Il coraggio che manca alla “sinistra” che parla come la destra

di Marco Rovelli

Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. In Pensiero politico e scienza della mente (Bruno Mondadori, 2009), George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno. Secondo Lakoff questa rincorsa ha segnato negativamente il destino dei liberal americani nei confronti dei repubblicani – ma viene naturale riportare il suo discorso anche alle derive politiche italiane.

Il fatto è che per vincere occorre comprendere l’inconscio cognitivo, il sistema di concetti che organizza la nostra mente, strutturata da “frame”, cornici concettuali metaforiche di cui per la maggior parte siamo inconsapevoli ma che orientano in maniera decisiva la nostra interpretazione dei temi e dei discorsi politici. Questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è “esperienza incorporata”. “I modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente.” Due sono i modelli fondamentali secondo Lakoff: quello dei genitori premurosi e quello del padre severo. Danno vita a modalità profondamente di concepire la politica (Moralità è Cura versus Moralità è Obbedienza all’autorità), e bisogna esserne consapevoli per poter produrre un discorso politico vincente. Non basta citare fatti e cifre: bisogna partire dal significato morale, dai frame metaforici che strutturano la nostra mente, dal “mobile esercito di metafore” che percorre i nostri tracciati neurali. E “quando una verità importante passa inosservata perché priva di frame e di nome, può diventare importante costruire un frame concettuale e un nome”: Lakoff lo ha fatto coniando un termine, privateering, la “privatizzazione predatoria” che designa l’insieme di una serie di politiche repubblicane. Ma lo si potrebbe fare anche in Italia, senza aver paura di essere tacciati di “ideologia” (“la paura, dice Lakoff, di come l’altra parte presenterà il nostro voto e la paura di mostrare la verità su noi stessi”). Accettare il frame dell’avversario (dalla sicurezza alle riforme…) significa essere sconfitti in partenza. Così come si è sconfitti quando si accetta l’impostazione di conduttori di talk-show conservatori (“Siete a favore di una riduzione/alleggerimento delle imposte?”; “Dobbiamo vincere la guerra al terrore o ritirarci?”), senza avere il coraggio di opporgli un altro tipo di impostazione, di frame. Non è solo questione di parole, ma di idee e di valori che stanno dietro alle parole. E poi, alla radice di tutto questo, Lakoff sottolinea come troppo spesso la politica progressista si sia dimenticata del suo valore fondante, l’empatia, che determina la cura degli altri come necessità, e che assegna allo Stato i ruoli sia di protezione (libertà da) che di empowerment (libertà di: le possibilità concrete di uguaglianza, insomma). L’empatia, ricorda Lakoff, si fonda sulla circuiteria dei neuroni specchio, che si attivano sia quando eseguiamo un’azione che quando la vediamo eseguire, e che sono dunque responsabili della nostra identificazione nell’altro, dalla quale riceviamo piacere: empatia e cooperazione sono dunque valori fondanti dell’umano, e occorre coltivarli e rivendicarli, invece di accettare i frame della paura e dell’obbedienza tipici delle narrazioni metaforiche dei conservatori.

pubblicato su l’Unità, 20/01/2010

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30 Commenti

  1. Senza parole … Siamo destinati al nulla, al ghiaccio perenne … Un Chomsky rimasticato: dal linguaggio innaturato ai modelli culturali che sono già nel nostro cervello … Alla faccia del rapporto tra essere sociale e pensiero, e alla faccia di un secolo di studi sulla relazione tra le strutture e la coscienza. Se poi entrano in gioco i “genitori premurosi” e il “padre severo”, allora mi chiedo perché caspita io, che ho avuto un padre che usava la cinghia (e severo è davvero dir poco), perché io sono diventato il contrario, distaccandomene nettamente … E l’ho fatto grazie alle esperienze non pre-esistenti nella mia mente, ma fatte nello scorrere dei giorni, sudando, studiando, impegnandomi e facendo tracimare dentro la mia mente i concetti acquisiti e regolando con questi conscio e – per quanto possibile – inconscio … No, i modelli culturali non sono affatto nel nostro cervello: li acquisiamo, così come acquisiamo il linguaggio … E poi l’empatia è il contrario di ogni politica che voglia cambiare le cose: ma perché caspita non rileggersi Benjamin, là dove parla della necessità del distacco? Altro che identificarsi nell’altro! Per vincere bisogna spazzare via il ciarpame … Ma siamo destinati al nulla, al ghiaccio perenne …

