Storia poliziesca

kertesz1.jpg di Gianni Biondillo

Imre Kertész, Storia poliziesca, traduzione di Mariarosaria Sciglitano, Feltrinelli, pag. 79

È un piccolo gioiello questo di Imre Kertész; una Storia poliziesca dal sapore cupo, kafkiano. È la lunga confessione fatta da Antonio Rojas Martens, ora che un cambio di regime (l’ennesimo?) lo ha reso da carceriere a carcerato.

Martens scrive sul taccuino il suo memoriale, racconta con stile asciutto e un po’ grezzo (è un poliziotto che parla in fondo, non un uomo di belle lettere) come è diventato servitore del potere, e come fare parte dell’Organizzazione che controlla gli oppositori politici sia stata una cosa quasi normale, ineluttabile, accettata di buon grado, se non fosse per quei continui mal di testa, residui di una coscienza annichilita, che lo attanagliano. E attraverso le sue pagine vergate in cella veniamo a conoscenza della assurda persecuzione voluta da Diaz, il suo superiore, nei confronti di Enrique Salinas, figlio di un importante imprenditore del paese.

Ma quale paese? E qui l’introduzione di Kertész alla riedizione di questo volumetto scritto in sole due settimane e pubblicato in Ungheria nel 1977 vale da sola l’acquisto del romanzo. Una storia così dura, una denuncia così implacabile ai metodi criminali della polizia di una dittatura sembra impossibile si sia potuto pubblicarla negli anni del socialismo reale. Ed infatti mai e poi mai il futuro premio Nobel avrebbe potuto trovare il modo di renderla pubblica nel suo paese, se non utilizzando l’escamotage del cambiamento di scenario, dall’Ungheria ad un generico staterello del Sud America. E questo è bastato, a dimostrazione di come i regimi totalitari siano allo stesso tempo violenti e stupidi. Così come quello descritto nel romanzo, il quale, di suo, ha almeno un paio di colpi di scena degni del più navigato noirista. Kertész con questo libro dimostra, se ce n’era bisogno, che il genere in sé non è mai un limite alla libertà creativa rivelandosi semmai una risorsa se lo scrittore, ogni volta, sa reinventarlo, senza necessariamente tradirlo, insieme alla sua voce di autore autentico.

[pubblicato su Cooperazione n° 27 del 3 luglio 2007]

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4 Commenti

  1. Caro Biondillo, dimenticavo, ho terminato di leggere il tuo libro. Ne abbiamo parlato con Francesco De Grandi mentre tornavamo a Milano dopo essere stati a Trento per presentare le lezioni di pittura al museo civico di Trento, quasi due mesi fa. Ho regalato un paio di copie agli amici.

  2. Imre Kertesz è uno scrittore enorme, di cui si parla davvero troppo poco, qui in Italia (non so all’estero), e non capisco perchè. “Essere senza destino” è il più disturbante libro che sia mai stato scritto su Auschwitz, anche”Liquidazione” è un libro enorme.
    Kertesz, che è sopravvissuto alla Shoah e all’essere intellettuale scomodo e non allineato sotto il regime comunista in Ungheria, è probabilmente uno degli autori viventi che più hanno vissuto immersi, in prima persona (e proprio malgrado), nella storia del ‘900. Ho sul comodino “Kaddish per il bambino non nato”, che mi sta richiedendo tempo e concentrazione nonostante l’esilità, perchè è un libro altrettanto profondo.
    Boh, non sento mai una parola su Kertesz e non capisco perchè, secondo me meriterebbe (oltre al Nobel) una critica e una riflessione. Critica e riflessione di cui a lui, peraltro, suppongo, fregherà abbastanza poco: suppongo gli basti starsene appollaiato sulle sue colline intorno a Budapest, a guardare dalla finestra. Me lo immagino che guarda dalla finestra, che vede un albero e che ci riflette su, che vede un cardellino e che ci riflette su, che parla con la moglie, che ci riflette su, poi ci riflette ancora un po’ su e poi ringrazia di essere ancora vivo dopo tutto quello che ha passato – senza preoccuparsi granchè delle attenzioni che riceve qui da noi.

  3. @Marco

    Non sapevo che “Essere senza destino” fosse un libro su Auschwitz, poi basta con questa locuzione retorica: …PIU’ DISTURBANTE LIBRO…, non se ne può più!
    Che noia!
    Mi vengono in mente sull’argomento – di getto – quattro libri CERTAMENTE superiori, peccato che provincialismo italiota e memoria – presente che ricorda il passato derubricando quello altrui già consumato – mai concorde con il marketing editoriale siano tra le punte di diamante del nostro paese.
    Ah, i titoli: “Se questo è un uomo” e “I sommersi e i salvati” (questo secondo me libro capitale) di Levi; “Intellettuale ad Auschwitz” di Jean Améry e “Shiviti” di Ka-Tzetnik 135633.
    D’accordo, l’ultimo capitolo – il nono – di “Essere senza destino” è straordinario. Sublime.
    Ma che palle! Basta con ‘sta solfa!
    E poi che cazzo, i concetti da lui espressi si possono ritrovare assai bene in Pasolini e nel “suo lager” antropologico-sociale.
    Qualcuno si guardi “La sequenza del fiore di carta” per cortesia!

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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