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Il tesoro di Skrunc

di Mauro Baldrati

L'urlo - Mauro BaldratiHo lavorato nella redazione di Frigidaire, a Roma, per circa un anno, occupandomi praticamente di tutto: foto, testi, titoli, rispondere al telefono, aprire e chiudere la redazione (ma non le pulizie, quelle me le sono evitate). Una sera di maggio eravamo io e Antò, il disegnatore principe del giornale, il creatore di storie giovanili che sono entrate nel mito, una matita sopraffina, un colorista eccelso; il lavoro in redazione era terminato, e noi, seduti nel bel giardino dell’elegante sede di Monteverde vecchio, eravamo alla ricerca di un po’ di streppa per alleviare il senso di fredda solitudine che ci mordeva l’anima. Le telefonate non avevano dato esito: i pusher erano tutti irreperibili, o era troppo presto o era tardi. Chi ha avuto la ventura di precipitare nella spirale delle droghe pesanti conosce la paranoia micidiale che toglie il respiro quando i dannati pusher non si trovano.

“E adesso che cazzo facciamo?” chiese Antò. “Non c’è nessuno in giro”.
“Cazzo ne so” ho detto, al colmo della depressione.
“Vabbè” disse Antò, “proviamo da Skrunc. Ha certamente della roba. Ne ha sempre quel maiale. Però senza telefonare, è sempre incazzato nero. Se mangia la foglia sbatte giù il telefono”.
Skrunc era un disegnatore che collaborava con noi con vignette satiriche. Anche dalle pagine di un quotidiano, con questo nome d’arte, ogni giorno disegnava una scenetta in cui i politici venivano ferocemente sbertucciati.

Così saltammo su un taxi e andammo da Skrunc. Era in casa, per fortuna, da solo, in soggiorno, con una musica jazz in sottofondo.
“Ehi Skrunc” disse Antò, con l’irruenza che lo contraddistingueva, una sorta di entusiasmo infantile irresistibile che creava il suo fascino particolarissimo, “Skrunc, abbiamo bisogno di un po’ di roba. Siamo a pezzi. Aiutaci, non troviamo nessuno!”
Skrunc mi lanciò un’occhiata in tralice, aggricciando il naso e strizzando gli occhi dietro le spesse lenti . “Cazzo fai?” ringhiò, “ti ho detto mille volte di non piombare qua con della gente”.
“Ma Skrunc” ribatté Antò, “lui non è della gente, lo conosci, è il redattore del giornale”.
In effetti mi conosceva benissimo, avevamo anche parlato di lavoro varie volte in redazione. Però continuava a guardarmi storto, come se mi vedesse per la prima volta. “Non me ne frega niente!” strillò, “tu qui devi venire da solo, chiaro?”.
Poi lo afferrò per un braccio e con uno strattone lo trascinò in un’altra stanza, sbattendo la porta. Lo sentivo, che gridava: “sei una testa di cazzo! Porti sempre della gente! Io non voglio rotture di coglioni, lo capisci o no?”
Antò non diceva niente, e cosa poteva dire? Il coltello dalla parte del manico era in mano a Skrunc, lui aveva la roba. Intanto io avevo capito che per me si metteva male. Alla fine della sfuriata Skrunc mi avrebbe invitato a togliere le tende e loro due si sarebbero strafatti alla faccia mia. Mi salì una rabbia violenta: oltre alla paranoia dei pusher irreperibili dovevo anche inghiottire la frustrazione avvelenata del rifiuto, e del festino da cui sarei stato escluso!
Mi guardai intorno, sull’orlo della crisi, quando la vidi: sul tavolino porta-riviste, su uno specchio con una cornice dorata, c’era una gigantesca pista di brown sugar pronta per essere sniffata. La gola mi si seccò. Di là Skrunc continuava a inveire, ma il ritmo era in calo, percepii anche una risata soffocata. Non c’era molto tempo. Così presi dal portafogli una banconota da diecimila lire e, tenendo d’occhio la porta, mi sniffai la roba. Era una dose eccessiva per me, che facevo un uso saltuario di polvere, ma l’ingordigia, e il pericolo di restare all’asciutto, mi spinsero a spazzarla via tutta in un’unica sniffata. Comunque non ero preoccupato: è estremamente difficile andare in overdose per uno sniffo. Tuttalpiù avrei vomitato.