    sp

  2. a me sembra invece molto interessante il punto di vista di Lakoff per capire anche questa modalità tutta italiana di non saper gestire una opposizione degna di questo nome. Non si sta dicendo che si tratta di modelli innati ma che “questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è “esperienza incorporata”. “I modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente.” Si sono formati dai primi anni della nostra vita, grazie all’immersione nel frame culturale nel quale siamo nati; così come il linguaggio è appreso e non innato: la possibilità di apprenderlo è innata, per riassumere in tre parole schematiche il pensiero di Chomsky.
    La sinistra dovrebbe pensare/studiare di più, questo è certo.

  3. “Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. ”

    questo è vero, basta vedere la pessima pessima figura del pd in Puglia…

    poi…tanto per essere chiari:

    affanculo le teorie cognitiviste e i cultural studies

    “George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno.”

    invitando Lakoff ad articolare un proprio linguaggio che inseguire le logiche capitalistiche sul suo terreno magari…

    ed ora

    risata redazionale…

  4. Molto d’accordo con Rovelli, come del resto mi capita spesso ultimamente.

    Ho pensato, ultimamente scrivendo un pezzo che poi non ho scritto, della sconfitta delle femministe. Mi è sembrato di essere giunto alla conclusione che hanno confuso l’essere Pari agli maschi con l’essere Uguali agli maschi. L’unico modo che hanno trovato per essere Pari è diventare dei specie di maschi femminili. Mi sembra di cogliere forse lo stesso sintomo – fatte tutte le debite eccezioni bla bla bla – in questa specie di sinistra. E non credo che sia solo mancanza di coraggio, è proprio assimilazione culturale.

    Ecco, mi dispiace.

  5. @ Sparz
    io, lo ammetto, sono un po’ tonto; ma il pezzo che citi continua così:

    “Due sono i modelli fondamentali secondo Lakoff: quello dei genitori premurosi e quello del padre severo. Danno vita a modalità profondamente di concepire la politica (Moralità è Cura versus Moralità è Obbedienza all’autorità) …”

    e io ne ricavo, molto banalmente, che il modo di concepire la politica è già dentro di me, nelle due varianti progressista e conservatrice. Posso dubitarne? E posso, pur da ignorante, rimanere dell’idea che il rapporto fondamentale con l’esterno, quello che mi permette di formarmi un’idea politica, avvenga più avanti negli anni e che si distacchi da quei modelli? Anche se il mio contesto (famiglia, asilo, etc) mi modella il pensiero in un certo modo, questo modo è a sua volta modificato dalla mia relazione di crescita: e quei modelli di partenza cambiano, non sono più veri …

    In ogni caso, per quanto buttato lì, il riferimento a Chomsky non è poi così esagerato. Sì, in Chomsky sono le “regole” ad essere innate (o universali) … Chomsky parla proprio di “modelli della mente”; Lakoff parla di “modelli culturali che sono nel nostro cervello …

