San Lorenzo è con te

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di Piero Sorrentino

Liboni, S. Lorenzo è con te!
(spray rosso su un muro a san Lorenzo, Roma)

31 luglio 2004

Nero.
Mi faccio avanti, dal più buio dei sonni, e mi trovo circondato da medici: sento il loro vigore, tenuto a stento sotto controllo, come la sovrabbondanza dei loro peli corporei; e il tocco ostile delle loro mani ostili: mani di medico, così forti, così pulite, così aromatiche.
Quando mi hanno messo sulla barella ho dato un calcio a un carabiniere. Pensava fossi svenuto, mi stava vicino, era troppo invitante, ho caricato la gamba come una molla, tutti stavano attorno alla mia testa, al busto, le dita sul collo per sentire le pulsazioni, una garza srotolata attorno alla fronte, le voci, il blu dei lampeggianti sui visi, l’ho preso in pieno petto con la suola dello scarponcino, la pelle bianca della bandoliera s’è macchiata di terreno e polvere, il carabiniere ha emesso come uno sbuffo ma non è caduto.

La pallottola brucia, appena muovo la testa un pugno di aghi bollenti mi affonda nelle tempie. Avevo la francese, sono stato stupido a girarmi, avevo un carabiniere davanti e uno dietro, ma c’era la turista di mezzo, non avrebbero mai sparato. Stava appoggiata a un muro, cercava l’ombra mangiando una fetta di cocomero. Il marito teneva i fazzoletti sotto il mento dei figli piccoli, per evitare che il sugo della frutta gli sgocciolasse lungo il collo. Due vigili mi avevano riconosciuto, ho visto che subito s’erano attaccati alla radio. Poi sono arrivati quei due motociclisti del radiomobile. A sirene spente, ma ho capito che era per me. Ho preso la donna bloccandola al collo, l’ho trascinata via puntandole la pistola a un fianco, i caramba sono scesi con le armi in pugno, uno davanti e uno dietro, io urlavo “Tanto sono morto, l’ammazzo!”, quello più basso ha detto qualcosa, e mi sono girato verso di lui per sparare.
L’altro allora mi ha colpito da dietro.

Luciano Liboni, sei il padre che non ho mai avuto.
(spray nero nel sottopassaggio pedonale nella zona mare in viale Trieste, Pesaro)

25 – 30 luglio 2004

Quei giardini vanno bene.
Chiesa di san Gregorio al Celio, dice il cartello davanti all’edificio. C’è un grosso cespuglio di oleandro accanto a un olmo maestoso, c’è ombra e fresco, e silenzio. Tre barboni stanno seduti a bere, un altro, dieci metri più in là, dorme seminudo sull’erba fresca. Un altro – mi sembra algerino – mi guarda. Gli chiedo se posso stare là. Mi dice di sì. Fa un gesto con la mano sotto al culo. Passandogli accanto vedo che è una copia di Metro. In prima pagina c’è la mia foto. Mi ha riconosciuto. Ma non parlerà, lo so.
Prendo un lungo segmento di cartone e lo sistemo per terra. Dallo zaino tiro fuori un nuovo paio di occhiali con la montatura grossa, cambio la fasciatura alla mano, mi sistemo il cerotto sullo zigomo. Dai trentamila euro, senza farmi vedere, tiro due banconote da cinquanta e vado in una salumeria. Compro panini e prosciutto, sottaceti, mortadella, biscotti, acqua, birra e vino. Torno al campo e li offro in giro senza dire niente.
Gli altri accettano con un movimento della testa, l’algerino mi dice “grazie”.
La mattina mi lavo alla fontana dei giardinetti. Resto in mutande e, in ginocchio sotto il rubinetto, mi faccio una piccola doccia fresca. Ho comprato un pacco di lamette usa e getta e una confezione di schiuma da barba. Mi rado usando lo specchietto di Mohammed, cospargo la testa di crema e passo la bic anche sui capelli. Ho comprato due magliette e un paio di pantaloni dai bengalesi all’angolo, gli ho dato 200 euro, loro hanno intascato subito, ringraziandomi. Le pattuglie della polizia passano davanti al circo Massimo, ma qui non s’avvicinano mai.

