Marcel Proust, la bellezza, le atrocità
di Mauro Baldrati
“Se leggendo la Recherche la realtà mi balzava agli occhi e mi prendeva la gola, cosa era stata allora la mia vita, se non una finzione?”
E’ solo uno dei tanti passi citabili di questo straordinario ibrido, una sorta di analisi, e al contempo di atto d’amore verso il grande libro, che si compenetra con una riscrittura reality dello stesso. Durante la lettura entriamo nei ricordi personali dell’autrice, discendente da un’antica famiglia aristocratica, i duchi di Luynes, (il bisnonno probabilmente è stato uno dei modelli del barone Charlus), il principe Murat, il re di Napoli bonapartista. Una macchina del tempo che, proprio come nella tecnica di Proust, ci introduce in un mondo fantascientifico fatto di ricerca ossessiva dello stile, di eleganza, di modestia esibita, di “tecnica del corpo e del controllo posturale, tutti elementi che rivelano a prima vista l’aristocrazia, un sistema fondato sull’ineguaglianza per nascita”. Ovvero: il sistema della Recherche, lo stesso dell’autrice.
La tenace lettrice di Proust è dentro l’opera, la vive oltre che leggerla e, proprio come il maestro, prima di entrare nel “mondo di forme vuote”, ne subisce il fascino, si abbandona con una dolce, perversa voluttà, all’attrazione del “levigato mondo nobiliare”:
A casa nostra i saloni di ricevimento vedevano sfilare il fior fiore della società gaullista, composta di aristocratici, politici e scrittori, da Ionesco a Gombrowicz. André Malraux e Louise de Vilmorin erano degli habitué, così come Corisande de Gramont, ingegnera di prodigiosa intelligenza, nipote della contessa Greffulhe (ispiratrice del personaggio della duchessa di Guermantes), nonché figlia di Armand di Guiche (grande e fedele amico di Proust) e figlioccia di Robert de Montesquiou (modello di Charlus). Non era la vecchia Francia antisemita e ultraconservatrice dei Courvoisier, piuttosto un compromesso tra Guermantes e Verdurin.
Attraverso i dialoghi, gli oggetti e i nomi emerge potente questo mondo separato, animato da una continua pantomima mondana, dove “il non-detto e il non-visto contano molto più della parola o del gesto, sempre misurati, calcolati, teatralizzati”. L’autrice, ancora bambina e ragazzina, già vive una terribile, silenziosa separazione dal sistema bloccato e sfavillante in cui il caso, la natura l’hanno fatta nascere. La sua omosessualità è una vergogna da tenere nascosta, una specie di dettaglio al quale mai si deve accennare. Come non pensare al triste stato degli “invertiti” del piccolo grande mondo proustiano? Un marchio dell’infamia che fa del narratore addirittura una voce omofoba, forse per godere di quella libertà espressiva concessa da una preventiva condanna?
Ma poi arriva la scoperta. La lettura. Marcel Proust, già esperto cronista mondano, meticoloso entomologo che classifica quelle farfalle multicolori, che registra quelle voci che sembrano filtrare dalle tombe di Spoon River, a partire dal secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, inizia l’opera di scavo. Dopo i giorni dell’infanzia, coi personaggi che entrano nel racconto coi loro fantasmi, i loro tic, e dopo quello straordinario romanzo nel romanzo che è Un amore di Swann, parte lo smantellamento dall’interno di quella “realtà che trapela sotto il lucente strato superficiale. Questa realtà è il vuoto.”
Laure Murat naviga all’interno delle Recherche, segue il narratore mentre esplora i territori desertificati del “bel mondo”, manipolando i personaggi qua e là isterici, volgari, crudeli e meschini che si nascondono dietro le maschere aristocratiche. Non lo fa con la denuncia, ma vivendoci accanto, affrontando le trappole della seduzione che esercitano le “differenze di trattamento tra le classi sociali”. Ne svela anche l’ignoranza, la cultura limitata e dozzinale (a parte Swann naturalmente, un suo esploratore particolarmente efficiente, e il Re dei Re, il terribile barone Charlus, che si staglia come una stella luminosa sulla flotta di supernove che vanno alla deriva). Scrive nel Tempo ritrovato: “Avevo frequentato abbastanza le persone di mondo per sapere che i veri illetterati sono loro e non gli operai elettricisti”.
Da questa navigazione, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, la Murat capisce dove si trova. Prende coscienza che “Alla ricerca del tempo perduto è la più sottile e crudele critica dell’aristocrazia francese mai condotta dalla letteratura”.
Quel mondo è il suo mondo. Quei “personaggi che alla fine si rivelano tutto il contrario di come sembrano all’inizio” sono i personaggi del suo ambiente, i suoi parenti e i suoi genitori, che disvela con ritratti impietosi.
Questo era lo spazio – e la poetica – che mi offriva Proust in un solo libro: una riflessione in perpetuo divenire agli antipodi delle trite genealogie, la certezza della mia reintegrazione nel consesso umano a fronte di una esclusione dall’ambito familiare, un paesaggio dove evolversi di continuo al contrario degli immutabili soggiorni nel castello eterno. Passavo così da una lettura verticale del mondo, monolitica, gerarchizzata, autoritaria, ereditata dall’Ancien Régime e dal XIX secolo, a una lettura obliqua dell’universo, plurale, globale e a tre dimensioni. Dalla clausura all’apertura. Dal passato all’avvenire.