    Ma studierò, magari Rossi-Landi che, guarda un po’, imputava a questo tipo di concezione (di Lakoff e di Chomsky) l’incomprensione del fatto che l’apprendimento e l’uso dei modelli culturali è “prodotto di una costruzione per stadi successivi” e non già una “maturazione entro solchi preordinati”: la chiamava “concezione teologica”, ecco … Ma torno a studiare, non sia mai …

    sp

  6. non sono un esperto, sp.
    ma il cervello umano/animale è il risultato (provvisorio) di un processo evolutivo di qualche milione di anni: immagino che le strutture di cui parla Lakoff abbiano a che vedere sia con lunghi processi di adattamento strutturale da un lato (hardware) che con la formazione della mente di ciascun individuo.
    non so se lakoff abbia ragione oppure no (ce l’ha senz’altro quando sconsiglia la sinistra di adattarsi alle cornici concettuali della destra: in passato avveniva il contrario…), però a naso mi sembra che ridurre tutto quello che pensiamo/proviamo ad un processo cognitivo cosciente e consapevole non sia del tutto credibile.
    anche mio padre usava la cinghia, fratello, ma io la riconosco, la vedo balenare spesso, in quello che dico e che faccio e che penso.
    la mia lotta contro quella cinghia non è finita, dura ancora ed è quotidiana.

  7. Complimenti Marco,
    bellissimo articolo che trovo assolutamente centrale. Il problema dei discorsi è, credo, quello principale della sinistra italiana.
    Avendo inseguito la destra su una presunta neutralità razionale, si trova ora a non poter più dire che il re è nudo. Prendiamo per esempio la questione immigrazione: ormai si è creato quello che si dice un implicito culturale rispetto al fatto che l’immigrazione clandestina sia un problema da risolvere con la regolamentazione dei flussi, nonostante gli evidenti fallimenti di questa politca.
    Credo che i problemi di narrazione della sinistra italiana siano anche altri due:
    – moltissimi interventi sono centrati sulla figura di Berlusconi e, come ci insegna lo stesso Lakoff, il modo migliore per affermare qualcosa, per farlo restare nella mente di chi ascolta, è negarlo. Non pensate all’elefante. (e personalmente, qui vedo il fallimento dell’antiberlusconismo, ovvero la produzine di discorsi che, negandolo, affermano Berlusconi e lo rinforzano come unico fulcoro dei discorsi della politica italiana);
    – in buona parte della sinistra, mi riferisco anche alla base, si sente la mancanza di un leader carismatico, da contrapporre all’altro. Anche in questo caso, si sale su un binario tipicamente di destra e, non sapendo poporre alternative, se ne insegue il treno. Invece di puntare su un’identità culturale, sulla riformulazione di proposte forti e contrapposte, si cerca il salvatore. Invece che fare una squadra di idee, si tenta di trovare solo l’attaccante e si spera che faccia gol, senza palla.

    Insomma, complimenti.

    Ciao
    Ale

  8. Sp, probabilmente ho riassunto male e troppo in fretta (lo spazio di un articolo è quel che è), però: non è Chomsky rimasticato, visto che anzi questa teoria prende campo proprio a spese di Chomsky, contestandolo (è nel libro una ricostruzione ad uso dei non-linguisti come il sottoscritto); ma soprattutto, riportare tutto ai frame non significa negare la socialità di ciò che pensiamo, piuttosto significa dire che tutto nasce dall’esperienza. Non è solo la famiglia, a quanto dice Lakoff, il modello unico, per quanto sia fondamentale (lo è anche per le scienze della psiche…). Il senso del linguaggio si sedimenta col suo uso. Se Lakoff credesse del resto che sono le esperienze parentali a determinare lo stare a sinistra o a destra, che parlerebbe a fare? Dice invece che le esperienze sociali (la più strutturante delle quali è la famiglia) fornisce i frame che ci fanno leggere e intendere il mondo. Io non sono un linguista, ripeto, dunque non ho certo voluto sostenere la teoria lakoffiana versus altre – mi pare però plausibile, e soprattutto mi è parso che fornisca degli utilissimi spunti di riflessione.

  9. questa frase di Busi.

    “ormai si è creato quello che si dice un implicito culturale ”

    è interessante, è in fondo la traccia sulla quale si muove il documentario della BBC.
    Non so se Lakoff sia schematico come a me sembra da questo breve post di Marco, perciò non lo prendo in considerazione, e come ho detto una certa meccanicità anglosassone, sia pur chiara, c’è anche nel servizio della BBC, ma la cosa curiosa e anche deprimente, e che mi convince sempre che per il semplice cittadino “andare alla fonte” è vitale, è il fatto che moltissimo accade fuori dalla possibilità di conoscenza del cittadino comune.