Valutai l’ipotesi di lasciare le diecimila lire come parziale pagamento della roba, ma la scenata di quell’egoista di Skrunc mi fece desistere. Quella era una requisizione, un esproprio proletario. Così imparava a chiamarmi della gente!
Proprio mentre la discussione (o meglio, l’invettiva di Skrunc) stava terminando aprii la porta d’ingresso e corsi giù dalle scale. Era fatta. Avevo avuto il mio nutrimento, e che nutrimento. Tra poco il calore avrebbe iniziato a diffondersi nella schiena, e, se fossi riuscito a ritardare il più possibile l’inesorabile rimbambimento mortifero che segue il flash iniziale, magari con una birra e un panino piccante, e a non dare di stomaco, l’ostilità del mondo, e la solitudine nella città tentacolare, non avrebbero avuto alcun senso per me.

(Foto di Mauro Baldrati)

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35 Commenti

  1. C’è un mio amico, pittore e disegnatore, che si faceva di eroina a 17 anni. Ora ne ha 24. (Io ne ho 33.) Ho avuto modo di parlare con lui di Fuori vena, il film di Tecla Taidelli, film senza possibilità di equivoco (il titolo è abbastanza indicativo) incentrato sul mondo dell’eroina, allocata però nei centri sociali milanesi contemporanei. Il mio amico, quando gliene ho parlato, mi ha risposto rabbiosamente. Incazzato. Come si fa, diceva, a pensare ancora che la roba può essere un mito? Ci potevano cascare quelli degli anni Sessanta, quelli dei Settanta, ma quelli degli Ottanta, quelli come me nati negli anni Ottanta, sono stati gli ultimi che ci sono cascati.
    Forse è “soltanto” questo, un’epoca è davvero finita. Un’epoca che certamente è finita finendo un sacco (troppa) di gente, tanta di quella impacchettata e infiocchettata col nastro rosso AIDS.
    E questo piccolo racconto racconta quell’epoca, parla con un gergo che appartiene a quell’epoca. Credo davvero che sia “soltanto” questo. Una pura questione di contenuto. Fuori tempo massimo.
    (Ma questa non è una critica, e meno che mai una critica negativa, passavo di qua, ho letto, pensato e scritto.)

  2. Non ci sono, secondo me, racconti legati a un’epoca, ma racconti. E allora un racconto ambientato negli anni ‘6o? e negli anni ’50? E poi a me questo racconto non sembra che faccia dell’eroina un mitoanzi. E’ duro, non la condanna, ma perché condannarla poi? E non è per nulla scritto male. Io non capisco perché un racconto ambientato in un periodo come quello debba essere considerato “fuori tempo massimo”. La letteratura non segue mica la moda.

  3. @gemma gaetani
    scusa ma hai letto Crumley, uno dei più attuali maestri del noir americano? I protagonisti vanno in giro a strafarsi di droghe dalla mattina alla sera. E’ mitizzarla?

  4. Barto, il linguaggio stesso è radicato nelle epoche, nei significati e talvolta nei significanti (neologismi o forme che diventano desuete). Per fare un esempio banale, pensa alla connotazione dell’aggettivo “dannato” che so, nel 1750, e a quella che gli conferiamo oggi, dopo tutti i film e i libri americani che abbiamo ingoiato.
    E poi sì, si sente mitizzazione, è quello che hanno sentito i primi lettori che hanno mostrato il pollice verso, nei primi commenti, e sinceramente anche io. Quanto alla durezza, sempre secondo me, questo racconto non è duro per niente. Anzi, piuttosto debole. (Mi perdoni l’autore, ma lo penso).
    Infine, Barto, i protagonisti che vanno in giro a strafarsi dalla mattina alla sera, a me, se non mi raccontano altro, dal punto di vista del linguaggio anche, hanno rotto. Ma io non sono che un’opinione come tante altre, ci mancherebbe.

  5. sarò breve, scrivo in diretta.
    Allora.

    Che legame c’è tra disegnatori fumetti, l’essere il tutto fare di una redazione e il cercare una sniffata?
    Il tipo si presenta in casa di un tizio ( tizio alla bukowski) e vede una pista e tira e scappa.
    BEne. E allora. Dov’è il racconto? dov’è il tema? Dov’è il messaggio? In questo racconto dov’è il dolore?
    L’unica cosa che sento è lo scrittore che dice: “hei ragazzi, io sono tosto, io so come ritardare la botta, basta mangiare piccante”.
    Ebbene, gran genio. Io so di più. E proprio perché so, dico che il racconto è costruitto su di una posa, quello dello scrittore.

