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Nascita di una passione

di Federico Lenzi

La cucina economica nera, piena di carbone e di legna, brilla come una zucca illuminata. Gli sbattiuova ronzano, i cucchiai girano e girano intorno alle scodelle di burro e zucchero, la vaniglia addolcisce l’aria, lo zenzero la rende piccante; odori di cottura, morbidi e stuzzicanti, saturano la cucina, si diffondono per la casa, si allargano nel mondo con gli sbuffi di fumo del camino.
Truman Capote, da Un ricordo di Natale

Quando ero piccolo la casa dei nonni è stata per me una scuola di odori. Ero alto come il tavolo della cucina di Siena o di Chiusdino, e forse proprio le dimensioni contenute mi permettevano di curiosare tra i fornelli senza essere ripreso. Mi ricordo mio nonno e mia nonna, una ditta gastronomica che si attivava dalle prime ore del mattino. Nonno Guido si era costruito la fama di esperto di cibarie, e così mi portava con lui a cercare spigole e tartufi, ma anche cose più banali, come le bombolette di seltz dal Mancini in Piazza del Campo. Quel distributore dell’acqua di seltz rosso fiammante ha allietato non poco le mie inestinguibili seti estive. Mio babbo diceva che al nonno appiccicavano il pesce vecchio, ma ai miei occhi di bambino la sua infallibilità di gastronomo incallito sembrava inevitabile, e del nonno mi fidavo come ci si fida dei grandi, quando si è piccoli.

Dopo i giri dietro di lui negli spacci must della gola senese, Manganelli Morbidi & Co, tornavamo nella casa del Casato, via ombrosa che ha così bene descritto Luzi, e lì cominciava l’azione della nonna, coadiuvata all’epoca da Pasqualina, non una torta ma una signora chiusdinese che l’ha aiutata in casa per tanti anni. Ora, appassionarsi di cucina in compagnia di mia nonna, è un po’ come ammalarsi di erotismo in un convento di clausura. Mi spiego. Mia nonna, che pure è diplomata in pianoforte con il massimo dei voti, difetta di fantasia. Forse la vita non le ha lasciato molto spazio all’immaginazione, o forse il contrario, è lei a non aver lasciato alla vita un qualche margine di sorpresa. Per farla corta, secondo mia nonna cucinare e tenere in ordine la casa erano la sua missione suprema, e l’ha onorata come un soldato integerrimo onora la divisa. Per il piccolo mago entrare nella cucina della nonna era a mezzo fra l’entrare in un monastero e in una corte marziale. Austerità e rigore, senza alcun risparmio. Ricordo il cencio bianco steso e infarinato per i ravioli ricotta e spinaci; le fantozziane zuppe inglesi, di una pesantezza fuori dalla grazia di Dio. Ricordo la preparazione del pollo in galantina, a Lepanto in confronto fu una passeggiata. Il fatto è che, qualsiasi cosa uscisse da quella cucina o quasi, ecco, era buono. E quando la porta a vetri ziglinati si chiudeva, dentro qualcuno stava friggendo il friggibile, dai conigli alle cotolette col salame, dai carciofi alle patate.

Due grandi regole generali organizzavano la cucina di mia nonna: prima di tutto pesantezza, e poi divieto di qualsiasi abbinamento logico. Un pranzo importante di mia nonna poteva essere così strutturato: risotto coll’umido di carne, cacciucco, carote al burro e zuppa inglese. Da ammazzare un toro. Mia mamma c’ha perso prima lo stomaco, poi il sonno. A ripensarci, non mi spiego perché mi ricordi così bene i pasti dalla nonna, e non quelli in casa mia, che rappresentano comunque la stragrande maggioranza. Di mia nonna ricordo il carrello, con il quale l’apparecchiatura e i vassoi venivano traghettati dalla cucina al soggiorno e ritorno; i piatti fondi e pesanti; il vino fatto da lei – come potrei dimenticarlo? – che è il più cattivo d’Europa, ma molto annacquato è quasi bevibile. Ricordo le merende chiusdinesi, il pane con vino e zucchero, o col pomodoro strusciato e l’olio buono. Ora mia nonna non cucina praticamente più, i piatti e le pentole se ne stanno a riposo dentro i mobili di cucina, nuovi per colpa di una bombola del gas a cui prese il ghiribizzo di esplodere. Ma come su un campo di battaglia sembra di sentire il clangore delle armi, in cucina di mia nonna si respirano ancora i fasti di passate stagioni, si coglie l’eternità nel pensiero di un soffritto d’aglio e cipolla.

