, sotterranei adibiti a magazzino e laboratorio, a prendere misure, tastare stoffe, posare, provare e riprovare. Le sarte arrivavano da Trento o Rovereto, raccomandate da qualche ottima sartoria e dal loro arrivo alla partenza si fermavano in quella casa anche un mese intero, diventando parte integrante della famiglia.
Adelina e le sorelle si sbizzarrivano, raffinatissime nel gusto. I loro abiti erano preziosi per i ricami, le cascate di bottoncini a ornamento lungo le maniche. Avevano nastri, riprese sui fianchi, finiture di pizzo.
Le ragazze portavano fiocchi sul capo. Alice un cerchietto a contornarle la fronte. Beppina amava i cappelli a larga tesa, le stavano splendidamente.

Erano gli anni Venti, ed erano i loro vent’anni. Tutto era morbido. Luce. Consentiti, erano d’obbligo i sogni.

VIII.
Spesso le ragazze e lei, mamma Elda, avevano ricevuto posta. Ora Elda sfogliava le lettere di Giovanni, il maggiore dei suoi figli, chiamato in guerra in Galizia. Rileggeva poi quelle inviate nel ’15 da suo fratello Giulio, meglio, cartoline militari con qualche notizia dal fronte; e lei poi gli avrebbe scritto del patimento dei loro conoscenti che dovevano per forza lasciare Rovereto, profughi civili per Lienz o altri posti dell’Impero. Tempi duri, faticosi, pieni di preoccupazione, di pensieri.

A volte invece erano cartoline del tempo di pace, quello prima e quello dopo; da Arco e da Riva: qualche amica, o le cugine che inviavano un ricordo della gita sul lago in un giorno di sole. Un giro a Verona. La vita ripresa.

Arrivava di tanto in tanto qualche altro scritto, era qualcuno emigrato in America negli ultimi anni del secolo prima e ai primi di questo’900: in molti, anche dalle valli intorno, non avevano potuto fare altro che partire per una felice e facile promessa, sempre meglio del niente.
La memoria attraversava l’oceano cavalcandolo, con buone e cattive nuove.

IX.
Batté la campana, erano le sei e mezzo di sera, il 10 febbraio 1921.
Alice se ne accorse. Da giorni l’avevano confinata nella camera al piano di sopra con la scusa di un banale raffreddore, ma quante volte l’aveva avuto, non comprendeva come sua madre la facesse così difficile, ma soprattutto perché Beppina non venisse a trovarla. Sua sorella dormiva al piano di sotto.
Perché non saliva a raccontarle dei cugini, degli altri ragazzi figli dei molinari, delle amiche, del fabbro Franzele che lavorava al molino Mittempergher, quello più in basso nella valletta?
A dirle di chi passava davanti all’edicola di san Giovanni nell’andare a lavorare vigne e campi, e magari a sera raggiungere la birreria sulla terrazza del Casteletto: lo chiamavano così l’agglomerato di più costruzioni per la molinatura eretto un pezzo per volta più su, a pochi minuti dalla loro stessa casa.

Alice voleva che qualcuno le portasse un po’ di quel pane fragrante dal profumo irresistibile appena sfornato nella Fabbrica del pane, l’antico edificio quasi all’imbocco della val dei Molini, un tempo filatoio, poi tintoria ed ora forno e bottega. Pane buono, pane della loro farina.

Sua sorella le avrebbe parlato delle donne alla fontana, loro due spesso le raggiungevano a far la liscia, e che bel gelo poi, a immergere le braccia nell’acqua d’estate!
Oppure la gemella avrebbe imitato i due nuovi affittuari emiliani arrivati da poco al molino Baldessarini, il Graziano e la Dorina, così foresti, così strani e buffi per quella loro parlata cantilenata quando aprivano bocca.
Insomma.
***

Gli attimi di un solo moto del respiro strinsero ad Alice i muscoli attorno al cuore, probabile. E più giù, nel torace, eccone la morsa. Fu un sospetto, un sospetto terribile e straziante che lasciò subito spazio a una feroce convinzione.
Un sapore agro le riempì la bocca, ne fasciò la lingua e giunse fino in fondo alla gola: Alice tracannò dolore in un’ostinazione incredula, che no, non era vero. E poi ancora e solo e altro infinito dolore: quei rintocchi a morto che salivano dalla vicina chiesa di santa Lucia, erano per Beppina.

Non può più vivere Alice adesso, senza la gemella, spaccata in due, no.
Alla madre urla che anche lei la raggiungerà presto, non ne vede l’ora. Che non era amore a proteggerla quel silenzio che l’aveva tenuta distante: era egoismo, a staccarla dalla sorella. E che la vita era così: avara di vita e piena di morte e lei ne faceva già parte. Mentre Dio era sparito o forestiero, non era dei loro e non faceva ridere.

