Il serial killer di negri

di Marco Rovelli

S. annoda i due indici delle mani stretti, lo fa più volte, come a dire quel che gli è mancato e continua a mancargli. “Noi senegalesi siamo così”, dice. Solidali. Non succederebbe che qualcuno venga lasciato morire per la strada. E’ questo lo sradicamento, l’inaccettabile profondo: trovarsi in una comunità che non sa più di essere tale. Ci siamo incontrati in piazza del Duomo, perché S. (l’iniziale è a dire che è un clandestino, e il destino del clandestino è quello di nascondersi) è lì a vendere braccialetti e collanine, come tanti suoi connazionali, clandestini come lui, per tirar su dieci, quindici euro al giorno. Qualcuno lo ha accoltellato un anno fa, e il nostro scopo, adesso, è che polizia e stampa se ne accorgano, e si mettano in moto. Ché fino ad ora, nulla, ma proprio nulla, si è mosso. Questo è lo scandalo, e qui bisognerebbe inciampare. Qualcuno dovrebbe dire che a Milano c’è qualcuno che va in giro per le linee dei tram per accoltellare uomini neri, con lo scopo di ucciderli. Come sempre le cose stanno lì, davanti, e nessuno le intende guardare. Che cosa importa, tanto sono negri. E che la nostra Milano è così sporca che pare una città africana e va ripulita, non l’ha detto un naziskin, ma qualcuno che dovrebbe essere un’autorità morale – se questo paese avesse una morale.

Il 31 maggio 2009 qualcuno ha accoltellato Mohamed Ba. Musicista e attore senegalese, regolare da anni ormai, lavora come educatore nelle scuole, e insegna ai bambini milanesi le memorie di Milano che nessuno gli insegna più. Fino a qualche giorno prima dell’accoltellamento era in scena in teatro, con Lotta di negro contro cani, di Bernard-Marie Koltés. Poi gli è toccato di incontrarne uno, di cane, un cane matto e rabbioso, a una fermata di un tram. Il 90, in via X, vicino a viale Certosa. Erano le otto di sera, Mohamed aspettava, da solo, in mezzo a un gruppo di persone per la maggior parte sudamericane, probabilmente clandestine. Stava dietro il gruppo, come sempre, a Mohamed non piace la calca. Un ragazzo con il casco sotto braccio esce dal gruppo, gli si fa incontro. Mohamed non sa che è lui l’ospite inatteso. Il ragazzo con il casco sotto braccio gli dice, con inequivocabile accento italiano: “C’è qualcosa che non va?”. Mohamed lo guarda, una domanda del genere porta tempesta, Mohamed si ripara, “No, va tutto bene, amico”. Il ragazzo con il casco sotto braccio si volta, pare che cerchi una sigaretta, forse la tempesta si allontana: ma invece è solo per farsi fulmine. In tasca non cercava una cicca ma un coltello, si volta di scatto e lo infila nelle costole di Mohamed, proprio sotto il cuore. Rotea il coltello per lacerare quella carne, lo estrae, e poi ancora un’altra coltellata. Mohamed cade a terra, intorno tutti corrono via, quando Mohamed riapre gli occhi già non vede più nessuno. Tranne il ragazzo con il casco sotto braccio. Che ha il tempo di pulire i coltello in uno straccio, e di sputare in faccia al negro. Mohamed lo vede di andarsene di spalle, senza fretta, senza mai voltarsi. Sicuro del suo lavoro di angelo sterminatore.
Mohamed si rialza, spruzza sangue, ha una scia che lo segue. Chiede aiuto, qualche automobilista rallenta, fa per fermarsi, ma lo vede, ingrana la retromarcia e scappa. Reazione naturale, il terrore, e il terrore fa terra bruciata della ragione. Ma poi, possibile che nessuno abbia pensato di telefonare a un’ambulanza, o alla polizia? Sì, possibile. Nessuno. Per un’ora, nessuno. Mohamed si trascina fino in viale Certosa, si sente poca vita dentro, è quasi tutta scivolata via, ha freddo, lo sguardo trema, si getta in mezzo al viale, tra le macchine dell’ora di cena, schizzano. Una donna si ferma, forse un medico. Poi l’ambulanza. I poliziotti, anche. Dov’è scappato quello col coltello, chiedono. Poi Mohamed non li vede più. Niente, nessun inquirente, nessun giudice, nessun giornalista, niente di niente. In questura nessuno si è mosso, eppure si trattava di un’ipotesi di reato perseguibile d’ufficio, e agli amici di Mohamed sarebbe stato possibile presentare un esposto, ma a loro è stato detto solo che sarebbe dovuto essere Mohamed stesso a presentarsi e fare denuncia. Così sono passati tredici giorni dal fatto. Eppure qualche indizio c’era: alto, robusto, una quarantina d’anni, i calzoni infilati negli anfibi. Un particolare che fa pensare a un tipo molto preciso di persone.
Mohamed mi dice che ha sentito dire di un altro senegalese accoltellato con le stesse modalità. E’ lo scrittore Pap Khouma a farmi trovare S., che incontro in piazza Duomo. S. ha 32 anni, ed è stato accoltellato il 20 luglio 2008 (anniversario dell’omicidio di Carlo Giuliani, che forse non c’entra, ma c’entra). E’ passato un anno dunque, e il silenzio sul suo caso è sempre più forte. La descrizione che S. fa del suo aggressore è molto simile a quella fatta da Mohamed: alto, robusto, una quarantina d’anni. Italiano. Aveva una t-shirt e dei pantaloncini, addosso, quando lo ha accoltellato. A differenza di Mohamed, S. è stato colpito a bordo di un tram, il numero 14, per il Duomo. Sono le undici di sera. L’uomo senza casco sale alla fermata di fronte al cinema Orfeo, sguarda subito S. Che sta ascoltando musica con le cuffie e se le toglie per sentire meglio l’uomo senza casco che gli si rivolge dicendogli “Cazzo c’hai da guardare?”. Scuote la testa, S., Niente, dice. Ma l’uomo senza casco continua a dirgli “Cazzo c’hai da guardare?”, gli sta davanti e S. non sa che fare, finché l’uomo senza casco tira fuori una mano dalla tasca, impugna un coltello, colpisce S. proprio sul bordo superiore del cuore, estrae e cerca di affondare, ma S. ha il riflesso di ripararsi con la mano, il coltello la squarcia. Adesso l’uomo senza casco non ha più il tempo di colpire, è arrivato alla fermata, ha calcolato i tempi con precisione, le porte si aprono, deve scendere. Venticinque persone, tutte guardano, nessuno interviene. L’autista ferma il tram, poi arrivano due poliziotti, chiedono, fanno domande. Ma poi S. non vedrà più nessun inquirente. Il giorno dopo un trafiletto sulla cronaca locale, poi silenzio. Una settimana di ospedale, operazione ai tendini della mano, poi due mesi chiuso in casa. Da allora, dice, Ho sempre problemi respiratori, e mi fa vedere la cicatrice appena sopra il cuore, a un respiro dalla morte. Perché?, mi chiede. Perché questo silenzio.
Prima di andarmene, S: mi dice che ha saputo di un peruviano accoltellato sul tram 27. Non ho avuto modo di verificare questa notizia.

