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LUCIANO BIANCIARDI

di Franco Buffoni

“Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti”, scrive Luciano Bianciardi in uno dei passi più ritmici e ironici della Vita agra, dopo avere evocato – francesizzandone il nome in Jacques Querouaques – il poeta americano che in quel 1961 aveva appena finito di tradurre per Guanda: “(Farò) svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza”.
La convinzione che in letteratura lo stile sia tutto (come diceva Céline: di storie sono pieni i commissariati, di stile no; sono rarissimi i veri scrittori perché ben pochi riescono a costruirsi uno stile), se volta all’ambito traduttivo, a noi italiani evoca inevitabilmente la posizione teorica crociana sul tradurre, facente leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell’opera d’arte per negare la traducibilità della poesia e della prosa “alta”, dove lo stile è “tutto”.
Tale concezione è l’espressione di un idealismo oggi particolarmente inattuale, contro il quale l’estetica italiana del secondo Novecento (Banfi, Anceschi, Formaggio, Mattioli) si è battuta, direi, vittoriosamente.
Nel 1975 George Steiner parlò di necessità – da parte del traduttore di letteratura – di rivivere l’atto creativo che aveva informato la scrittura dell'”originale”. E negli ultimi vent’anni la traduttologia – ben conscia della lezione steineriana, ma anche di quelle non meno pregnanti di Gianfranco Folena e di Antoine Berman – ha cercato in ogni modo di suggerire come tradurre in realtà questa necessità di rivivere l’atto creativo. Anzitutto sfatando il luogo comune che tende a configurare la traduzione come un sottoprodotto letterario, invitando invece a considerarla come un überleben, un afterlife del testo cosiddetto originale. Ma senza cadere nella comoda scappatoia della imitatio.
Come riprodurre, dunque, lo stile? E’ la domanda che a questo punto un traduttologo si sente porre. La risposta potrebbe essere che le dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; “traductions des poètes”/”traductions des professeurs”) da Cicerone a Mounin, inevitabilmente portano all’impasse che vede, da una parte, l’intraducibilità dello “stile”, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. (Naturalmente il fatto che sia trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia dai presupposti crociani, sia seguendo i dettami dei vari formalismi, in particolare quelli della linguistica teorica).
Il nocciolo del problema, a nostro avviso, sta proprio nel verbo usato per porre la domanda: riprodurre. Perché crediamo che la traduzione letteraria non possa ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo (decodifica e ricodifica). Questo può valere al massimo per un testo di tipo tecnico. La moderna traduttologia invita invece a configurare la traduzione letteraria come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilmente – fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica.
Uno studio fondamentale a riguardo è Sprachbewegung (Il movimento del linguaggio) di Friedmar Apel, apparso in Germania nel 1982 e tradotto in italiano per i tipi di Marcos y Marcos nella collana “I saggi di Testo a fronte” (1997).
Il concetto di “movimento” del linguaggio nasce proprio dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L’idea è comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire.
Il testo cosiddetto di partenza, invece, viene solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via.
La moderna traduttologia in sostanza propone di considerare il testo letterario classico o moderno da tradurre non come un rigido scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, ma l’opera stessa è in costante trasformazione (o, per l’appunto, in movimento).
In questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro poietico tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto; un incontro tra pari destinato a far cadere i tradizionali steccati tra bella infedele e brutta fedele, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all’atto traduttivo, fornendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo.
Si potrebbe persino affermare che il movimento nel tempo, in questo processo di traduzione letteraria volto all’incontro poietico, possa avere inizio prima ancora della redazione della stesura cosiddetta “definitiva” del cosiddetto “originale”, allorché al traduttore è possibile accedere anche all’avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo “definitivo” prende forma) impadronendosi così del percorso di crescita, di germinazione del testo nelle sue varie fasi.
Il testo, dunque, si muove verso il futuro all’interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il passato se si tiene conto degli avantesti.
Ben lontano, oggi, è dunque il tempo in cui Gianfranco Folena si scagliava contro Georges Mounin, reo ai suoi occhi d’essere “un campione dello strutturalismo”. Oggi che certamente non desta più scandalo l’impostazione teorica di Volgarizzare e tradurre, l’opera fondamentale di Folena in campo traduttologico, la cui prima stesura risale al 1973, e dunque precede la dirompente Dopo Babele steineriana del 1975.