    Che cosa concorre a formare l’ “implicito culturale”, al di là dei circuiti neuronali che certamente hanno la loro parte? Quali sono gli imput? Che parte ha e che ruolo svolge non il potere rappresentato, ma quello nascosto al cittadino, nella formazione non solo dell’opinione pubblica? Come hanno influito e come si sono intrecciate le teorie economiche, le visioni filosofiche, la geopolitica,e aggiungete ad libitum, anche sulla classe dirigente della sinistra e sulla sua parte più colta, paradossalmente, a scivolare lentamente verso una certa visione del mondo e un certo linguaggio?

    Non so se siano domande alle quali si possa rispondere facilmente, e soprattutto non so quanto tempo ci vorrebbe, una volta che le risposte ci fossero, a rimettere le cose in carreggiata, non è semplice, ma le classi dirigenti si formano in parte alle stesse fonti. Per quanto vengano sottoposte a critica, alla fine in certi punti finiscono per coincidere.

    Una vera critica culturale non solo a singoli fenomeni come S.B., persino troppo indagato e raccontato, ma alla grandi reti della conoscenza, alla loro influenza sui pensatoi dei paesi dominanti e con culture ormai dominanti, alle loro conseguenze e alla permeabilità delle visioni del mondo sarebbe estremamente necessaria.

  10. Ragazzi, Chomsky l’ho rirato fuori così, per mera reazione da commento; il parallelo m’è sorto spontaneo per la questione dei “modelli” pre-ordinati (“della mente” in C., “culturali” in Lakoff). Stop.

    In ogni caso, Lakoff parla di modelli che regolano il posizionamento politico. Rovelli li ha sintetizzati nelle figure dei “genitori premurosi” e del “padre severo”; altrove ho letto che lo stesso Lakoff afferma che alla sinistra interessano i “valori di sostegno” (lavoro di cura), mentre la destra sfrutterebbe un (mal definito) “logos” …

    Resto dell’idea che: 1) siano delle sciocchezze; 2) siano del tutto inservibili per rissollevare le sorti della sinistra (quale sinistra, poi? Delle sorti della sinistra rappresentata dal PD non me ne può fregare di meno!).

    Absit inuiria grammatica …

    sp

  11. @ sp

    non perder tempo, segui la saggezza del grande capo indiano…

    uno poi che scrive un articolo su cose che ammette di ignorare

    si commenta da se.

  12. @ alcor: guarda alcor, ridimensiono la questione dell’implicito culturale. Questo è un costrutto teorizzato dagli etnometodologi per indicare quegli aspetti che nei discorsi, appunto, vengono dati come scontati, indiscutibili, sottintesi. Nell’esempio che portavo, l’immigrazione clandestina, ormai, è un problema da risolvere. Immaginati di sedere a tavola, o di andare in un bar qualunque, e prova a dire “mah, secondo me bisognerebbe aprire le frontiere, lasciare libertà di movimento per tutti”. O chiamano il 118, oppure vieni subito tacciato di essere un estremista politico che non vede oltre il proprio naso. Perchè? Perchè in quel momento tu stai cambiando le carte del gioco, stai mettendo l’asso di bastoni nelle carte da scala.
    In questo senso, io riporto il tutto ad una dimensione di interazione quotidiana, dove, per come la vedo, si costruisce la realtà che viviamo, quindi tralascio ogni discorso di neuroscienza, che, su questi argomenti, trovo poco interessante e sempre vicino allo scivolamento riduzionista.
    Forse tutti gli aspetti che citi sono stati influenti nella costruzione di questo quadro politico, così come lo è stato manipulite, l’utilizzo sempre più massiccio degli spazi/tempi televisivi, la necessità di rispondere alla forza degli slogan populisti delle nuove realtà…si potrebbe proseguire all’infinito.
    Adesso, sul che fare?, io credo che l’unica sia quella di abbandonare le paure, ricostruire una cultura differente, sia nei contenuti, sia nei modi, e da lì ripartire. Per esempio, vedere un esponente giovane che si schieri in maniera decisa contro i cpt, piuttosto che sentire abbandonare il giustizialismo come linfa vitale, potrebbero essere punti di partenza.