Luciano Liboni è il mio dio
(Spray nero su un muro, zona porto, Pesaro)

24 luglio 2004

In via Terme di Diocleziano, una traversa di piazza della Repubblica, vado al mercatino del giovedì, devo comprare altri occhiali, quelli che ho li ho già usati troppe volte, su un giornale ho visto una ricostruzione del mio volto al computer, di come apparirebbe se indossassi di volta in volta diversi modelli.
Sono le dieci. È pieno di gente, è pieno di sbirri, forse ho sbagliato a muovermi. Due tizi mi guardano da qualche minuto. Fanno finta di scegliere i profumi, puntano i beccucci dei tester sui polsi e spruzzano, si portano le mani alle narici odorando. Qualcosa non va. Intanto, i giubbini di jeans che indossano nonostante il sole. È luglio, fa troppo caldo, tutti girano con le canottiere o le magliette. Poi quei marsupi a tracolla, nonostante le tasche dei jeans siano vuote. Mi sposto al centro, mi butto in mezzo alla folla. Non mi giro, non so se mi stanno seguendo. Fendo i corpi sudati, senza fretta. Taglio verticalmente tutto il mercato, arrivo al capo opposto. Mi volto. Non c’è nessuno. Mi giro per proseguire ed eccoli, accanto al furgoncino che vende le scarpe. Merda.
Uno dei due si slaccia un bottone del giubbino, dalla tasca interna brilla un riflesso del sole sulla placca metallica, è la polizia. Tiro fuori la pistola, loro fanno altrettanto, urlano “Liboni, fermo!”, sparo, si nascondono dietro una colonna, la gente urla e scappa, si appiattisce per terra o dietro i banchi, un venditore si lancia nel suo pulmino e si tira dietro il portellone al quale era fissata la struttura del suo banco, crolla tutto, i vestiti si spargono intorno, butto per terra due persone e comincio a correre, in piazza della Repubblica mi infilo in una Fiesta, davanti, assieme al guidatore, c’è una ragazza, dietro un bambino, “Muoviti, cammina!”, grido con la pistola in mano, il bambino non dice niente, nemmeno la ragazza parla, da Largo di villa Peiretti arriviamo in via Principe Amedeo, la stazione Termini è vicina, nemmeno gli dico di fermarsi, apro la porta e mi butto fuori, e corro corro corro.

sanlorenzo.jpg

Liboni uccidili tut
(vernice bianca sulle Mura Aureliane, Roma. La scritta è incompleta perché gli autori furono arrestati in flagrante dalla polizia)

22 luglio 2004

Parcheggio la Yamaha e scendo. Sono le 12.30, entro in un bar a sant’Agata Feltria. Ordino una birra, chiedo di usare il telefono. La barista me lo indica. Parlo per mezz’ora, la barista mi guarda preoccupata, finge di pulire i bicchieri, fa i caffè ai clienti, batte gli scontrini alla cassa. Mi lancia occhiate lunghe, mi tiene gli occhi addosso. Dopo un po’ prende il cellulare e fa una chiamata. Finisco di parlare, bevo la birra che nel frattempo s’è fatta tiepida. Sto per uscire, quando sulla porta mi ferma un carabiniere.
“Favorisca i documenti,” dice.
La donna abbassa gli occhi, sistema il vassoio delle paste nella vetrinetta.
“Certo – dico – li tengo nel portaoggetti della moto”.
“Andiamo”, fa lui seguendomi.
Facciamo qualche metro in silenzio. Allungo la sinistra sulla moto, con la destra prendo la pistola, mi giro di scatto e sparo. Il proiettile gli apre un foro nella gola, il carabiniere cade a terra con un gorgoglio umido, come un lavandino intasato quando si svuota. Salgo sulla moto, a cavalcioni del mezzo prendo la mira e sparo di nuovo al petto. Metto in moto e imbocco i tornanti delle Balze, in direzione della superstrada E45.

Luciano Liboni fuggi per noi
(spray, sottopassaggio della Tombaccia a ridosso della statale, Pesaro)

Maggio 200*

E’ una bella giornata di maggio, prendo la moto e vado a farmi un giro in mezzo ai boschi. Mi piace correre. Se mi va bene quell’affare con Lucio, questo è l’anno buono che mi compro la Suzuki che ho visto al concessionario, giù in centro. Accelero. Laggiù, oltre il pendio di pini, c’è un rettilineo veloce. In alto, una specie di luce da visione che sta venendo meno, con il cielo che reprime la propria nausea.
E io dentro, che sono arrivato nel momento sbagliato – o troppo presto o quando era ormai troppo tardi.

[l’inizio e la fine del racconto sono rielaborazioni libere tratte da La Freccia del tempo di Martin Amis. Il racconto fa parte dell’antologia Niente resterà pulito, 24/7 Rizzoli]

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