“Tradurre, comunemente, si dice oggi. Ma nel Trecento dicevasi volgarizzare, perché la voce tradurre sapeva troppo di latino, e allora scansavansi i latinismi, come poi li cercarono nel Quattrocento, e taluni li cerano ancor oggi; sì perché que’ buoni traduttori facevano le cose per farle, e trasportando da lingue ignote il pensiero in lingua nota, intendevano renderle intelligibili a’ più”. Il famoso attacco del capitolo VIII della Vita agra così sornionamente si conclude: “Ma adesso le più delle traduzioni non si potrebbero, se non per ironia, nominare volgarizzamenti, dacché recano da lingua foresta, che per sé è chiarissima e popolare, in linguaggio mezzo morto, che non è di popolo alcuno; e la loro traduzione avrebbe bisogno d’un nuovo volgarizzamento”.
Inutile sottolineare che la “lingua foresta” chiarissima e popolare da cui si traduce è l’inglese – o meglio ancora l’americano – di Henry Miller e Saul Bellow; mentre il linguaggio mezzo morto in cui si traduce è l’italiano, non appartenente – così come è letterariamente – a popolo alcuno.
Il quesito circa quale lingua “d’arrivo” venga usata da Bianciardi traduttore è strettamente connesso alla scelta dei testi che Bianciardi traduce. Una carrellata di ordine generale sul centinaio e più di titoli tradotti dallo scrittore ci porta subito a una considerazione preliminare: più che tradurre romanzi (salvo qualche capolavoro) l’impressione è che a Bianciardi piacesse tradurre opere di saggistica varia su argomenti capaci di affascinarlo: scienza, storia ecc. E gli esempi possono spaziare dai dieci volumi di storia francese del Duché a libri di divulgazione scientifica quali L’arte di sviluppare la propria personalità scoprendo ed utilizzando il proprio segreto potere emotivo o I pionieri dello spazio.
Vogliamo forse insinuare che Bianciardi non amasse tradurre romanzi? Certamente no. La riflessione non concerne Steinbeck, Faulkner o Henry Miller, bensì i romanzieri minori, dozzinali, ripetitivi. Nostra convinzione è che Bianciardi, piuttosto che triti e artigianali schemi di confezione testuale, preferisse imparare qualcosa traducendo buona saggistica divulgativa.
Siamo naturalmente ben consapevoli del fatto che – come quasi tutti i traduttori – Bianciardi fosse quasi sempre costretto ad accettare lavori su commissione, e che ben raramente potesse scegliere in modo esplicito che cosa tradurre. Tuttavia abbiamo la sensazione che una linea di gusto, una preferenza implicita, lo scrittore in qualche modo riuscisse a comunicarla ai propri committenti. Magari anche soltanto manifestando entusiasmo all’idea di tradurre – per esempio – la biografia di Edith Piaf. (Simone Berteaut, Edith Piaf. Una vita, una voce, Rizzoli 1970). E sostenendo – anticipando i tempi in modo sorprendente – che tale libro dovesse essere venduto corredato da un “disco” con le canzoni della Piaf.
Quanto ai legami, alle connessioni tra Bianciardi traduttore e Bianciardi autore, tali e tanti sono gli esempi adducibili da rendere quasi imbarazzante a scelta. Dal Kerouac tradotto per Guanda e citato nella Vita agra, alla Battaglia di Cassino di Fred Majdalany tradotta per Garzanti. Parrebbe – quest’ultimo – il tipico lavoro su commissione, e certamente lo è; ma sedimenta in Bianciardi scrittore, tanto che nell’ormai noto (è stato pubblicato nel 1997 per i tipi di Edt) Viaggio in Barberia, avvenuto nel 1968, Bianciardi scrive: “Sfondarono il fronte tedesco a Cassino, e poi non soltanto il fronte. La ciociara. Il Maghreb, dunque, è la Barberia: se c’è andata tanta gente, possiamo andarci anche noi”.
Ma nel 1969 Bianciardi scrittore pubblica anche il memorabile Daghela avanti un passo! con il dichiarato obiettivo di illustrare ai ragazzi (in modo meno oleografico di quanto comunemente allora avvenisse) la storia del Risorgimento. Ebbene, nel Viaggio in Barberia ad un tratto tout se tient: “A Milano, sulla base del monumento a Napoleone III, sono scolpiti i nomi di tutti i caduti della campagna del ’59. Provatevi a leggerli: tenente colonnello De Lattre-de-Tassigny, sottotenente Pierre Dupont, sergente Auguste Blanchard (mio omonimo) ma soldato semplice Mustafà ben Mohammed. Truppa di prima schiera, valorosissima. I goumier, altra truppa di sfondamento, marocchini: venivano su a branchi (goum) senza ordine di reparti regolari, vestiti d’un burnus grigio, coltello alla mano. Sfondarono il fronte tedesco a Cassino…”.
“Avrei imparato, come Balzac, che bisogna scrivere parecchi volumi prima di firmarne uno col proprio nome”. E’ Henry Miller che lo scrive, ma è Bianciardi che sottoscrive l’affermazione – nei fatti – traducendo “parecchi volumi”, tra i quali – come è ben noto – anche lo stesso Tropico del Capricorno di Miller, dal quale abbiamo tratto la citazione. Immediatamente preceduta – per altro – da un’altra riflessione molto significativa tanto per Miller quanto per Bianciardi: “Se avessi avuto i soldi, come li aveva Gide, lo avrei pubblicato a mie spese. Se avessi avuto il coraggio che aveva Whitman, sarei andato a venderlo di porta in porta. Tutti quelli a cui lo feci vedere mi dissero che era tremendo. Mi sollecitavano ad abbandonare quest’idea di scrivere”.

