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Urlo

di Mauro Baldrati

“Non esistono i beat, ma solo un gruppo di ragazzi che vogliono essere pubblicati” dice il personaggio di Allen Ginsberg nel film Urlo. In effetti il vero Ginsberg tentò di smorzare l’attenzione dei media sul gruppo di scrittori e poeti di cui faceva parte, che tutti chiamavano beat, e in seguito beatnick. Erano soprattutto degli amici che vivevano insieme, che viaggiavano, che scrivevano e cercavano di pubblicare i loro libri, si drogavano, urlavano la loro protesta verso la società americana del dopoguerra. Era il 1957, il poema Howl era stato da poco pubblicato dalle City Light di Lawrence Ferlinghetti e subito sequestrato per oscenità. Come sempre accade in questi casi l’attenzione dei media immediatamente si puntò sull’evento, e Ginsberg e i beat guadagnarono le prime pagine. Forse Ginsberg voleva che la fama fosse solo per le opere, senza i riflettori del gossip voyeurista sui personaggi, i loro vizi, le trasgressioni.
“Non esistono i beat.” Ma più di trent’anni dopo il poeta e professor Ginsberg, nel corso di un incontro con gli adoranti lettori a San Francisco cui era presente Emanuele Bevilacqua, autore del piccolo, prezioso Guida alla beat generation (Theoria 1994), dirà: “L’influenza dei beat è stata fortissima, fuori e dentro gli Stati Uniti”. Dunque sono esistiti come gruppo dotato di una identità collettiva, sono esistiti come generazione. E hanno prodotto opere, non solo poetiche ma anche artistiche, cinematografiche, con una estetica, uno stile che in qualche modo le ha unite e caratterizzate.
Ma vediamo intanto la genesi di questa parola, il nome della generazione. Lo avrebbe inventato Jack Kerouac, nel corso di un’intervista con John Clellon Holmes, nel 1948: “This is really a beat generation.” Generazione beat, battuta, sconfitta. Però lo stesso Kerouac scrisse in seguito che un giorno del 1948, in Times Square, incontrò un hipster di Chicago (gli “hipster dal capo d’angelo” che sono nel poema Urlo, erano i musicisti del be-bop e chi li seguiva ai concerti, tipi eccentrici spesso vestiti con abiti zoot, di taglie enormi, sgargianti e chiassosi) di nome Herbert Huncke che gli disse: “Man, I am a beat.”
I beat, i battuti.
Forse il primo Ginsberg non aveva torto quando negava la loro esistenza. Perché non erano un collettivo organizzato con una linea, non erano un gruppo di protesta. Erano artisti, scrittori, poeti, che vivevano sulla loro pelle l’impossibilità di accettare il nuovo conformismo di massa (“la meccanizzazione delle menti” scrive Ginsberg), la difficoltà di adattarsi alla nuova America del dopoguerra, dove il capitalismo torna potente e più aggressivo che mai, e il Moloch (“Moloch, i cui occhi sono mille finestre cieche”) del potere schiaccia la vita, si prende i sentimenti, la speranza, l’amore. Gli scrittori beat conducono una vita miserabile, ammassati in appartamenti spogli e senza riscaldamento, cercano con ogni mezzo di uscire dalla melma esistenziale e non esitano a fare uso massiccio di tutte le droghe (ma erano preferite la marijuana e il peyote) utili per aprire le coscienze, per cercare nuove vie, nuove opportunità di amare, di stare insieme. E di scrivere. Trasportano la loro inquietudine nella scrittura, in versi e in narrativa, urlano la loro rabbia, le loro visioni psichedeliche, raccontano gli sballi, le corse in macchina, il viaggio incessante, senza fine, spinti da un’unica forza terribile, insaziabile e indomabile: la ricerca. Cercano soprattutto l’innocenza perduta, quando l’amore era ancora puro e possibile, e si ribellano al fango che li soffoca. Quanto Rimbaud c’è nel loro viaggio, gli “orribili lavoratori” in cerca dell’ignoto attraverso lo sregolamento dei sensi. E quanto Henry Miller, il loro vero padre putativo, l’eroe metropolitano massiccio e mistico che passa indenne attraverso una vita di totale povertà, indifferente alle regole del potere, alle convenzioni, all’ipocrisia e al conformismo.
Ma beat si è arricchito di un secondo significato, attribuitogli sempre da Kerouac quando, nel 1954 (On The Road era stato scritto da tre anni, e dovrà aspettarne altri tre per vederlo pubblicato), in una chiesa di Lowell, sua città natale, disse di avere avuto una visione: “Beat vuol dire beatitudine.” E qui entra in scena l’aspetto mistico, forse acquisito a posteriori, quando l’attività letteraria era già molto attiva: la lettura dei testi buddisti, le filosofie orientali, probabilmente il lato B della ricerca  di innocenza, di pace, di felicità. Ma saranno sempre filosofie adattate alle loro vite, raramente le loro vite si conformeranno alla filosofia. I vagabondi del Dharma, che racconta le avventure  di Kerouac e Gary Snyder, è una interessante commistione di buddhismo e alcolismo, di rigore e rottura di tutti gli schemi, della regola e dello sfondamento della stessa.
