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Il museo dell’arte luccicante

testo di Chiara Cerri

foto di Nicola Gnesi

Era un freddo cane.
Un anno fa nel periodo di natale, quando ci è venuto in mente di andare al circo.
Ma non per stare seduti sulle sedie di plastica rosse ad impiastricciarci le mani di zucchero filato e a sgranare gli occhi davanti ai funamboli in corsa.
Ci era venuta voglia di andare dietro a vedere come funziona.
C’era questo circo, appena arrivato, nel nostro paese: uno di quei circhi a cui non daresti una lira. Mica come quello “Du Soleil”, uno di quei circhi piccoli che non ha un impatto mediatico sulla gente , alla “Orfei” per intenderci.
Un circo che si serve ancora degli animali. Di quei pochi ancora rimasti e sopravvissuti all’orda di associazioni animaliste infuriate e occupate in mille (giustissime) campagne anti-sfruttamento.
Un circo controtendenza che non si risparmia certo critiche, sberleffi e calci nel sedere.
All’inizio non è stato semplice fargli capire che la nostra non era un incursione giornalistica o meglio lo era nei nostri intenti, ma non di quelle a far male.
Volevamo solo capire.
“Siamo curiosi di vedere com’è là dietro”.
Ricordo che siamo rimbalzati due o tre volte da un uomo all’altro, come palline che non riescono a fermarsi. Rotolavamo di tenda in tenda, tra i viottoli e il terriccio freddo, mentre il cielo sopra si faceva scuro e la temperatura calava.
Poi qualcuno ci ha fermati.
Sarà il capo, ci siamo sussurrati con la coda dell’occhio. Sarà il fratello o il padre o il padrone. Sarà un inserviente?
Era Adam Karoli. Un metro e cinquanta in verticale, vestito di tuta sintetica e scarpe da ginnastica, i capelli laccati scuri e tirati indietro da un codino stretto.
La carnagione abbronzata, le labbra carnose. Con l’espressione incuriosita ci guarda come due profughi che si sono persi.
Sarà straniero, ci chiediamo ancora con la coda dell’occhio.
Parla perfettamente italiano, è italiano.
Con il piglio deciso ci dice subito che se siamo venuti per controllare lo stato dei suoi animali possiamo anche andarcene, ne hanno abbastanza loro di questa storia degli animalisti.
Loro ci tengono a quegli animali che vivono con loro, lavorano per loro e sono amici, colleghi, compagni.
Non tutti ci credono, infatti li hanno mandati in televisione per questo, al telegiornale e qualche mese prima, dei vandali hanno fatto scoppiare dei petardi vicino alle loro tende. Ci è scappato un mezzo incendio.
Ce lo dice un po’ per dovere, perché si sa che la diffidenza genera diffidenza.
Gli spieghiamo che noi, siamo solo curiosi di vedere com’è la dietro.
Non ci interessa indagare lo stato di salute degli animali, lo spazio in cui vivono, l’alimentazione, non abbiamo l’autorità e i mezzi per farlo.
“Ci interessate voi” abbiamo risposto.
Così è iniziata la nostra incursione nel mondo circense, in un’atmosfera che potresti descrivere attraverso l’odore di fieno e feci, ma anche con il rumore di quell’applauso che ti ha riscaldato là dove non avresti mai pensato.
C’è un’intera famiglia che ci lavora e piano piano li vedi che spuntano dalle loro roulottes, per entrare dentro il tendone.
Sono come pezzi di un puzzle tutto ancora da montare, con i costumi di scena addosso e una strana concentrazione in fronte.
Ti chiedi come possa un’intera famiglia, collaborare e coesistere per così lunghi periodi, senza scannarsi.
“È l’amore per il nostro lavoro, la passione per quello che facciamo ad unirci” risponde qualcuno.
Ed è proprio questo che siamo curiosi di vedere.
Facciamo un giro dentro questo mondo inconsueto e lontano da noi: la prima cosa che salta all’occhio è la solitudine, la tristezza che emana l’ambiente.
Pochi spettatori, famiglie per lo più e bambini eccitati attaccati alle ringhiere con gli occhi sgranati, nell’attesa di vedere il numero dei leoni o il mangia fuoco.
La maggior parte sono persone dell’Est dove ancora è radicato il gusto nomade, l’attrazione per il circense.
Poi una voce da un microfono fuori campo annuncia l’inizio dello spettacolo, come a voler richiamare l’attenzione di spettatori che sono già attenti e non hanno mai lasciato i loro posti.
Venti spettatori circa a contarli bene.
“Certo la soddisfazione di avere un pubblico numeroso, i posti al completo, il vociare prima dell’inizio e gli applausi che si moltiplicano, non ha eguali. Ma se tra il pubblico ci fosse anche un solo spettatore, lo spettacolo deve procedere”, ci dice Adam con orgoglio.
La prima a concedersi all’occhio della fotocamera è Jana, la trapezista. È vestita di una tutina color carne e un due pezzi di paillettes. Una coda di cavallo di capelli biondi e lunghissimi che arriva fin sotto i fianchi.
Si mette in posa e fa lunghi sorrisi colorati di trucco. Dev’essere la prima volta che qualcuno si infila dietro le quinte per fotografarli, perché la smania di avere belle foto porta con sé lunghe pose e sorrisi infiniti, anche dopo i click della macchina fotografica.