  6. a me questo più che un racconto sembra un pezzo di racconto, forse il racconto andrebbe continuato, ma nemmeno per forza. comunque mi ha fatto ridere parecchio in ufficio mentre lo leggevo, mi ha fatto ridere più o meno nello stesso modo in cui ci riesce Ammanniti. Come per Ammanniti, qui non si tratta di raccontare e leggere storie “nuove”, ma di giocare ai maccaroni, divertendosi a spiare i movimenti del grottesco Alberto Sordi “ammarecano” che è in noi. Ricordatevi l’Albertino di Fango. E’ un procedimento che se ben condotto sara sempre esilarante (almeno per me, chiedo pardon all’autore se le sue intenzioni erano più serie) perché stuzzica il nostro provincialismo, il nostro sentirci periferia nel rapporto col centro del mondo, un grosso divertentissimo “macchittecredi da esse”. I racconti come questi, guai se non ci fosse la “posa”, è la posa che salva racconti così.
    Poi dai, è scritto assai bene. Per me bravo.

    Matteo

  7. Gemma, a me la tua valutazione sembra più che altro una mazzata morale. Questo racconto parla di droga, di tossici, e mezzi tossici, ma non è che debbano per forza essere rappresentati con una scrittura addolorata, o drammatica, oppure non se ne parli per niente. Li fa vedere in una scena “dal di dentro”, senza preoccuparsi di piangerci su o di compiangere nessuno.

    Io quando c’era Frigidaire avevo 15-16 anni e non lo leggevo. Però ne ho avuto tra le mani delle copie dopo. C’erano questi fumetti bellissimi che mi hanno ricordato questo racconto. Cioè, il contrario, è questo racconto che me li ha ricordati. Mi sembra una tecnica simile. Anche a me sembra scritto bene, Questi commenti così livorosi giuro che non li capisco mica.

  8. i commenti sono livosi? e perché?Basta dire che una cosa non piace, e subito si dice: commenti livosi.
    Io ho espresso una opinione da lettore dando alcuni miei argomenti, ovvero alcune brevi coordinate personali.
    E aggiungo.
    Dov’è lo stile ben fatto del pezzo? Ma stiamo scherzando? Questo pezzo è ben scritto? dov’è la dimmensione narrativa di questa storia? Dov’è la storia? dov’è l’ironia? O dove la drammaticità? dov’è l’interiorità del protagonista? o dov’è la fredda ripresa di un evento?
    Ditemi di grazia cosa il testo voleva comunicare al lettore. La domanda fondamentale di ogni letteratura: cosa l’autore vuole dirmi?
    Io non l’ho capito. Ho solo capito che c’è una riproduzione opaca di una certa letteratura con relativa posa da “scrittore”.

  9. Non so, a me continua a sembrare medio. Insomma, “Heroin”, o “La scimmia sulla schiena”, sono scritture magnifiche sull’eroina. Non è una censura moralistica la mia, sia ben chiaro! E’ il contrario. C’è un debole autocompiacimento qui. Nessuno dei tre mi si presenta come un eroe. E perchè? Perché la scrittura non è incisiva.

  10. E poi, scusate, ma quale tossico vero usa le espressioni “brown sugar” e “pusher” accanto a “festino” e “esproprio proletario”? Ma dove? Nemmeno Accorsi in Radiofreccia… Il paragone con Ammaniti in questo senso è perfetto, siamo al limite del trash (ma qui involontariamente). Se invece è una testimonianza (come mi sembra che in realtà sia), è inopinabile che l’epoca in cui un racconto del genere può smuovere gli animi è finita da un pezzo. E’ come fare l’apologia della sigaretta, può risultare addirittura patetico.
    Tutto questo, sia ancor chiaro, come personalissima opinione.