I beat, i battuti, gli eredi dei lost di Francis Stott Fitzgerald, i beati che cantano il mantra “Santo!”, con la loro ricerca esistenziale e poetica hanno influenzato generazioni di giovani, perché hanno espresso le inquietudini e le delusioni di chi ha creduto alle promesse dei padri, promesse mai mantenute, schiacciate dai talloni di ferro del denaro, del potere, dell’immagine minacciosa dei padri ipocriti e traditori. E per questo, forse perché furono amati con tale intensità, sono stati talvolta rinnegati dai loro stessi estimatori. Frequenti le accuse di qualunquismo, di essere patetici e un movimento sostanzialmente borghese, interno al capitalismo. Pasolini dirà che li ha amati perché “grandi arrabbiati”, poeti che hanno espresso la grande rabbia derivante da una grande borghesia (mentre in Italia, disse, esiste una piccola borghesia e quindi “piccoli arrabbiati”). Bob Dylan nel suo Chronicles scrive che ha adorato On the road, come tutti, è impazzito d’amore e si è identificato totalmente nella sua velocità e nella sua intensità, ma in seguito ha capito che tutto quell’andare avanti e indietro, ossessivamente, senza scopo, non aveva senso. E le grida frenetiche e ultrapositiviste di Dean Moriatry cadevano nel vuoto.
Ma il vuoto esisteva, come esiste oggi, era il loro vuoto affettivo ed esistenziale, e i beat hanno cantato l’epica di questo vuoto.
Il breve film Urlo (90 minuti scarsi), regia di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, con lo zampino discreto di Gus Van Sant (chi è interessato si affretti, ha una distribuzione limitata e starà poco nelle sale), è garbato, semplice, onesto, ben girato. Non ha la pretesa di rappresentare le avventure dannate dei protagonisti, né di stupire, di scandalizzare, è impostato su una intervista newyorkese di Allen Ginsberg, nel 1957 mentre è in corso il processo e Lawrence Ferlinghetti rischia la galera. Le parole del vero guru dei beat si alternano con immagini del processo, oggi paradossali per l’ottusità dell’avvocato dell’accusa (ma non troppo in realtà, la predica finale del giudice repubblicano, che lo giudicò non osceno, sulla libertà di espressione sembrano scritte per l’Italia dei nostri giorni), per le teorie sulla poesia, suffragate dagli “esperti” che in aula giudicavano i versi tipo “che si lasciavano fottere in culo da motociclisti santi, e urlavano di gioia”, con immagini in bianco e nero di Ginsberg e i suoi amici, Neal Cassady, Kerouac, riprese d’epoca di San Francisco, e una serie di animazioni che compaiono quando Ginsberg legge Urlo durante il mitico reading alla Six Gallery nel 1955. Molti gli spunti interessanti nelle sue parole mentre descrive la genesi delle  poesie: era un ragazzo molto timido, come quasi tutti i beat del resto, che si innamorava perdutamente dei compagni di college. Così iniziò a scrivere per combattere la sua timidezza e soprattutto per cercare di sedurre Jack Kerouac. Motivazioni sacrosante: chi ha stabilito che la poesia deve avere per forza obiettivi elevati o confessionali? Non potrebbe nascere semplicemente per uno scopo utilitaristico?
E’ un film sincero, dove il coraggio di quei ragazzi emerge in tutta la sua autenticità, poeti che scrivevano per il piacere di farlo, per l’urgenza di esprimere fino in fondo i loro sentimenti, indifferenti alle problematiche esterne, ai gusti del pubblico, degli editori, al mercato, alla censura (e soprattutto l’autocensura), al rischio di finire in prigione. E di nuovo viene spontaneo fare un paragone coi giorni nostri, dove le poetiche sembrano intrecciarsi con le variabili dettate dagli editori, e i dibattiti si infiammano soprattutto sul “come” e non sul “cosa” o sul “perché”.
Se proprio vogliamo trovare dei difetti possiamo criticare certe immagini patinate, dove i personaggi sembrano usciti dalle fotografie in bianco e nero di Richard Avedon (i beat erano autenticamente working class, qui vi è una ricostruzione un po’ estetizzante del working class), le animazioni sono a volte eccessive e vagamente noiose, e poi la traduzione: crea un certo imbarazzo sentire il Ginsberg interpretato da un bravo James Franco che declama “in cerca di pere di furia”, quando la prima traduzione italiana recava “in cerca di droga rabbiosa” (in originale: “looking for an angry fix”), ma questo è, Urlo è stato ritradotto, come sempre, come i romanzi di Henry Miller e di Kerouac, e chi di noi ha letto le versioni originali prova un fastidioso disagio quando salta fuori un Guido Almansi che dice che le traduzioni di Bianciardi e di Mario Praz erano imprecise e da rivedere (da lui). E infine il doppiaggio. In Italia abbiamo la fobia di doppiare qualunque cosa (si è salvato in parte solo Inglorious basterds di Tarantino e poco altro), tutti i film hanno le stesse voci, con lo stesso timbro, noir, avventura, amore, storici, e anche Urlo, benché il reading del 1955 in italiano non sia del tutto da buttare.
Ma resta un film equilibrato su una generazione che si è bruciata in un viaggio senza fine, e sarebbe bello, oggi, ritrovare almeno una parte di quel loro coraggio, e di quella loro bellezza ostinata e perduta.
(La foto di apertura è di Mauro Baldrati)
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9 Commenti