Quando frequentavo le scuole medie, e vivevamo al piano sotto ai nonni, il giorno che avevo i rientri per la musica mangiavo da loro, ed i tempi erano serrati, perché uscivo alle 13:20 e dovevo rientrare alle 14. Pasta in tavola alle 13:25, nonno Guido scrutava l’orizzonte in terrazza, e quando mi vedeva sbucare dal Casato di Sopra, gridava, rivolto al portone di casa aperto: arriva! Poi lasciavo il pesantissimo zaino nell’ingresso, mi mettevo il tovagliolo alla Alberto Sordi, e mangiavo tranquillamente 150 grammi di pasta, a 12 anni. I miei sughi preferiti erano uno molto semplice con salsa di pomodoro aglio e salvia, oppure le arselle, la matriciana, quattro formaggi. Nella carbonara la nonna metteva un chilo di burro, e con gli anni mi sono insospettito fino a ostracizzare quella versione ipercalorica della divina vivanda. Insomma, quei pranzi in volata erano delle mazzate da abbattere un adulto, secondo me i problemi con la respirazione sono cominciati lì. Provate voi a suonare un flauto traverso dopo un pranzo luculliano e una corsa per tornare a scuola.

Ci sarebbero tante altre cose da raccontare, forse non sono riuscito a rendere l’importanza capitale che il cibo aveva in casa dei miei nonni, e che si traduceva per spirito di ribellione in curiose passioni antigastronomiche di mio padre, su tutte l’orrida carne Montana. In casa dei miei nonni il cibo era una fede, e come tutte le fedi peccava di rigidità. Ma alla fine di un buon pasto, poteva capitare che mio nonno soddisfatto baciasse sulla testa mia nonna, proprio in punta alla nuca, uno dei gesti d’affetto più enigmatici che abbia mai visto, e la apostrofasse: la mi’ popa. Questo era il culmine di un processo che si avviava nel primo mattino di ogni santo giorno, meno magari i venerdì di quaresima e giorni sparsi di magro. Nei giorni di festa tutto si gonfiava fino a esplodere. Mia nonna era capace di utilizzare il cibo come strumento di offesa, ma non è questa la sede per parlarne. Se ho capito una lezione in cucina di mia nonna, la lezione è: con il cibo non si scherza, e non si bara. Ci vogliono tempo e fatica. Ma mancava una seconda fondamentale lezione, quella di mia madre, il geniale folletto transalpino della tavola.

Mia mamma non proviene certo da una famiglia di quelle che ci si alza la mattina presto e si comincia a cucinare, perché in sostanza non si ha da fare altro. Detto questo, anche dalla parte francese della famiglia non si disdegna la buona tavola, e c’era un tempo in cui l’altra nonna, Irene, ai fornelli ci stava, e si divertiva: anche i commensali non se la passavano male. Mia mamma, i primi tempi dopo sposata, era probabilmente angosciata dalla suocera, che si sentiva in dovere di insegnarle a cucinare la cucina italiana. Mia mamma è debole di carattere, sennò ce l’avrebbe mandata quasi subito. Invece ne ha subita la prepotenza per un trentennio, il trentennio della Nazinonna, e le prevaricazioni sono, sebbene affievolite, tuttora in corso.

La cucina di mia mamma è un crocevia di culture, sembra un discorso prodiano quando era ancora a capo dell’Europa. Nei piatti di mia mamma ipertestualità e contaminazione, leggerezza e gran gusto, slancio e segreto. Le sue quiches, le crêpes, il clafoutis, solo per citare qualche francesismo. La blanquette, la daube. E poi via coi valzer di pastasciutte, con gli arrosti che si sciolgono in bocca, con le fricassee leggere come spuma di nuvole, con le invenzioni. Forse il periodo augusteo di mia madre è passato, o sta finendo. Le sono nel cuore, sono trent’anni che cucina per mio babbo, non proprio prodigo di complimenti, e spesso proprio un cinghiale nel mancare di magnificarla a dovere. I figli non ci sono più, o ci sono sempre meno, e lei allenta la corda, si è stancata. Ma che resti a imperitura memoria, la sua sfrontatezza di fronte ai fornelli, il suo colpo di tacco, l’intuizione vincente, la festa a tavola. Ecco la seconda lezione: è una lezione di estetica del gusto. In cucina un po’ di fantasia non guasta. Insomma, serve un calciatore metà brasiliano e metà tedesco.

Mia mamma è stanca? Sono pronto a raccogliere il testimone, e a seguirne le orme. Se questo libro vedrà mai la luce, che le sia dedicato con tutto il cuore possibile, al batuffolo transalpino. Lo merita, in segno di infinita riconoscenza e gratitudine.

**********

Il sugo del trasloco

Ricordo che era caldo, ma non torrido. Cominciò perfino a piovere, e dovemmo riparare dentro in velocità, con tovagliette e tutto. C’era Marta, come in ogni situazione di cambiamento o partenza che si rispetti. Era il 30 agosto del 2006, il giorno dopo avrei lasciato Rue Baron, quello strano palazzo disabitato con il tappeto rosso sulle scale lerce. Non mi ricordo perché avevo invitato Marta a pranzo, probabilmente per caso, dovevamo vederci e ho proposto di mangiare da me. Il frigo era tipo quello di mia nonna, che è perennemente vuoto. Qualche avanzo qua e là, veramente pochi elementi. E ho inventato un sugo con i quattro ingredienti che c’erano. Non un sugo, ma IL sugo. Ovvero la prima vera invenzione certificata del mago. Qualcuno si sganascerà, al solito, perché magari questo sugo lo mangia dal lontano 1947, ma per il mago fu una rivelazione incontestabile, aveva fatto una delle pastasciutte più buone e gustose della storia.