    Ale

  13. @Busi

    tu lo ridimensioni, ma io non lo sottovaluterei.
    Aggiungendo che gli impliciti culturali sono molti e intrecciati.
    Il cortocircuito Nash-Laing– destra tatcheriana del servizio BBC, sia pure con tutte le prudenze critiche per la schematizzazione, lo ho trovato interessante.

    Le paure non si abbandonano con tanta facilità, visto che sono il prodotto di un lavoro efficace e subdolo di propaganda politica, ci vuole un lavoro doppio rispetto a quello fatto da chi le ha instillate, visto che chi le ha instillate pesca nelle paure ataviche dell’altro e del diverso.

    Certo, va fatto.

  14. @busi, leggermente OT
    se vai al bar e dici “mah, secondo me bisognerebbe aprire le frontiere, lasciare libertà di movimento per tutti” nessuno chiamerà il 118.
    ma molti penseranno che hai detto una cosa così, tanto per dire, tanto per provocare, che l’hai buttata lì.
    perché, entrando brevemente nel merito di quello che consideri un “implicito culturale”, è del tutto ovvio che, realisticamente, quella NON E’ la soluzione.
    tanto è vero che nessun paese del mondo, oggi, si sogna di adottarla.
    ad una politica dell’immigrazione brutale non si può che contrapporre una diversa politica (quale?), piuttosto che una NON POLITICA dell’immigrazione.

  15. Quel che dice Lakoff, alla fine, è decostruire quegli “implicit culturali” (che sono associazioni mentali inconsce, che costituiscono il 98% del lavoro del nostro pensiero), e provare a costrurie altri tracciati associativi. Ora, io utilizzo scientemente la parola “clandestino”, nonostante essa nasca come minorizzante. E lo faccio per ribaltarne il senso – così come accadde per i sanculotti. Mi è stato in nome del politcally correct: usiamo invece la parola “sans papiers”, o irregolare. Credo che il politically correct non sia utile, a volte. Credo invece sia preferibile disinnescare l’equazione clandestino=criminale, un’associazione ormai spontanea (ma perché? per un lungo lavoro retorico culturale fatto dalla destra egemone), e innescare quello clandestino=lavoratore. Inibire un frame, nei termini di Lakoff, e costruirne un altro. A partire da questo frame costruire una politica che punti alla necessità della difesa dei diritti di tutti i lavoratori per proprio stesso interesse, per far comprendere che creare una piramide gerarchica tra i lavoratori, imperniata sul ricatto, va a detrimento anche di quelli che stanno nelle parti superiori della piramide. Eccetera.

  16. @ Rovelli

    Non ti accorgi che Lakoff, il linguaggio che utilizza è nel politically correct ? Hai letto il libro di Robert Hughes su questo ? Una pappa pronta ben servita. Disinnescare l’equazione clandestino=criminale, conoscerai i lavori di Dal lago su questo (poi altri autori francesi). Nella scatola degli attrezzi non dobbiamo avere arnesi che facilitano il compito ma dobbiamo complicare le cose, almeno le persone che vogliono interrogarsi (sempre che lo si voglia) devono complicarle. Mente/politica linguaggio, abbiamo la Weil, la Arendt, Foucault, abbiamo una tradizione europea su questo, Lacan e poi Deleuze/Guattari con i loro limiti. Ecco non cediamo al politically correct, complichiamo le cose.