  1. Vero Jan, ho spedito io la foto a Marco, non ricordandomi che fu l’apertura del mio primo articolo (era un racconto breve) pubblicato su NI. 4 anni e otto mesi fa :-())

  2. Vedrò con molto interesse sia questo film che l’on the road che sta per uscire. Preciso che a me risulta che il termine beat abbia annhe una connotazione con il “ritmo”, Kerouac per la sua prosa-flusso-di-coscienza si ispirava per l’appunto ai jazzisti be bop, una sorta di jam session libera e senza partitura, svincolata dalle regole della prosa americana che si era vista fino a quel momento, compreso il primo libro di Kerouac, “La città e la metropoli.”

  3. L’ho visto.
    Non mi è dispiaciuto anche se -credo- andrebbe visto in lingua originale per apprezzarlo al meglio. Si tratta di base di una esegesi filmica del poema Urlo: dal processo a Ferlinghetti (che fa da controcanto prosastico e da occasione narrativa) si dipana un’intervista a Ginsberg, una “rappresentazione” a cartoni animati del testo (che mi ha ricordato un po’ Fantasia di Disney) e la ricostruzione della prima lettura pubblica del testo.
    Secondo me è un ottimo film per i neofiti della beat generation, rende almeno in parte l’idea dell’aura mitica che ancora si portano dietro. Ma i beat sono una sorta di olimpo, è più facile conoscerne la saga che le opere. Urlo è un vertice. Quando spiega perché i pii motociclisti urlano di gioia mi sono emozionato

  4. grazie mauro per questo ottimo pezzo, condivido bob dylan su On the road, per il resto i beat dovrebbero essere la base di ogni giovane in crescita. il film ovviamente lo vedrò.

    le traduzioni di almansi – vero – non possono competere con quelle di bianciardi, ma bianciardi era molto più di un traduttore, con tutto il grande rispetto.

  5. Abbiamo visto “ L’urlo “ diretto da Rob Epstein, Jeffrey Friedman.
    Finalmente un buon film, ottima sceneggiatura, originale regia, montaggio creativo, splendida fotografia, ottime la scenografie e i costumi, perfetto il cast. Film che si basa in fin dei conti sulla poesia di Allen Ginsberg “”Howl ” ( Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia… ”. Poesia manifesto ( come “ On the road “ in narrativa ) di una generazione, metropolitana, colta, cool, anticipatrice degli Anni Sessanta; che molti ritengono il movente fondativo della Beat Generation, gruppo esistenzial-creativo che ha preso il posto della Lost Generation di Hemingway e Scott Fitzgerald. Avevano tuttavia poco in comune – come dice giustamente nel film Ginsberg – tranne l’idea del viaggio, le droghe e la vita beatnik. Infatti cosa hanno in comune, tranne la conoscenza o l’amicizia autori come Ginsberg, Kerouac, Corso, Ferlinghetti o Borrounghs ? Strana la nascita della parola ‘beatnik’, inventata dal giornalista Herb Caen in un suo articolo del 1958 sul San Francisco Chronicle come termine denigratorio per i membri della Beat Generation come gioco di parole con il satellite sovietico Sputnik per rilevare la distanza dei beat dalla società corrente e per il fatto che erano in odore di simpatie comuniste in un’epoca in cui c’era ancora la Commissione McCarthy con la sua caccia alle streghe che perseguitava gente come John Huston, Humphrey Bogart, Charlie Chaplin, Bertold Brecht, che mandava a morte per spionaggio i coniugi Rosemberg e che vedeva comparire sulla scena politica un personaggio come Richard Nixon.
    Il film gira intorno alla poesia Howl ed è diviso in tre blocchi sapientemente scritti, montati e intrecciati: l’intervista che dà Ginsberg a un giornalista fuori campo in cui parla della sua giovinezza e la sua evoluzione come poeta fino a giungere al concretizzare della sua poesia più famosa come valore di testimonianza di una generazione; nel secondo blocco si vede Ginsberg recitare alla Six Gallery di San Francisco la sua poesia per la prima volta e la recita è intervallata da disegni colorati come se si fosse in una partitura jazz; il terzo blocco è il processo per oscenità che subisce il suo editore Lawrence Ferlinghetti con l’analisi del testo da parte di avvocati e professori universitari.
    I due documentaristi Epstein e Friedman ( già autori di due documentari “ The Celluloid Closet “ e “ Paragraph 175 “ ) utilizzano con “ Urlo “ gli strumenti del documentario per una fiction elegante, accurata e colta, costruiscono su frammenti discontinui e paralleli come fosse un brano jazz un’opera originale e impervia anche se non sempre tesa.
    Il film è stato presentato in concorso al Sundance Film Festival e alla 60a edizione del Festival di Berlino, dove era in lizza per l’Orso d’oro.

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marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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