Jana e suo marito fanno il numero dell’equilibrista, lei sta in bilico su una piccola pedana ai margini di una lunga asta appoggiata sulla fronte del marito. Sembra impossibile che un uomo possa compiere uno sforzo simile, pare che da un momento all’altro gli si rompa l’osso del collo, e lei lassù come un elastico assume posizioni mai viste. Accartocciandosi, diventa materia molle, senza ossa.
Poi alla fine del numero tutto si ricompone, il collo torna dritto, le ossa riprendono consistenza umana e muovono il corpo rigido, in inchini e saluti al pubblico.
Venti persone sorridenti e quaranta mani che applaudono. Il suono caldo degli applausi, che avvolge e brucia la pelle.
Dietro c’è la stanchezza, ma ancora la voglia di essere fotografati, ancora pose e lunghi sorrisi.
Ci dicono che fanno tre spettacoli al giorno e prove su prove.
Desirée invece è a cavalcioni a cinque metri d’altezza da terra sulla groppa del suo elefante e ha il viso fiero e teso di chi sa di avere sotto di sé un esemplare da almeno cinque tonnellate di peso.
Cheyenne e sua sorella sono le ginnaste, di quattordici e sei anni, che con i loro contorsionismi ti fanno accavallare gli occhi. Si riscaldano prima di uscire coperte solo di una tutina verde pastello, a piedi scalzi percorrono il tendone e fanno i loro numero in mezzo alle luci e al silenzio della platea. Come se fosse la continuazione del loro riscaldamento.
Poi al rientro sorridono alla macchina fotografica. Una spaccata in aria, i piedi che raggiungono la bocca, il corpo che si avvolge su sé stesso con l’elasticità di un serpente. Cose così, di ordinaria amministrazione per loro.
In questo museo della vita umana, un universo dell’arte luccicante lo straordinario diventa quotidiano, ripetitivo, diventa la normalità di una vita passata a forgiare il corpo.
Il circo è l’unica forma d’arte ad essere rimasta veramente popolare, ed è per questo che sopravvive senza il bisogno di circuiti culturali e pubblici, la ricerca di spettatori è l’unica vera urgenza di queste persone.
Questo spettacolo non si integra nella realtà quotidiana, per sopravvivere al tempo usa il silenzio il ritiro all’interno delle roulottes, i tendoni, dentro quell’universo fatto di contrasti disarmanti. È il suo essere controcorrente che lo fa sopravvivere.
Il suo linguaggio è così tagliente che nel momento in cui pensi che sia morto il circo ti dà uno schiaffo e con tutta la forza della sua prepotenza ti mette di fronte alla vitalità che lo contraddistingue.
Questo genere d’arte non è finito e a dimostrarlo sono la miriade di scuole di circo, giocoleria e clownerie che negli ultimi due anni in Italia sono state prese d’assalto da aspiranti artisti.
Le realtà circensi italiane sono moltissime e sparse per tutto il territorio nazionale: ci sono la Flic, vera scuola formativa di arti circensi di Matteo Lo Prete, ex allenatore nazionale di ginnastica e la Scuola di Cirko di Grugliasco dell’attore Paolo Stratta. Entrambe prevedono due anni di corso di formazione professionale.
Poi ci sono l’Accademia di Verona, il corso di Nouveau Cirque della Scuola di Teatro di Bologna, il primo nato in Italia.
Ci sono corsi, tantissimi corsi brevi per aspiranti circensi organizzati dalle province e dalle regioni, a Milano la Piccola scuola di circo, e poi ancora corsi a Roma, Napoli e Genova.
Ma c’è una novità: oggi il circo si fa più vicino al teatro, pur mantenendo il contatto col pubblico tipico del “teatro di strada”.
Ora infatti all’immagine seppur poetica del tendone, dello spettacolo della domenica alle cinque con i pop-corn e gli animali, si sostituisce il palcoscenico, la capacità di esprimersi solo e soltanto attraverso il corpo.
Anche il circo è in mutazione quindi, rinnovando il suo linguaggio, per stare al passo coi tempi.
Nonostante questo mutamento ci auguriamo che Adam e tutta la sua famiglia di lavoratori di strada riescano a sopravvivere e siano capaci ancora di alzare i loro tendoni al vento, spazzando via la polvere dalle piazze e disseminando ovunque il forte odore di sterco e vita.

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1 commento

  1. Il circo è la poesia del corpo, la sfida alla realtà della terra, sola vince il corpo in stato di leggerezza. Tutto è in metamoforsi, il corpo ha la fluidità di una sciarpa, la liquidità del fiume, la grazia di un animale tropicale, i vestiti sono oro e fanno una scia di stelle. Tutto è bello in un circo, anche l’animale al pelame rado, anche il pagliaccio. Nel circo mi incanta la trapezista che viaggia da un punto all’altro, sposando l’aria, lo spazio invisibile pieno di stelle e di fantasie. Mi incanto anche il funambulo, in memoria delle Strada, film che mi mette le lacrime nel cuore.
    E’ quello che immagino del circo. L’articolo svela come l’arte della magia
    ha il gusto del quotidiano, di un allenamento costante affinché gli occhi degli spettatori siano lo specchio di un sogno d’infanzia.

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