*

Mentre rileggevo Il lavoro culturale alla ricerca della pagina su Grosseto-Kansas City, per legare la figura del tenente Bucker all’avanzata degli Alleati dopo la battaglia di Cassino, ad un tratto mi sorpresi a contare per gioco gli endecasillabi. Consideriamo l’attacco del paragrafo dedicato alla descrizione della periferia di Grosseto: “Lontano abbaiava un cane, e si avvertiva, come un sordo limio, il canto dei grilli”. Qualcuno vuole replicare che Bianciardi non pensava certo che “come un sordo limio il canto dei grilli” è un endecasillabo con ictus in terza, sesta e decima? Ma qui si tratta della consapevolezza dono-degli-dei di cui parla Valéry! Bianciardi è stato talmente consapevole del dato metrico negli anni della sua formazione da riuscire a crearsi un solidissimo stile come scrittore, all’interno del quale – con perfetta sincronia – il meccanismo inconscio-conscio-preconscio effettua il dosaggio metrico.
Avviene questo anche in Bianciardi traduttore? Bianciardi è un traduttore che adatta il proprio stile a quello dell’autore che va traducendo, oppure che tende a imporre il proprio stile di scrittura? Né l’uno né l’altro, crediamo di poter rispondere abbastanza decisamente. Bianciardi istintivamente pone il proprio stile in rapporto dialettico con lo stile dell’autore che va traducendo, senza imporre nulla, ma anche senza farsi imporre nulla.
Si prenda ad esempio Bianciardi traduttore di Maugham, romanziere non grandissimo, ma certamente dotato di uno stile ben riconoscibile. Bianciardi ne traduce magistralmente The Gentleman in the Parlour e Don Fernando. “Scrivevano per passatempo o perché avevan bisogno di danaro. Cervantes, come sappiamo, scrisse solo quando fu senza lavoro…”, leggiamo nel primo dei due romanzi, che dà il titolo alla edizione italiana: Il signore in salotto. E poco oltre: “Lungi da me l’idea di dar consigli al lettore, ma dirò di passata che nel romanzo picaresco i personaggi son tratti dalla feccia della società, e i protagonisti campano di espedienti. Di solito sono scritti in prima persona”.
Bianciardi dunque traduce i verbi con predilezione per i troncamenti: “avevan bisogno”, “dar consigli”, “son tratti”… Ma: “Di solito sono scritti in prima persona”. Non “son scritti”. “Sono”, perché qui occorreva incidere con il verbo. Maugham e Bianciardi si sono incontrati poieticamente e stanno – insieme – parlando di romanzo picaresco. Bianciardi è preso: si sente lui Picaro da anarchico quale è. E allora: “sono scritti”, non “son scritti”. Sottigliezze, si dirà. Ma di che cosa si compone l’entità “stile”, se non di una miriade di sottigliezze intersecantesi?
