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Supereroi


di Gianluca Veltri

I.
Il giorno che Renzo Pasolini e Jarno Saarinen persero la vita in un incidente motociclistico a Monza, era in programma una partita non memorabile del Cosenza allo Stadio San Vito. Serie C, Girone C. Solito andirivieni tra serie minori. Alla radio, prima di sapere il risultato dei Lupi rossoblù del Cosenza, bisognava aspettare che terminassero servizi, interviste e classifiche di tutto il resto. Solo alla fine scoprivi cos’era successo in qualche remoto campo della Sicilia o della Campania. Faceva già un caldo inumano, quel 20 maggio del 1973. Il primo caldo di quella stagione di estati arroventate, lunghe come ere.
Ma non sarà per questo se quel giorno non lo scorderò più.

Il prequel del calcetto su asfalto.
Dunque siamo nel 1973. Le partite, di domenica (mattina) io le giocavo, mica le guardavo. Era un sistema di gioco antesignano del futuro calcetto. Noi lo chiamavamo semplicemente pallone. Si era in dieci-dodici in tutto. Quando si era dispari, per comporre due compagini equilibrate vigeva il perfetto Manuale Cencelli, nel frattempo applicato assai felicemente in altri campi. La mia squadra si chiamava Boca Juniors, perché quella nostalgia di Sudamerica ti si attacca addosso appena hai un pallone tra i piedi. Non puoi farci niente. Giocavamo dentro i cortili e sui marciapiedi, eravamo animali da cemento, nelle nostre città di provincia uscite dal boom e piombate nell’austerity. Ometti da asfalto, come Jon Voight, che qualche anno prima aveva interpretato il memorabile film Un uomo da marciapiedi. Lo immaginavo come un eroe solo, triste e abbandonato nelle enormi strade di metropoli americane in cui tutti erano infelici e smarriti.
Il campetto in cui più sovente si giocava la domenica mattina, di suo non era neanche un campetto. Delimitato da un lato dalla scuola elementare, aveva reso necessaria la regola numero uno: divieto di battimuro. Se la palla urtava all’edificio della scuola, era fallo laterale. I confini dell’area di rigore erano elastici e assai incerti: pertanto, frequente motivo di contesa era il cosiddetto frichìcchio, ossia l’intervento di mano del portiere fuori dalla propria (presunta) area. Nemmeno la porta era delimitata in modo certo, né in altezza né in larghezza, la traversa era una sbarra soltanto immaginata. I calci d’angolo non si battevano, ma si accantonavano, si rateizzavano, in base alla regola tre corner un rigore.
Era stata una domenica mattina come tante altre, di un tempo compatto e senza incrinature.

II.
La Tribuna B dello Stadio San Vito era sovraeccitata e accaldata, il 20 maggio del 1973. In quel pomeriggio ch’era un cerchio di fuoco, cominciò a scivolare untuosa come un contagio la notizia di un gravissimo incidente al Gran Premio delle Nazioni di Monza. Non ero appassionato di motociclismo, ma quel giorno lì si capì che era accaduto qualcosa che non si sarebbe dimenticato facilmente. Si percepì immediatamente un impatto col destino.
Era un giorno ormai così remoto nel passato che, per farvi un’idea, nel Palazzo della Moneda a Santiago del Cile, a capo del governo, c’era Salvador Allende. E, per restare in Italia, l’Italicus era solo un treno, e Ustica ancora un’isola. Non c’era stato ancora l’omicidio di Pasolini – Pier Paolo. Già, avevamo ancora due Pasolini, e di lì a poco non ne avremmo avuto più neanche uno.
L’altro Pasolini era Renzo, detto Paso.