  11. Ringrazio tutti. Per le critiche, le battute, qualche pseudoinsulto, qualche apprezzamento. Tutto serve, tutto è prezioso. L’insulto, l’indignazione, non esistono come questione morale, sono una risposta aggressiva a segni di fastidio. Riflettere su questi segni, chi li invia, chi li riceve, è una preziosa occasione di crescita. E la crescita sta anche nell’azione. Quel grande libro antico pieno di saggezza e di psicologia che è la Bhagavad Gita dice che agire e non agire possono essere ugualmente dignitosi, ma tra i due è preferibile agire. Però il vero agire dell’uomo saggio è disgiunto dal frutto dell’azione, cioè dall’apparente guadagno materiale che deriva dall’azione stessa. Si agisce per il solo agire, per il servizio, da uno stato di serenità. Come si raggiunge? Lo spiega col versetto 18 del Canto IV, che resta uno dei grandi rompicapo della storia: “Colui che sa vedere nell’agire il non-agire, e nel non-agire l’azione, questi tra tutti gli uomini possiede la vigilanza della mente, quegli è unificato nello yoga, quegli assolve a tutti i suoi compiti”.
    Io, arbitrariamente, sostituisco alle parole “agire” e “azione”, le parole “scrivere” e “leggere”.

  12. mauro, va bene. Ho letto anch’io Bhagavad Gita ( e se non erro, avrò due differenti traduzioni). Ma che centra? Parliamo di letteratura, vero? O dentro il testo, sotto traccia, c’era della flosofia? Io ho fatto una domanda: Che cosa volevi trasmettere al lettore? Io non l’ho capito. E mi interessa capire. Perché non mi dai una risposta? Il testo aveva una finalità? Quale? La mia domanda è precisa, ho un testo e domando. Tu mi rispondi: grazie, mi è servito per crescere e ora vi do un po’ di saggezza orientale. Dico per non dire. La letteratura è communicazione. Ah, questi scrittori in “posa”. Il lettore non è cretino. Il lettore “sente”.

  13. e non dire che tra lo scrivere e il non scrivere…. e tra il communicare e il non-communicare…
    allora ti chiedo usando il libro Bhagavad Gita: …o tu (mauro, ndr) che esisti sin dall’inizio(il testo, ndr), perché io non comprendo il tuo misterioso agire.

  14. Mah, Gemma, a me sembra che tu ce l’abbia col mondo intero. Per quel po’ che seguo i dibattiti e i commenti mi sembra che accusi sempre di qua e di là di non sapere scrivere, stronchi a destra e sinistra. Credo che dovresti trovare un po’ di tranquillità.

    Questo racconto forse ha dato uno di quei “segni di fastidio” di cui parla l’autore. Ci ho pensato un po’. L’ho definito “duro” ma non è così. Secondo me è così gioiosamente a/morale che ha infastidito e scandalizzato. Io non chiedo la moralità nella scrittura. Io chiedo di raccontare. E a me, ripeto, sembra scritto bene, e tutto quanto è venuto fuori è di una tale esagerazione che non vedo altra spiegazione al di fuori di questo “fastidio”.

  15. Hai ragione, Sud, il lettore “sente”. Io in questo racconto ci sento più verità che posa. Parla di anni che non ho vissuto (ero troppo piccolo) e di esperienze che non ho fatto, non so se il linguaggio che usa è realistico, o se c’è dentro l’eco di certa letteratura (il noir americano, per esempio). Quello che ci sento, però, è la voglia di dare una testimonianza. Il tentativo di fotografare – raccontando un banalissimo episodio – un’epoca, un ambiente, un modo di vivere. Forse è una foto dai contrasti poco netti. Forse ha ragione Matteo, sembra solo un pezzo di racconto: forse andrebbe letto accanto ad altre cose per essere più convincente. Ma definirlo una menata mi sembra ingeneroso.