Allora, volete sapere i magnifici quattro? Pomodori secchi, lardons, olive, panna. E una sventagliata di parmigiano, en passant. Ho preso un cucchiaio di olio dei pomodori secchi, frutto della settimana italiana di ED, e l’ho messo a scaldare nella padella di rue Baron. Ho aggiunto i lardons, per cuocerli un po’ in questo olio di conserva, a piastra viva. Nel frattempo ho preso i pomodori secchi che avanzavano in fondo al barattolo di vetro, due/tre, e non mi ricordo di averli asciugati, forse sì, ma per sporcarmi un po’ di meno. Li ho tagliati a pezzettini piccoli, ho tagliato anche le olive verdi snocciolate a fettine, e quando i lardons avevano fatto l’acqua e cominciavano a diventare croccanti, ho aggiunto prima i pomodori, due minuti dopo le olive. Non fateci caso, sono vezzi d’artista. Ho lasciato cuocere a piastra tranquilla, e quando sia le olive che i pomodori avevano buttato il loro liquido, prima che il sugo potesse bruciacchiare ho aggiunto la solita panna da cucina francese, un po’ acida, e ho lasciato legare ancora per qualche minuto. Spaghetto Garofalo, altro frutto della settimana italiana da ED – e ancora devo mangiare uno spaghetto di supermarket più buono di quello -, levato al dentissimo, per superspadellata.

Ho girato ben bene e aggiunto parmigiano, quindi portato in tavola quel sugo chiaro e apparentemente innocuo. Marta è stata la prima ad esclamare che cavolo, era buono. L’ho dovuto ammettere anch’io. Soprattutto era un equilibrio di forze radente la perfezione. Ben omogeneo, ben condito, lo spaghetto più buono della gestione di Rue Baron. E il primo confezionato alla cieca, senza seguire visioni ancestrali o consigli telefonici. Infatti mi ricordo poi di aver chiamato tutti i gradi della famiglia per raccontare l’invenzione. Nemo profeta in patria sua. Mago inascoltato, ma pago nella perpetuità del ricordo. Ho riprovato a fare quel sugo, ma buono come quella prima volta non mi è mai riuscito. Forse a causa dei pomodori di una marca differente. O dell’avere usato olio di mia nonna per cuocere i lardons invece dell’olio dei pomodori, che dava un suo sapore ai ciccioli di carne. Mi è venuta troppo secca, o quasi acquosa, ma mai come quella prima volta. Vicina, vicinissima, ma mai al livello della prima. Avevo il biglietto gastronomico per traslocare, e buono anche il ricordo.

***

Federico Lenzi nasce a Firenze nel 1979, ma vive a Siena, dove si laurea nel 2003 con una tesi su Angelo Maria Ripellino, di cui ha recentemente curato la ripubblicazione integrale delle poesie. Insieme a Paolo Grazzi gestisce una compagnia teatrale, il Teatrino del Corvo. Ha pubblicato un romanzo, Il Berlusconi è occupato! (Polistampa 2004) e vari interventi su riviste (“Caffè Michelangiolo”, “Microprovincia”, “Trasparenze”). La sua mail è ortelius79@inwind.it, il suo blog http://www.myspace.com/corvo_glam.

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6 Commenti

  1. bello
    di lessico coquinario familiare

    Ma poi col tempo come cresce la sua immagine,
    come ci manca, com’è ingorda, come luccica
    da ogni bottiglia, da ogni piatto, da ogni frangia,
    da ogni cibo che amava, dalle croste di uno Strudel,
    dai grumi di agrumi, da ogni nastro di bucce
    con cui preparava dolcini di arancia.

    A. M. Ripellino

  2. Sempre si salutano gli amici degli amici.

    Complimenti!

    *

    Splende di casseruole e di padelle
    l’eterna lebbra delle cucine.
    E il pappalasagne, il divoragalline
    salirà alla conquista delle stelle.
    Fosforescente maiale,
    anche le stelle trasformerà in arsenale
    di fricassèa e di fritelle.

    A. M. Ripellino

  3. Grandioso, caro Federico: Parigi prima di notte, poi amoroso, decadente, raffinato, libertino e finalmente fritto in padella (in quest’ultima condizione già conosciuto per raro privilegio concesso dal gran “cuoco”), tra poco non sarà più lo stesso, apparendo mangiucchiato da più parti. Affrettarsi a goderselo, miei cari, o non ne rimaranno che briciole sparse per colpa d’insaziabili golosi; singolare ventura mai occorsa ad un libro, che io sappia. Maurizio Rossi

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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