Quando Mohamed, alla fine dello spettacolo che faremo insieme con il Teatro della Cooperativa, Servi,  racconta in scena la sua storia, si rivolge all’aggressore chiamandolo “fratello”, e mi colpisce il suo tono, che non è falsamente retorico, ma è il tono di chi è inarreso, e cerca ostinatamente di comprendere ciò che comprendere non è possibile.
Ma allora, perché nessuno fino ad ora ha collegato questi casi? Se le vittime fossero state bianche e l’aggressore nero, non si sarebbe già scatenata la psicosi di massa? Gli organi di “informazione” (le virgolette qui devono abbondare) non avrebbero già procurato allarmi su allarmi? Invece niente. Sono negri, loro.

(pubblicato su l’Unità,  20/8/2009)

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10 Commenti

  1. .. ma come non si stà facendo niente?.. in che senso.. e gli inquirenti ?..

    .. a seguito di una denuncia è fondamentale che le autorità intervengano.. e indaghino.. qul’uomo è malato e imprevedibile.

    ..questo è un delinquente pericoloso per tutti, se mai un giorno decidesse di cambiare obbiettivo, a sua discrezione?..potremmo essere noi tutti le vittime..

    E’ importante per tutti sapere di questi eventi folli, io prendo spesso la 90 e la 91 e potrei trovarmi davandi a un fatto del genere e non essere ingrado di reagire, perchè preso dal panico.

    Sapere è fondamentale per tutti, ma neanche giornali tipo City o Metro, che sono giornali distribuiti gratuitamente nelle metropolitane milanesi ne hanno scritto?

    .. ma è allucinante.

    Io srivo alle redazioni!!

  2. Sono basito! Non conoscevo la storia, ma, da come la racconta Rovelli, ho l’impressione che ci siano gli estremi almeno per una denuncia per omissioni di atti d’ufficio a carico degli inquirenti. Sempre che effettivamente non sia stato fatto nulla.

    Questa storia è una BRUTTA storia e non può rimanere nascosta.

    Blackjack.

  3. Non ne usciremo indenni. L’apatia verso i respingimenti e storie come queste è una colpa di cui porteremo la responsabilità molto a lungo.

  4. In tempi in cui la legge si fonda sempre meno sul diritto e le parole del potere politico troppo spesso negano se stesse, l’evidenza di ciò che esprimono o insinuano o inculcano, ho l’impressione che una delle forme più serie di resistenza (a una tale deriva etica, politica e culturale) sia proprio farsi testimoni rigorosi di fatti come questi, tutt’altro che episodici appunto.
    Grazie.

  5. Ancora una volta emerge che non esiste semplicemente una bestia che accoltella persone con la pelle nera, ma una folla di uomini e donne che spariscono, tacciono, travolte dalla paura e viziate da un senso comune per cui è ovvio il noi/loro. Tengo a mente le prime righe dell’articolo, che rigiran la lama nella piaga della nostra assenza di comunità, nella ferita di una società atomistica e anomica, in cui il mio prossimo è il mio alleato, fino alla prossima ostilità. E guardo tristemente l’immagine in cui quelle persone, qlle stesse che sono fuggite, che non hanno denunciato, le stesse che si dicono cristiane o umane pur votando per i partiti della guerra agli stranieri, l’immagine in cui queste brave persone accarezzano i propri gatti, magari dicendo che gli animali hanno più cuore degli uomini, o giocano puerilmente con i cani, loro sì fortunati titolari di dignità e diritti.

  6. Ma spaventa e – sinceramente – mi preoccupa poco lo Squilibrato ( che probabilmente ci legge, sorridi testa di cazzo sei famoso )

    Mi preoccupano e mi spaventano gli altri. Quelli che ” chi se ne frega”, quelli che hanno un’unica reazione : accelerare il passo, stranieri o it che siano.

    Ecco.

  7. Quel coltello cadrà davvero dalle mani del delinquente.
    Ma solo quando in questo paese impareremo ad amare il prossimo.
    A roma, da tempo ormai, hanno deciso di nascondere il problema: tutti i clandestini fuori dalle stazioni ferroviarie.
    Perchè chi gira in stazione, per spendere soldi e – forse- prendere un treno, non può nè deve vedere tanta “diversità”.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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