  17. r.m., anzitutto grazie per i toni mutati. Dopodiché, la tradizione a cui fai riferimento è anche la mia (i miei libri, che non pretendo ovviamente che tu abbia letto, partono esattamente da quelle coordinate). Ma quando trovo stimoli nuovi non li escludo a priori. A me non pare che il discorso di Lakoff abbia a che fare col politically correct, ma anzi, insista invece sulla necessità di chiamare le cose col loro nome, di creare nomi per cose nuove (ovvero, imporre letture nuove per fenomeni che altrimenti vengono occultati), ecc. Questo non è politically correct, che invece è troppo spesso chiamare le stesse cose con un nome diverso, ma che sta nello stesso campo semantico del nome uncorrect. Insomma, al di là della genealogia della teoria, e della sua correttezza ontologica (che per quanto mi riguarda sta nel campo dell’inverificabile), Lakoff fornisce degli strumenti utili per una battaglia culturale.

  18. @ marco rovelli

    si i toni…purtroppo quando mi trovo di fronte a cose che per me son mistificazione, dato il mio percorso, trancio di netto, ma non erano rivolti a te anche se tempo e voglia vai a vedere bene in che ambito opera Lakoff in America, chi sono i suoi “sponsor”. Battaglia culturale dici, a me spaventa già il concetto in se, ho già ribadito che la battaglia è prima con se stessi e cmq sia che gli strumenti siano quelli di Lakoff, abbiamo bisogno d’altro, parere personale. Trovo disumanizzante quel suo discorrere della mente in quel modo, sento odor di manipolazione e parlo di politically correct perché mi sembrano teorie lacaniane già attaccate da Del/Guat in salsa americana, rimasticamenti per l’occasione, diffido molto di questi americani. Non ho citato a vanvera l’affaire in Puglia a proposito di geometrie e teorie e impossibilità di comprendere gli affetti. Discorso lungo cmq. Adoro Bateson, non mi troverò mai d’accordo con lui.

  19. Non so se Marco Rovelli abbia riassunto “male e in fretta” questo libro di Lakoff, io mi ci sono ritrovato, ma è vero che ho letto già altre sue (di Lakoff) cose e forse questo mi ha pre-condizionato. Mentre faccio fatica a capire, Lakoff alla mano, alcune note polemiche più verso la recensione che verso il testo recensito.
    Come che sia: io ho qualche perplessità ad accettare Lakoff sino al livello neurologico (il legame tra metafore e sinapsi), ma mi sembra che non ci sia bisogno di condividerlo fino a questo punto per accettare la sua analisi dell’effetto persuasivo delle metafore nel discorso politico.
    Quelle dei modelli genitoriali sono, per l’appunto, metafore. Ieri avrei detto: basta guardare la campagna comunicativa di Obama, e confrontarla con i suoi perdenti predecessori democratici, per capire che le strategie che Lakoff da anni suggeriva ai democratici americani erano performative, cioè potevano vincere. Oggi dico, avendo una discreta conoscenza di quello che accade in Puglia, che Vendola (credo più per istinto) ha saputo presentarsi come un modello positivo agli occhi di un elettorato tradizionalmente conservatore proprio suscitando un’immagine di familiarità e vicinanza. Sarebbe interessante un confronto con il modello-Emiliano, molto più vicino a quello del “padre comprensivo” (con qualche azzeccata punta di severità): ma il consenso conquistato da Vendola, i cui partiti di riferimento hanno percentuali bassissime, conferma, piuttosto che smentire, le analisi di Lakoff. Che poi Lakoff non sia un Lacan, un Deleuze, forse neanche un Chomsky, non è una scoperta: ma Lakoff si occupa, teoria a parte, dei concreti enunciati linguistici – è a metà strada tra il torico e il copy – cosa che in altri autori non accade. Non è né un pregio né un difetto, ma una ovvia divisione dei compiti.