In occasione dell’attribuzione del premio Nobel a Dario Fo, sul “Corriere della sera” Franco Cordelli si chiese donde venisse il linguaggio del drammaturgo. E indicandone la fonte in un’epoca precisa e in un luogo (la Milano degli anni sessanta nel quartiere di Brera) suggerì per primo il nome di Bianciardi come facitore di quel linguaggio, facendolo seguire da altri nomi: Arbasino, Simonetta, Tadini, Del Buono, Scerbanenco, e persino Vittorio Sereni e Sandro Sinigaglia. Il linguaggio della “scapigliatura di Brera” – diciamo noi – ebbe nel grossetano Bianciardi uno dei suoi più fervidi creatori. Proprio perché non era milanese, in quell’ambito Bianciardi reagì chimicamente producendo in sommo grado linguaggio e stile (“Scatenare contro i torracchioni del centro, contro i padroni mori e timbergecchi… e fare piazza pulita d’ogni ingiustizia, d’ogni sporcizia, d’ogni nequizia”). Conferendo così linguaggio e stile anche alle sue traduzioni.
Un ultimo concetto che vorrei esporre – per completare il quadro delle più recenti istanze traduttologiche rapportate a Bianciardi – concerne quella che potremmo definire la consapevolezza della stratificazione delle lingue storiche. Perché riteniamo inadeguati gli strumenti della linguistica teorica se applicati alla traduzione letteraria? Perché essi possono funzionare traducendo da un esperanto ad un altro; appunto, da una lingua di partenza a una lingua di arrivo, attraverso un processo di decodificazione e quindi di ricodificazione. Mentre per tradurre dalla ex lingua di Chaucer e di Shakespeare nella ex lingua di Petrarca e di Tasso occorrono altri strumenti ben più sofisticati ed empirici: occorrono l’incontro poietico e la concezione del movimento della lingua nel tempo; e soprattutto occorre avere costantemente presente il concetto di stratificazione del linguaggio.
Concetto che Bianciardi esemplifica con la massima chiarezza architettonica all’inizio della Vita agra, allorché descrive il grande palazzone della biblioteca di Brera. Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati e alle origini Braida del Guercio…
Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l’effetto-diodo, come osservando dall’alto una pila accatastata ma trasparente di strati fonetici e semantici. Questa in particolare mi sembra la grande intuizione traduttologica di Luciano Bianciardi.

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15 Commenti

  1. ho letto con crescente piacere e interesse. Intanto andrò a leggere istantaneamente La vita agra che, povero me, non si è ancora mai fatta strada nella mia libreria (abbiate pazienza, sono solo un fisico… :-) ). E poi condivido molto questa analisi della traduzione — o volgarizzamento, o recare da una lingua all’altra — alla quale vorrei solo aggiungere una considerazione forse banale e cioè che uno dei parametri di cui tener conto è quello della differenza, che può essere meno ma anche più profonda tra lingua di partenza e lingua d’arrivo. Tradurre da una lingua romanza all’altra è una cosa, da una lingua indoeuropea a un’altra è pure un’altra cosa, ma tradurre da lakota a swahili dev’essere proprio un’altra operazione. Non so se Whorff avesse ragione completamente o solo in parte, ma quando due lingue rappresentano e costituiscono due mondi di idee e di vita così diversi, la comune poietica si fa più ardua, o magari non impossibile pur di coinvolgere nell’operazione non uno ma due “interpreti”, eh?

