La propria lingua
Due prose di Alexandrina Scoferta
I.
A volte ho la sensazione di vedere le clienti di mia madre camminare fuori dalla libreria. Mi affretto ad uscire e gridare – Buongiorno Rosi! – ma non è una di quelle mattine in cui porto le brioche di Regina Adelaide a mia madre in negozio e di certo la signora Rosi non è su queste strade mediterranee che cammina con la spesa in mano. Prima di partire mi chiedevo cosa portare via con me. Alla fine non ho preso quasi nulla. Dopo un paio di giorni mi sono resa conto di non avere nemmeno vestiti. Le cose della stanza appartengono alla stanza. Le cose del lago appartengono al lago. Non ho mai sopportato le romanticherie simboliche. Un sasso del lago di Garda è solo un sasso, qui non mi avrebbe fatta sentire più vicina al lago. La signora con la busta della spesa invece, per un attimo solo, mi ha fatta sentire sul lago. Eppure la signora nulla ha a che fare con il lago, somiglia solo alla sagoma di Rosi nei giorni di domenica, quando ha la piega appena fatta. Nemmeno il mio accento nordico ha qualcosa a che fare con il nord. Al nord mi dicevano sempre che non ero di lì. Da quale paese del sud vieni? mi chiedevano. Sei tedesca o francese? mi chiedevano. Hai un accento indefinito, non capisco da dove vieni, mi dicevano. Quando qualcuno non parla come noi, diamo per scontato che sia venuto da qualche parte. Da qualche parte uno dovrà pur venire, altrimenti non sarebbe mai venuto. Ma se uno è venuto da qualche parte, dovrà pur poterci tornare un giorno. Io dal nord non avevo alcun posto in cui tornare. Ero venuta quindi, ma da nessun posto. L’idea del ritorno mi ha sempre fatta sognare, sognare di poter ritornare. Il ritorno per me non era mai stato un fallimento, ma una meta. Avere un posto in cui tornare, che bella cosa. Vorrei essere un posto in cui tornare. Vorrei essere un luogo vivo con volontà propria che si intreccia con la volontà dei suoi abitanti. Un luogo fluido, vaporoso, interiorizzante, adattabile, non al quale ci si debba adattare. Una specie di luogo/sostanza chimica che varia in base alle sostanze che la abitano e che a sua volta cambia le sostanze, ma con naturalezza, non con esercizio e pazienza. Non come sono diventata quella che viene dal nord. Mi vorrei affidare alla lingua per diventare qualcosa di simile, per questo mi fa male quando so parlare. Dire bene qualcosa a qualcuno è come scagliargli una pietra addosso, nulla l’altro può farci se non reagire al colpo. Se la pietra non fosse cristallizzata, se non fosse pienamente pietra, sarebbe qualcosa su cui si potrebbe agire, ci si potrebbe vivere insieme. Se la cosa da dire non fosse pienamente detta, la si potrebbe dire insieme. Parlare può essere come baciarsi, baciarsi non lo si può fare da soli.
L’altro giorno ho detto ad un cliente che sono emigrata una seconda volta. Lui mi ha risposto che non è possibile, che si emigra una sola volta, la prima, che gli altri sono solo spostamenti. Ma io questa, la seconda, non mi sono solo spostata. Non mi sto spostando. Non mi sto inserendo in questo luogo come ho fatto la prima volta. Semmai questa volta è il luogo che si sposterà dentro di me ed io sarò abitabile. Gli abitanti di questo luogo mi possono abitare, perché io non farò domande e non racconterò nulla di me a meno che non me lo chiedano. Non eseguirò nessun esercizio di esistenza. Non farò quella cosa che si chiama fare amicizia. Crediamo che una persona ci sia amica quando possiamo farci affidamento e viceversa, ma è solo una questione di sicurezze e di pigrizia. Abbiamo raccontato un sacco di cose ad una persona e la chiamiamo amica soltanto perché poi non dobbiamo più fare la fatica di spiegarle le cose. Il luogo in cui tornare che vorrei essere io è qualcosa di più bello, perché non facendo domande non ci sarà bisogno di spiegarmi le cose nemmeno una prima volta e non ci sarà bisogno che io capisca nulla. Le cose comprensibili, le cose chiare sono la condanna ad un personaggio da interpretare. Questa volta non mi sono solo spostata, mi sono liberata dal personaggio. Dal lago ho portato via solo qualcosa che sembra un accento del nord. Mi ascoltano parlare e dicono che vengo dal nord. Mi va bene, è bello che io dia loro questa sicurezza, fa sì che io non debba spiegare nulla.
II. La propria lingua è una musica di sottofondo
“Le parole sono condannate ad essere libere dal dire ciò che vogliamo far loro comunicare” gli avevo detto al mattino. “Cominci sempre le giornate condannando qualcuno o qualcosa?” ribadì. “Chi non vorrebbe essere condannato alla libertà?” domandai. “Le parole” rispose “le parole non hanno volontà, per questo possono essere libere”.