  20. @ girolamo

    equazione di sintesi semplice semplice

    pd/modello lakoff contra vendola/modello Bateson

    Vendola è avvertito come genuino, non corrotto o meno corrotto di altri
    viene da un piccolo paesino, la puglia è una regione molto pop, ecco lui è stato accettato, la sua “diversità” ( a diversi livelli intendo) è stata accettata e non è cosa da poco. Anche D’alema è pugliese, ma Vendola è sentito come tale, è pugliese due volte. Te le saluto le teorie di Lakoff, son fredde, mentre lui è Batesoniano, produce metaloghi, certo tradotti perché arrivino a tutti. Guardando le cose da semplice cittadino era impossibile che il pd riuscisse nell’impresa di imporre un altro, non ho davvero capito come gli sia passato per la testa, davvero una scarsa conoscenza del territorio e della popolazione in virtù appunto di fredde teorie da copy, geometrie di un certo tipo di potere, che si è sentito come ingerente e non garante. Metto da parte considerazioni strettamente politiche, non mi interessano, vedo solo i fatti in se ed uso degli strumenti di lettura. Se parti dal presupposto che praticamente volevano farlo fuori politicamente ed invecesarà di nuovo governatore, c’è un errore strategico da parte del pd, potere a parte, notevole. E siccome queste geometrie alla Lakoff le vedo già in azione mi chiedo dove si vada a parare a livello nazionale.

  21. No, RM, hai capito veramente poco. Intanto perché D’Alema non è pugliese, e soprattutto perché non è percepito come tale dai pugliesi (e questa è una questione di modelli). E non basta essere nati in un paesino (posto che Bari non è un paesino) per essere “pop”: e, consentimi, sarà Nichi anche pugliese, ma riuscire a non far percepire la sua diversità sessuale come ostacolo non è cosa da poco, né soprattutto accade in modo spontaneo, soprattutto nel sud. L’approccio batesoniano è utilissimo a capire il mondo, ma se quello che capisci non lo sai comunicare (o non sai come fare a comunicarlo) con Bateson perdi le elezioni. Anche Gramsci è imprescindibile (e anche più importante di Lakoff, a livello teorico), ma finché il PCI-PDS-DS si è fidato di Beppe Vacca ha infilato una batosta dietro l’altra. È a questo che serve Lakoff: a strappare all’avversario l’egemonia sull’interpretazione del mondo.

  22. Saltate le virgolette su pugliese di D’alema (d’adozione e feudo). Vendola è di Terlizzi e non di Bari, paesino in provincia. Sulla diversità abbiam detto la stessa cosa, sul resto sono opinioni. Spero che Vendola faccia un buon lavoro, è un uomo di potere anche lui, e molto di quello che ha fatto a me non piace.

  23. “Non è solo questione di parole, ma di idee e di valori che stanno dietro alle parole”, ecco, io, forse un po’ rozzamente, mi femerei qui (oltre a ritenere che il paragone tra liberals statunitensi e sinistra italiana – come tradizione politica, non come surrogato attuale – mi pare un po’ forzato). La “questione linguistica” da sola non spiega nulla. E altrettanto rozzamente direi: le idee movimentano le parole. E se di idee (valori politici autoctoni) a “””sinistra””” non ce ne sono, le parole sono solo simulacri raffazzonati qui e là. L’altra sera in tv dalla Dandini il linguista De Mauro ricordava i (bei) tempi in cui gli editoriali dell'”Unità” si concludevano con l’espressione: Hic Rhodus, hic salta. Da linguista, appunto, De Mauro interpretava il mutamento, io lo interpreterei sotto il profilo prettamente politico. La celebre espressione di Marx (oltre che di Esopo) aveva senso linguistico quando ancora l'”Unità”, con tutti i suoi limiti e contraddizioni politiche, ospitava sulle sue pagine il “dibattito” interno al marxismo, ossia l’uso linguistico era determinato dal senso politico complessivo. Adesso che senso avrebbe quell’espressione marxiana sull'”Unità”, dopo che Marx è stato sepolto, e senza gli onori del caso? Non è che oggi i redattori dell'”Unità” siano più ignoranti di quelli di ieri, si sono solo ri-posizionati (a destra) politicamente.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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