***
Ma le passerà quel po’ di tosse ingannevole, Alice prenderà ancora il sole nell’estate a venire, udrà inarrestabili gli scrosci dell’acqua sulle pale e il vorticare delle ruote. Sentirà il fragore del torrente, sempre tutti gli uccelli sui rami. Sentirà ancora una volta il profumo delle rose, le loro rose.
Attraverserà l’Adige come faceva un tempo con la gemella, salendo sulla zattera al porto di Chiusole per arrivare a Sant’Ilario e trovare i parenti quando la gioia era gioia.
A Cei il lago continuerà ad essere quieto e bello.

***
Poi in ultimo, di febbre se ne andrà via anche lei, alle soglie dell’inverno il 7 dicembre di quello stesso anno, a ventun’anni.

Neve appena bianco. Il silenzio di tanta gente sovrasta quel giorno ogni altro suono, ai Molini di Nogaredo, giusto per l’Immacolata.

X.

Con timbro postale VERNON PA. NOV 29 10 AM 1922
indirizzata a lei, Elda Bertagnolli, Villa Lagarina Italia, mamma Elda tiene una lettera tra le mani. Arriva dalla Pennsylvania. È di un amico di famiglia che si trova nella lontana America a guadagnarsi il pane per un domani, scrive.

Belle Vernon Pa. 28 – 11 – 922
Signora ricevetti là una lettera, ma sommamente addolorato avendone letto il contenuto. Lei non si potrà mai immaginare il cordoglio che ho provato nel contemplare la sciagura accaduta in sua casa, che sarebbe stata la perdita di due così belle figlie nell’intervallo di dieci congiunti mesi. Io non so come ai fatto signora, a combattere sì gran dolore, da onde ai estratto tanto coraggio a considerare alla ingrata morte che le ha tolto d’avanti si in breve tempo due angeli di figlie sì una meglio d’ellaltra.
Si vede signora che ella è una di quelle uguali madri dolenti come a quelle che anno perduto i loro figli nella confligazione mondiale, il suo dolore non è meno di quell’altre, ma le dico questo signora, che le lagrime, i codogli, gli spasimi ai morti non le giovano, bisogna far coraggio in tutto in tutti i modi, se non vuol diventare matto, sin uomo come donna.
Chi non crede ai suoi dolori? chi non considera le sue pene? chi non rifletta ai suoi cordogli che certo che le spezzeranno il cuore? pure i bambini credo io, che considerano lo stato dell’anima sua ma…in ciò Signora bisogna rassegnarci alla volontà d’Iddio.
(…) Suo dev.mo Trozzo Carlo

Ora abito
in quella che è stata
la parte alta
delle alte cantine dei mezzadri,
io frontista della casa padronale.
Adesso ho la storia proprio sotto di me
frazionata in un piano più basso
e in un ultimo, ancora.
Ma la casa si sviluppa inoltre
anche per lungo
e la storia sicuro ha altri piani.
Prosegue
nei grandi stanzoni occupati
dai cavaléri (1) sulle foglie del gelso
posate sopra arèle (2) di legno.
Prosegue
per grandi magazzini
sovrastanti i quattro portici ampi
dove stavano i carri
con le balle del fieno
le cataste di legna
e il letame, discosto,
sulla strada
che pensiamo più comoda adesso
asfaltata, ma nel tempo
ha la stessa pendenza:
era solo più bella, più vera
una volta, a ridosso della primavera.

bachi da seta
graticci a sostegno

(Antonella Bragagna,“Donne come Omero”)

Le foto fornite da Antonella Bragagna ritraggono:Un ballo a Cei, La casa dei Molini, La famiglia Bertagnolli e i soldati, La famiglia nell’anno di guerra 1914, Alice e Beppina che giocano a scacchi.

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9 Commenti

  1. narrazione favolosa dell’ultima pandemia precedente alla nostra. E di quel suo mondo. Anche le pandemie hanno una memoria !

  2. Figure femminili escono dal confino del tempo e, pur drappeggiate in fogge trapassate, riportano a sentimenti – commedie e drammi – di sempre. La sensibilità della scrittrice nel capire e svelare l’animo fa rivivere storie di comunità pur col respiro universale del sentire.

  3. Grazie Antonella, la tua scrittura semplice ma poetica ci porta alla vita cent’anni fa!

    • Un ringraziamento alla famiglia Bertagnolli per le notizie sulla storia famigliare e la disponibilità delle fotografie.

  4. Erminia Parisi 21 marzo 2021
    Interessante racconto, prezioso per chiunque abiti a Nogaredo e abbia a cuore la storia del proprio paese. Molto ben documentato e sempre piacevole la scrittura, quasi una poesia, molto ricercata, originale. Grazie Anto!!!!

  5. Leggendo questo racconto mi sembra di veder scorrere un film muto, con il fascino di immagini rovinate dal tempo, ma ancora “leggibili” ed evocative.

  6. Questo racconto, spaccato di vita passata mi ha riportato alla leggerezza e alla nostalgia dei racconti che sentivo da bambina dalla voce morbida della nonna. Brava Antonella, mi hai mosso dentro e riportata nel tempo sereno delle cose passate.

  7. Brava Antonella riesci sempre a rendere piacevole il racconto….. e scoprire il vivere quotidiano di persone in questa bella VALETTA DEI MOLINI….un secolo fa .GRAZIE di cuore !! Felice che come me ami questo luogho

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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