  16. Sud, mi fai delle domande precise. Non posso entrare nel merito del testo, credimi. Non ci riuscirei. Sarebbe una difesa? Una spiegazione? E’ impossibile. Non si può neanche stilare un trattatello sulla scrittura in sette punti, come fai tu. I manuali di scrittura non hanno mai avuto molto senso, con le regole sul messaggio al lettore ecc. La lettura è molto soggettiva, e uno difficilmente cambia le sue impressioni immediate in seguito a spiegazioni specialmente se provengono dall’autore, che spesso non sa cosa voleva dire. Potrei dire che questo racconto è una scena aperta, senza un vero inizio, senza un vero finale, uno spaccato di vita in progress, come molti racconti brevi del resto. Non so dire sui risultati. Ascolto le vostre critiche e – senza fare della retorica – ne faccio tesoro. Per quanto riguarda la Gita io ho l’edizione Adelphi. Il versetto 18 è estremamente complesso e si presta a svariate interpretazioni – se vogliamo forzature. Anche qui i commenti ufficiali possono venire tranquillamente mediati da una lettura soggettiva. Nel binomio agire/non agire, che io adeguo, per mio comodo, a quello scrivere/non scrivere (e di conseguenza leggere/non leggere), trovo una conferma che la scrittura è fatta di scrittura palese e di non-scrittura contenuta all’interno di quella palese. Cioè, tra le righe di uno scritto si celano sempre dei codici nascosti, proprio come nel linguaggio dei computer ci sono i codici del corsivo, del grassetto ecc che noi non vediamo. Proprio come nel linguaggio diretto c’è sotto il linguaggio non-verbale che spesso è più importante di quello verbale. Il saggio, attraverso la pratica dello yoga – da non intendere qui come esercizi di rilassamento ma di meditazione serena, che deriva cioè dall’azione disgiunta dal frutto dell’agire – cerca di trovare i codici nascosti, di andare al di là del sistema palese. Questo nella scrittura e nella lettura. Cerca di capire cosa comunica, e cosa recepisce. Per me è questo il senso dell’azione “pura”, cioè distaccata dalle cose materiali che Krsna vuole comunicare al dubbioso Arjuna. Ed io lo leggo a mio mio. Anche mio.

  17. Caro Barto, non ti risponderò nemmeno, per quanto di essere interpretata, e male, io sia decisamente stufa. Pensa quello che vuoi. Qualcuno qui sarà decisamente d’accordo con te.

  18. Anche secondo me il racconto manca di qualcosa. A me piacciono molto i racconti che sono “una scena aperta, senza un vero inizio, senza un vero finale, uno spaccato di vita in progress”, ma mi sembra che non sia questo il caso. Qui dai delle informazioni (all’inizio) che poi non utilizzi. Quelle informazioni, che per me, lettrice ventenne che non sa cosa sia Frigidaire (mea culpa), non hanno senso alcuno, sono pressocchè inutili.
    Poi non mi piacciono i nomi complicati, da romanzo americano (sarà un nome d’arte di questo disegnatore, ma non mi piace).
    Non mi pare che sia scritto benissimo, ma secondo me andrebbe sviluppato.
    Poi, ovviamente, non dice niente di nuovo.

    Mi rendo conto di essere stata piuttosto dura. Diciamo che, se lo riscrivessi e lo ripubblicassi qui, mi piacerebbe rileggerlo.

  19. vorrei sapere se è possibile spedire un racconto su argomento simile.
    purtroppo , la rogna non è rimasta un retaggio degli anni settanta, ma continua a irretire e affascinare un gran numero di ragazzi.
    la mia de generazione ad esempio me compreso si e’ trovata invischiata in questo problema
    un po per esorcizzarlo un po per autocompiacimento io ho scritto dei racconti a riguardo.
    vorrei sapere se a qualcuno interessa leggerli