  2. Caro Sparz, che bello sentirti tanto vivamente interested! Quelle a cui alludi si chiamano difficoltà transculturali e il transculturalismo è proprio la branca più dinamica della moderna traduttologia…

  3. Franco, tra i miei due miti, Miller e Bianciardi. Cosa è successo mai della vita agra?
    effeffe

  4. Caro Franco

    ho letto con interesse e diletto (e puoi immaginare con quale gioia, a proposito del particolare discografico Bianciardi-Piaf) e non solo perché Bianciardi è uno dei miei ‘autori’.

    Gran bel pezzo, da cui sarebbe bello far nascere un dialogo a proposito del tradurre, magari con uno sguardi al Landolfi ‘russo’ e perchè no? al trans-creativo Haroldo (De Campos)…

    Un abbraccio

    lv

  5. Cari tutti, grazie! A furlèn: ti riferisci al romanzo di Bianciardi, o alla vita agra come tipologia esistenziale? A Lello: al volo, accetto ben volentieri, scegli tu dove quando e con chi… besos franco

  6. Interessante questa analisi del Bianciardi traduttore. Mi permetto però di segnalare una svista sul finir del pezzo: la biblioteca descritta all’inizio de la vita agra non è la biblioteca di Grosseto ma quella di Brera (il cui nome deriva appunto da Braida e innesta la dissertazione filologica nello stupendo incipit del romanzo). Aggiungo anche che nel parlare di italiano come lingua morta Bianciardi si allontana dalla letterarietà del passo precedente per alludere con amara ironia alla politica italiana, che dal risorgimento a oggi non è mai davvero riuscita a “fare gli italiani” come popolo unito (argomento cardine del filone risorgimentale di Bianciardi, ripreso nell’ultimo grandissimo romanzo Aprire il fuoco).

  7. Bellissimo saggio. E non stupisce che sia a firma di un poeta e di un eccellente traduttore/traduttologo come Franco Buffoni.

  8. Saggio notevole, Franco. “La vita agra” è per me il romanzo più bello mai scritto su Milano. Bianciardi e con lui Paolo Volponi hanno ancora molto da dirci sulla società italiana di oggi. Sarà per questo che non si parla abbastanza di questi due autori?

  9. Ho letto i Tropici in in inglese,la traduzione di Bianciardi è anche meglio.
    Confrontate questa traduzione,che dopo cinquant’anni è ancora attuale,con quella di Pavese di Moby Dick.
    Si capisce subito che vuol dire la dignità estetica della traduzione!
    Facessero tutti propria questa affermazione :.”..necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario”.

  10. Anche a me fa piacere che si dia il giusto rilievo a un autore come Luciano Bianciardi , che ha saputo coglire con un suo particolare stile critico i tratti negativi dell’incipiente società di massa al tempo del neocapitalismo italiano e del boom economico. Tra l’altro anche eccellente traduttore dall’inglese (sì, condivido, la sua traduzione dei Tropici di Miller è splendida). Buffoni, poi, si rivela sempre più per il lucido e attento illuminista anche nei brani dal taglio saggistico.

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franco buffoni
franco buffonihttp://www.francobuffoni.it/
Franco Buffoni ha pubblicato raccolte di poesia per Guanda, Mondadori e Donzelli. Per Mondadori ha tradotto Poeti romantici inglesi (2005). L’ultimo suo romanzo è Zamel (Marcos y Marcos 2009). Sito personale: www.francobuffoni.it
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