Arrivata al punto giusto, pellegrina e straniera, liberata e consapevole grazie all’esperienza letteraria della Recherche, Laure Murat abbandonerà per sempre il suo ambiente, rinunciando al titolo e all’eredità. Si trasferirà a Los Angeles, dove insegna all’Università, con la sua compagna.
Forse dalla commistione di analisi letteraria e autobiografia questo libro è anche una interessante novità nella sterminata critica proustiana, e si potrebbe collocare accanto a quel formidabile pamphlet senza tempo che è Marcel Proust e i segni di Gilles Deleuze.
E noi, anche da questa lettura nella lettura, capiamo che la Recherche non è un libro sull’aristocrazia, ma sulla vita stessa, e sulle persone, sulle maschere dietro cui ci nascondiamo, vivendo una vita a due dimensioni.
Uno sfregio doloroso
Però questo testo saggistico/narrativo redatto con una scrittura ricca e raffinata contiene una trappola. Mimetizzata e imprevedibile.
Marcel Proust frequentava il sordido bordello Hôtel Marigny, in rue de l’Arcade, gestito da Albert Le Cuziat, un tipo ambiguo, colto, raffinato, un “blasfemo di grande moralità” (che sarà l’ispiratore di Jupien). Mentre l’autrice descrive questa sezione del libro, commentando la diceria per cui Proust cedette i mobili di famiglia alle sale dell’Hôtel (falsa, a quanto pare li regalò a Le Cuziat, che li trasferì, con suo grande rammarico, nel bordello), il lettore ambientalista-animalista d’un tratto incappa in questo passo a pag. 185, che gli raggela il sangue nelle vene:
Le testimonianze riferiscono che all’Hôtel Marigny Proust, stentando ad arrivare a un orgasmo sostanzialmente onanistico, si facesse portare dei topi in gabbia chiedendo che venissero infilzati con spilloni da cappello, poiché solo questa messinscena gli permetteva di raggiungere l’obiettivo.
Il lettore che per trent’anni ha letto, riletto e studiato la Recherche stenta a credere ai suoi occhi. Non intende dare nessun giudizio morale, ognuno è libero di fare ciò che vuole di se stesso, del proprio corpo. Può praticare il sadismo, il masochismo (ma sempre con partner consenzienti), il voyeurismo, l’onanismo, e nulla di tutto questo incide sulla sua dignità e sulle sue opere. Conosce e approva il Contre Sainte Beuve, il libello nel quale Proust teorizza la separazione dell’opera dal suo autore. Ma provocare dolore e una morte atroce a creature innocenti e indifese per il proprio piacere è ignobile, un atto di assoluta vigliaccheria.
Tutta l’impalcatura trema. Dov’era il narratore, sensibile, poetico? Dov’erano i segni dell’arte? E le madeleine? Nel sangue e nei contorcimenti di quei topi in gabbia?
Il trentennale lettore ambientalista-animalista cerca una soluzione. Questa scena non può, non deve interferire con la maestosità dell’opera, non ha il diritto di infangarla. E’ una miseria del suo autore. Casomai occorre cancellare quella forma di adorazione verso il genio, che fa dei proustiani non dei semplici lettori, ma dei devoti. Disapplicando, di fatto, proprio il Contre Sainte Beuve. Oppure “perdonando” chi, come Hemingway, uccisore seriale di leoni, elefanti, rinoceronti, a un certo punto, avvelenato dalla violenza che si portava dentro, ha rivolto il fucile contro se stesso, raggiungendo le sue vittime. Così Proust, torturato dal suo demone fin dall’infanzia, è stato costretto ad ammalarsi di un’asma letale che lo ha portato a una morte prematura.
O ancora, consolarsi con la possibilità che quelle “testimonianze” siano in realtà maldicenze prive di fondamento, come il Rimbaud trafficante di schiavi, per il quale non esistono indizi certi. Purtroppo se a riportarle è Laure Murat, c’è il caso che siano attendibili.
Infine, il lettore devoto dopo una sofferta riflessione può concludere che, proprio grazie alla sua disperata, sadica perversione, l’uomo di nome Marcel Proust, ha potuto creare il suo capolavoro, prima della fine.
Ma che delusione però. Che dolore. E che rabbia, per l’amara consapevolezza che, dopo quella lunga, esaltante avventura letteraria, nulla sarà più come prima.
Grazie. Agghiacciante. Anche se non sono mai stato un devoto proustiano — non sono riuscito a finire le Fanciulle in fiore — non avrei immaginato. D’altra parte mi dico che chissà quante celebrità nascondano orrori Se poi mi guardo dentro e penso alla mia adolescenza tremo al ricordo di certi pensieri.
Da sempre vengono uccisi dagli uomini miliardi di animali, ogni giorno .
Per alimentazione, per fabbricare capi di abbigliamento, per esperimenti , etc .
Sempre in modo crudele (ne esiste un altro ?).
E allora ?
L’umanità non animalista e non vegana/vegetariana si dovrebbe vergognare per questo e non fare finta di indignarsi per quel che ( forse ) faceva Proust.