  20. Si scrive per tanti motivi, ma qualunque sia il motivo per cui pensiamo di scrivere, si scrive soprattutto per se stessi. Qualcuno per soddisfare il proprio narcisismo, altri per rimettere ordine nelle proprie idee o nel proprio passato, per ricordare il proprio passato o per farlo conoscere a chi per vari motivi non c’era. E non credo esistano decaloghi… ognuno di noi, o chi scrive lo fa seguendo l’istinto che lo ha portato alla scrittura, perche’ un vero scrittore e’ credo, chi segue una passione istintiva, al di la’ di un decalogo… Mi fa sorridere chi dice…dov’e’ il prologo, qualunque cosa, parola situazione ci comunichi emozioni e’ un prologo o un incipit…perche’ segue poi inevitabilmente un pensiero maturato o pensato a lungo dentro di noi che un mattino, o una notte, salta fuori e si esprime con …ma che fai, dai, siediti, e’ ancora presto …
    E poi la storia si fa da sola o quasi la storia e’ dentro di noi.
    Credo che ognuno abbia il proprio modo di scrivere; e guai se non fosse cosi’, seguire delle regole si, ma non per diventare tutti dei De Carlo, ossia quella generazione di scrittori che si assomigliano un po’ tutti…
    Io trovo che Mauro abbia seguito un suo istinto, una sua storia, abbia ricordato per non dimenticare abbia dipinto uno spaccato di vita degli anni 70 80 che non so certo si poteva scrivere …meglio? peggio?
    O forse semplicemente diversamente, magari togliedo qualche ridondanza, adottando uno stile piu’ asciutto.
    Ora bisogna capire se leggendo ci interessa imparare qualcosa che non conosciamo, valutare i diversi modi di leggere la realta’ del passato, sorriderne, chiedersi, ma davvero succdeva cosi?
    O se altri sono i nostri interessi.
    Il fine, si chiede qualcuno, di questa storia qual e’?
    Ma perche’ ci deve essere per forza un fine?
    Io scrivo perche’ ho questa urgenza di mettere sulla carta questa mio esperienza, probabilmente un frammento di una esperienza m olto piu’ vasta che non si puo’ esaurire in 100 righe. O quante sono.
    Sorrido alle parole della ragazza ventenne che non conosce Frigidaire, dai e’ stata un’occasione per conoscere un pezzo significativo di certo giornalismo di quegli anni, che magari tuo padre o tua madre ricordano, e allora e’ un modo per entare in dialogo con loro…c’e’ tanto bisogno di parlarsi fra genitori e figli.
    Mi fa sorridere, ma guarda che il sorriso e’ davvero tale, non ironico e neppure meccanico, ma davveo un sorriso di dolcezza, di gratitudine, quando ancora lei divce, mi sembra che non sia troppo bene, che andrebbe sviluppato…mi ricorda i giudizi sui temi in classe scriiti dalla prof di lettere, contenuto da sviluppare, ideee buone, ma da sviluppare…
    Le osservazioni di Sud sono altrettanto … secondo me…ma io non sono nulla, dico cosi’ solo perche’ mi piace leggere e amo scrivere, ogni tanto…
    scolastiche.
    Se prendo in mano un qualunque manuale di italiano del biennio rileggo esattamente le stesse parole… messaggio … storia…approfondimento del personaggio…stile, dimensione narrativa, ironia, drammaticita.
    Bene finisco. A me sembra che come in qualunque testo scritto ci siano sbavature, ridondanze, frasi che potevano riuscire meglio, parole che potevano essere usate al posto di altre; ma questo e’ normale. La storia ce’… e’ la storia o meglio un pezzettino piccolo della storia di tanti ragazzi di allora che al di la’ del fatto di dove lavoravano e di come si chiamavano o chiamavano il puscher o la roba, vivevano cosi’ in citta’ fredde e spigolose, senza reali amicizie che non fossero dettate dal bisogno di quella roba.
    Io penso infine che un messaggio e anche chiaro ci sia.
    O meglio io ho scoperto il mio messaggio, il messaggio che Mauro ha scritto nella sua storia per me.
    Se qualcuno non lo trova o ha sbagliato storia, o non sa leggere. Liberamente.
    ciao e grazie

  21. Bene -a me è venuta in mente una canzone. Una canzone molto bella, di uno dei pochi veri narratori del rock. Il tono è diverso ovviamente, come è diversa l’atmosfera, la storia, il modo di viverla: ma in entrambi (la canzone e il racconto) non trovo alcun compiacimento, anche se , per quanto riguarda la canzone non si può evitare di trovarla… elegiaca (ma è la sua grandezza, lucida e spietata. È semplicemente un è (o era) così. Punto. Il racconto mi è piaciuto perchè riprende un tassello d’epoca e anche perchè potrebbe essere in fondo intercambiabile con altre esperienze (non solo di droga quindi): un piccolo quadretto -o un “idillio”. Bravo Mauro.
    Dimenticavo: la canzone è “Heroin”, il narratore Lou Reed.

  22. Avendo vissuto in prima persona l’esperienza di Frigidaire (é sul quel
    giornale che ho iniziato a scrivere) il racconto di Baldrati ha avuto la
    capacità di trasportarmi, come fosse una sequenza di fotogrammi in
    movimento, in quell’universo dominato dal caos (e da grandi intuizioni e
    progetti) che sembrava ogni volta sul punto di esplodere. E che invece
    produceva ‘cultura’.
    Mi é piaciuta, la scrittura, per quel sapore ‘documentaristco’, di
    narrazione in tempo reale, un racconto aperto, una partenza…per un viaggio
    che é affascinante (e poco conosciuto) ad oltre 25 anni dalla sua nascita…
    Una notazione sulle espressioni utilizzate…festino…fa molto anni ’80,
    quelli dell’approccio letterario a tutto…anche alle droghe…

  23. La scrittura non è solo istinto, è anche tecnica. Se fosse solo istinto, ispirazione, saremmo tutti scrittori, non avremmo difficoltà. Invece c’è una cosa che si chiama tecnica e che non si può prescindere.
    Una cosa che non capisco è questa : se uno scrive solo per sè, perchè dovrebbe far leggere ciò che scrive agli altri?
    Le critiche che ho fatto non penso siano scolastiche. Dire che si debba sviluppare un racconto non significa parlare come il proprio professore del liceo. Ho detto semplicemente che se uno dà un’informazione, quell’informazione deve essere sviluppata. Queste cose, purtroppo, a scuola non le insegnano.