La sera stessa lo accompagnai alla masterclass di Guinga, era così felice. Lui non somigliava alla musica brasiliana e il Brasile sembrava non avere nulla a che fare con lui. Guinga rideva spesso, la sua risata sembrava far parte dello spettacolo. Alla fine gliel’ho detto. A lui, non a Guinga. “Pure quando ride, sembra che quell’uomo rida in portoghese” gli ho detto. “Tutto il mondo ride nella propria lingua” mi ha risposto.
“E io” gli ho chiesto “io in che lingua rido?”
“Tu non ridi in nessuna lingua” mi ha risposto “tu non emetti suoni quando ridi.”
La propria lingua è una musica di sottofondo, un tamburo che dà il ritmo ad ogni singola parola. La propria lingua è anche nel movimento della mano che portiamo al bicchiere per portarlo alla bocca. La propria lingua è il modo con il quale ci inseriamo in tutte le cose del mondo e inseriamo tutte le cose del mondo dentro di noi. Pure quando si canta, non si può che cantare nella propria lingua, pensa ai cantanti brasiliani quando cantano in italiano, pensa a Toquinho e “Roma nun fa la stupida stasera”. La propria lingua è una musica di sottofondo, un tamburo che dà il ritmo ad ogni singola parola, un suono che ho perso. Quella sera mettevo su Guinga uno sguardo pieno d’invidia. Io non rido in nessuna lingua.
Il mattino dopo lui ha accompagnato me a scuola, dovevo parlare agli studenti di Luceafărul e di Eminescu. Abbiamo tradotto parti del poema tutti insieme. Dovevo far capire loro cosa accade nel processo della traduzione. Non solo nella testa del traduttore letterato, ma anche in quella del ragazzo straniero, dell’appena arrivato.
Ho speso tanti anni a narrare e ad eliminare, subito dopo, tutto quello che producevo. Lo faccio ancora adesso, ma ora sono consapevole del fatto che non mi interessa il testo finale, io sono ossessionata dall’atto stesso della scrittura, della trascrizione. È in questa operazione che è insita la traduzione stessa. Essere stranieri è la grande traduzione. Lo straniero è la pancia che rimane incinta dopo la copulazione delle due lingue, il suo parlare è un parto e la parola, oh la sua parola è il risultato dell’unica lingua viva che agisce sul discorso. Si può dire di questa lingua che è debole, poco credibile all’ascolto ed è quasi ridicola proprio perché è drammaticamente onesta.
La lingua madre è la madre, la lingua ospite è il padre e la parola dello straniero è il parto, il puro atto della nascita della lingua, l’unica lingua viva che agisce. È una carezza in atto, corteggia con la lingua straniera ciò che non potrebbe mai essere detto “puro” come nell’originale, ma è sincero nel suo sapervi solo rimandare. Riconsegna all’indicibile la sua originaria condizione di non poter essere detto.
Per questo il ragazzo che si trova catapultato in una scuola straniera, ha bisogno del suo tempo per trasformare la lingua e adeguarla ai suoi strumenti comunicativi, diversi da quelli dei suoi compagni, ma anche e soprattutto dei suoi insegnanti. Questi ragazzi sono testimoni di un parto linguistico complicatissimo, perché un giorno parleranno italiano come una lingua madre, ma sarà un italiano nuovo, un italiano colmo di gesti estranei, modi di dire stranieri, un italiano che attraverserà il confine geografico ogni volta che verrà detto.
Mentre mi riaccompagnava a casa disse “Tu non ridi in italiano, questo è certo, ma non posso sapere se ridi in moldavo, se non so come sia la risata moldava”. Sono scoppiata a ridere.
La lingua ufficiale della Moldavia è il rumeno, ma non per questo il moldavo è meno lingua, anzi, lo è di più. Il moldavo non ha regole, chi parla moldavo sa di parlare sbagliato. Quando, in luogo di situazioni formali, qualche bambino parla in moldavo, la madre gli dà uno scappellotto sulla testa e lo rimprovera: “parla correttamente”. Il moldavo è più di una lingua, si potrebbe dire che sia un dialetto, ma io vorrei azzardare l’ipotesi che sia più anche di un dialetto. Il moldavo è un suono, una parolaccia, una sorta di sputo, è una canzone popolare cantata da voci stonate che amano stonare. Quando parlo in moldavo il mio corpo si ingobbisce, muovo la bocca come se stessi masticando una chewing gum e mi asciugo la fronte come se fosse sudata, come se avessi portato un bicchiere d’acqua alla nonna che zappa sotto il sole. Quando parlo in moldavo io non parlo, non costruisco delle frasi, non coniugo verbi, improvviso, sono libera come quando mi prude la schiena e mi gratto, perché non mi vergogno di nessuno, in barba alla buona educazione, in barba alla correttezza. Parlare in moldavo per me è come sputare a terra davanti a tutti, senza che questa sia una cosa maleducata, perché ho qualcosa dentro da tirare fuori e la tiro fuori così come la cosa vuole venire al mondo.
“Allora no”, mi ha detto, “non è in moldavo che ridi”.
Questo testo è davvero un bel esempio per tutti. Come dice nel testo, una persona che parla in modo diverso non significa che viene da un’altra parte, questo è la mia parte preferita. Questo è quello che sto vivendo, quello che parlo è uguale a quello che gli altri dicono, ma il mio tono e il modo di dire, fa pensare altro per gli altri.