  24. Scrivere in solitudine è un attività solipsistica che puo’ assurgere a funzioni anche terapeutiche, nel senso che la narrazione, che è sempre autonarrazione, libera e produce autoconsapevolezza del se’.
    Ma senza lo stimolo esterno, è molto diverso.
    La scrittura in questo senso, non è narcisismo o esibizionismo, ma proprio lanciare ponti di senso tra se’ e gli altri…costruire tessuti, ordire relazioni, tramare significati contribuendo alla sedimentazione culturale.
    La rete poi in questo senso è maggiormente aggravata dall’interattività e dal sincronismo……fortissimi elementi di stimolazione.

  25. Il racconto è caratterizzato da una scrittura più che congruente, è abbastanza chiaro che tutto è volto a raccontare LA GIOIA di farsi una pera. La prosa è scorrevole e precisa, il risultato dello “spaccato” senza inizio né fine, è più che raggiunto. In più è quasi totalmente ineccepibile dal punto di vista lessicale, a parte la notazione che ribadisco, “pusher” è un’espressione che si è diffusa oggi presso i più. C’è poi un’altra notazione di tipo forse ideologico, mi fa arricciare un po’ il naso sentir parlare di “esproprio proletario” della roba, ma ci sta anche quello. Insomma il racconto è riuscito, il mondo che si voleva raccontare, e soprattutto il clima che si respirava all’interno di quel mondo, passa eccome. Ma il punto è un altro. Ma il punto è che oggi abbiamo assistito agli effetti nefasti della diffusione dell’eroina, e forse per questo abbiamo difficoltà ad accettare il patto narrativo con uno scritto che ci ripropone quel mondo in modo tutto sommato lieve (per quanto, ripeto, preciso). Questo racconto non mi racconta che, come fa “Heroin”, farsi le pere fa sentire onnipotenti, non mi viene in faccia come un pugno, a dirmelo. Come era invece nelle vignette di Pazienza, dove “vomito e cielo”, come diceva De Angelis, erano lì, nel loro massimo splendore, a dire “che ti venga voglia di noi”. Tutto qui. Tant’è che mi viene da chiedere a Baldrus: se l’avessi scritto venti anni fa, non sarebbe stato diverso, forse?
    (In ogni caso questo non vuol dire che si possa esercitare questo cinismo critico, eppure en passant, che mette in atto chi prende e scrive “peccato che non pulivi i cessi”. Vorrei leggerli i racconti che scrive chi ha scritto quel commento, se ne scrive.)

  26. si anch’io vorrei leggerli i suoi racconti. e anche quelli di altri che criticano il modo di scrivere di Mauro, chiaro ed efficace, piacevole…capace di fotografare quel tempo.
    Penso esattamente anche io che la scrittura sia lanciare ponti fra le persone, tessere trame…e dicendo scrivere per se stessi intendevo proprio questo, dare a se stesssi la possibilita’ di guardarsi dentro, di capire, di allargare la mente… di ricevere e dare agli altri stimoli.
    Vorrei dire a Maura che lo so bene che la scrittura e’ anche tecnica, ma non e’ vero che tutti abbiamo l’istinto che per me non e’ qualcosa di cosi’ ovvio; istinto e’ scrivere con naturalezza, con…non so come spiegarti, ma come se fosse naturale, come e’ naturale respirare o nuotare si si e’ pesci. Ma non tutti hanno questa capacita’ cosi come non tutti imparano a nuotare o a recitare o a cantare perche’ si e’ stonati e anche se andiamo a scuola di canto… di nuoto, di ballo…di tetro…e’ inutile…Ti e’ mai capitato di ascoltare una persona suonare il piano o il flauto o qualsiasi altro strumento e dire…si ha una buona tecnica, ma non intrpreta la musica, non c’e’ cuore nelle sue mani, solo la testa…
    Nelle mani di Mauro c’e’ cuore. C’e’ levita’, leggerezza…

    Io insegno e normalmente insegno la tecnica del “bravo” scrittore quasi tutti imparano scrivere un testo, ma questo non vuole dire che siano scrittori. Mauro lo e’.

    Perche’ non mandi qualche tuo racconto, Maura? Cosi’ capiamo meglio…
    Comunque si dice…da cui non si puo’ prescindere…

  27. Se qualche membro di nazione indiana volesse pubblicare qui un mio racconto lo farei volentieri, ma non voglio costringere nessuno a farlo. Comunque ho un blog (www.maura.splinder.com) in cui si possono leggere alcune delle cose che scrivo. Ecco, se volessi leggere l’ultimo racconto, “Lampedusa, di cui ho pubblicato le prime due parti (puoi anche scrivermi un’e-mail se vuoi i link), sarei contenta. Ovviamente, puoi scrivere quello che pensi senza censure (anzi, mi è utilissimo).
    Il fatto che io abbia criticato Mauro non significa che io pensi di scrivere meglio di lui o creda che lui sia un incapace. Se avessi pensato questo non avrei neanche perso tempo a leggere il suo racconto e a commentarlo. Lui stesso ha detto di considerare molto le critiche, e questo è un segno molto positivo.
    Penso solo che il lettore abbia il diritto di dare il proprio parere su quello che legge. Ovviamente rispettando l’autore (io non gli ho detto di andare a pulire i cessi, come hai potuto leggere, perchè quella è un’offesa, non una critica).
    Che non tutti abbiano l’istinto è ovvio, la mia era solo una provocazione…

  28. Gemma, io credo che il punto centrale delle tue obiezioni sia in questa frase: “abbiamo difficoltà ad accettare il patto narrativo con uno scritto che ci ripropone quel mondo in modo tutto sommato lieve”. Lieve, leggero: è questo che contesti, questa “irresponsabilità” che porta di fatto a una mitizzazione dell’eroina, al “piacere di farsi una pera”. A mio avviso è in atto un “lieve” tiro impreciso, diciamo su un obiettivo che è il riflesso dell’obiettivo vero: è la quotidianità, l’assoluta normalità di questa scena che contesti, non la sua lievità. E’ una scena, un “viaggio”, in cui per gli attori l’azione narrata è la consuetudine, è quasi il senso comune, senza “pugni nello stomaco” né tinte forti che servono per prendere le distanze, oggi, da quell’azione. Si apre una porta su una scena, si guarda, si ascolta, e non si giudica, non si reagisce agli input negativi o aggressivi: si fa un giro e basta. A mio avviso è questo che non accetti. E puoi avere ragione. O torto. Può darsi che dalla sola restituzione dall’interno di un’azione sia contenuta la sua indiretta approvazione. Ma può anche essere il contrario. Riguardo poi alla tua domanda io non so se vent’anni fa lo avrei scritto diverso: forse, più semplicemente, non l’avrei scritto affatto.
    Grazie per quest’ultima tornata di commenti. Ringrazio anche Gattominchia – senza alcuna ironia, giuro – che senza volerlo è stato, per un attimo, un guru, un “rishi”: con la sua battuta mi ha ricordato che non esistono lavori elevati e lavori “bassi”; che non esiste, se non nel mondo vacuo e mendace dell’apparenza, il redattore che si occupa della cultura, della scrittura, e l’uomo delle pulizie: esistono semplicemente “i lavori”.

  29. Mauro, in realtà mi riferivo ad una lievità formale.

    E’ fuori dubbio comunque che personalmente ho alcune difficoltà a credere ad una quotidianità felice del tossico o dello spacciatore o del tossico-spacciatore. Ma questo perché so, per la mia esperienza indiretta ma davvero ravvicinata, e poi come appartenente a questa generazione, che l’eroina ti toglie, prima o poi, tutta la gioia che ti dà.

    Comunque devi essere davvero gandhiano tu:

    “Ringrazio anche Gattominchia – senza alcuna ironia, giuro – che senza volerlo è stato, per un attimo, un guru, un “rishi”: con la sua battuta mi ha ricordato che non esistono lavori elevati e lavori “bassi”; che non esiste, se non nel mondo vacuo e mendace dell’apparenza, il redattore che si occupa della cultura, della scrittura, e l’uomo delle pulizie: esistono semplicemente “i lavori””.

    :0)

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