Paso e Jarno nella giostra di fuoco.
Motociclista romagnolo funambolico, talento e simpatia, pure lui portava occhiali con la montatura scura che non passavano inosservati. Paso era la faccia opposta di Ago. Renzo Pasolini e Giacomo Agostini. Uno creatività sul filo del rasoio, l’altro regolarità a prova di rischio. Diciamo che Ago era mainstream, Paso più alternative, anche se allora non si diceva così.
Jarno Saarinen era un finlandese coi baffi, biondi. Astro in grande ascesa. Era ingegnere, al seguito aveva sempre una bellissima moglie, bionda come lui. Saarinen aveva vinto tutte e tre le gare precedenti della 250, quell’anno. Al Gran Premio delle Nazioni di Monza partiva per fare il poker. Sembrava la sua grande stagione. Erano due campioni, Jarno e Paso. Non sapevano che da quel giorno in poi i loro nomi si sarebbero avvinghiati – Pasolini e Saarinen – e avrebbero viaggiato per sempre insieme. Da quel giorno in cui nacque la locuzione tragedia di Monza. Erano le 15.17 quando a mille chilometri da dov’ero io, in una domenica placida e sudaticcia della mia infanzia, si scatenava una giostra infernale di fuoco e motori. Come poi si appurerà, prima della tragica gara delle 250 s’era disputata quella delle 350. L’aveva vinta Agostini (il rivale di Paso). Verso la fine della gara, la Benelli di Walter Villa comincia a perdere olio. Renzo Pasolini, che gareggia anche nella 350, si è appena ritirato per un grippaggio. Schiumando di rabbia, si apparta per prepararsi alla competizione seguente. Non saprà mai, se non quando sarà troppo tardi, che l’olio perso dalla moto di Villa ha trasformato il celebre finto curvone di Monza, incubo dei piloti, in una specie di vasca cosparsa di bagnoschiuma. Lo sanno invece quelli che hanno corso la 350 completando la gara e che si apprestano alla corsa successiva, ma anche quelli, come Jarno Saarinen, che si preparano semplicemente per la 250. L’unico tra tutti i piloti a essere ignaro della situazione è proprio Renzo, perché si è ritirato a tre giri dalla fine, quando l’olio fatale non aveva ancora cominciato a sgocciolare. Non poteva dirtelo qualcuno, Paso? In molti cercheranno di indurre l’organizzazione a porre rimedio, ma senza risultato. Si corre.
Da quando parte la gara, è questione di secondi. Renzo è un morto che cammina, anzi, un morto che corre, in sella alla sua Aermacchi HD. Già al primo giro, affrontando il curvone a 250 chilometri all’ora, Pasolini si vede la ruota davanti slittare via su quella sorprendente pozza d’olio. Non sapremo mai cos’ha pensato. Che tradimento avrà ricostruito in pochi secondi. O forse i piloti lo sanno, che la loro partita con la vita si gioca su un bordo sottile. E quando arriva il momento lo capiscono, e dicono: “ecco, è arrivato”, come un appuntamento a lungo temuto ma previsto, e non fanno polemica. Forse, col suo senso dell’umorismo, Pasolini avrà avuto il tempo di formulare una battuta, mentre la moto gli scivolava via, e insieme a essa la vita. L’Aermacchi diventa una belva impazzita, va fuori pista e si infrange contro una barriera di balle di paglia poste davanti al guard rail. La paglia prende fuoco, Pasolini è uno straccio o forse un missile, ma non è più Paso. Morirà di lì a poco. La sua moto, rimbalzata sul guard rail, s’impenna da sola come un cavallo rimasto senza cowboy e torna indietro. Vola verso la pista. È questo il ricordo più inverosimile che nei servizi della sera prese posto per sempre nella mia coscienza. La moto che vola. Renzo, inconsapevole del rischio che correva, è andato a morire. La sua Aermacchi volante colpisce in piena faccia, come un gigantesco proiettile, Jarno Saarinen, che sta sopraggiungendo nel curvone. Il finlandese, che è in piedi sulla moto perché ha intravisto qualcosa che non va, viene scalzato dalla Yamaha. Anche lui piomba nell’aria, che poi lo ributta sull’asfalto. È il suo ultimo volo. Verrà schiacciato e straziato, quasi certamente ancora vivo, dagli altri corridori, alcuni dei quali suoi intimi amici, che gli passano sopra. Nel curvone è un rogo di fiamme e fumo, moto sventrate, feriti e morte, caschi spaccati. L’asfalto bollente è come una prateria dopo una mattanza. Un’apocalisse di motori, carburanti e corpi. Tutti i piloti arrivano al curvone e cadono, inghiottiti da quella congerie di fuoco, pezzi meccanici e uomini.
Poi è silenzio. Renzo e Jarno non ci sono più. Vite brevi di piloti, come un soffio che va via, mentre ancora sei lì con le labbra che pensi di soffiare. Fino a un attimo prima correvano sulle loro moto, erano calore e potenza. Adesso sono carne senza la vita dentro. Non vedranno l’estate che comincia, non vedranno altre estati. Sono morti sulle loro moto per una striscia d’olio. Tutta questa dinamica, giunta in modo concitato e oltremodo approssimativo al San Vito, prima che cominciasse l’inutile partita del Cosenza, sarà chiarita soltanto dopo il ritorno a casa, la sera. Alfredo Pigna alla Domenica Sportiva pose una pietra tombale sugli eventi.

III.
Come spesso accade a tutti quelli che muoiono quando tu sei ancora piccolo, ancor più se la loro morte è circondata da un’aura fosca tragica e grandiosa, Pasolini e Saarinen diventarono da subito per me una coppia di angeli premurosi, costipati per l’eternità nelle loro corazze, un poco intristiti e ingrigiti dalla polvere, ma rassegnati al proprio ruolo. A una morte per loro prematura, che per me era una sorta di copione in un romanzo di formazione.

Supereroi.
Non poteva esserci invece rassegnazione per un amico – o forse solo conoscente – di mio padre, il cui figlio ventenne, in quella stessa estate del 1973, volò come Saarinen dieci metri in aria dopo uno schianto con la sua moto, e precipitò sul cofano di una macchina come da un palazzo, cencio senza vita. Mi pareva di sentire nella testa quello stridio sinistro, il tentativo vano dell’ultima frenata, lo spaventoso schianto di quel corpo di ragazzo sulle lamiere. Vedevo suo padre e mio padre che parlavano accorati, io tenuto a distanza di sicurezza per essere tutelato da discorsi troppo gravi. L’amico, con gli occhiali scuri a nascondere occhi prosciugati, racconta la dinamica fatale e apre il consueto rosario dei rimpianti. Bastava un metro prima, la mamma non voleva, poteva passare un minuto dopo, gli ho comprato la morte. Il suo volto è pieno di rughe, quello di un uomo divenuto vecchio in un giorno, che attende la fine. Condannato alla vita, mentre suo figlio non c’è più.
E vedo mio padre ancora giovane – lui solitamente spavaldo e rubizzo –, che invece ora è pallido e silenzioso, con lo sguardo immoto e smarrito, che mi prende per un braccio e in silenzio mi trascina a casa, come per portarmi – e portarsi – in salvo, lontano, a un’impossibile distanza di sicurezza, e mi stringe più forte del solito. La sua stretta, che già normalmente non è tenera, è come una morsa. Di sollievo e di terrore. Ha spiato sul ciglio del baratro. Io penso a quel povero giovane che si apprestava a un’estate di vento sulla sua moto, e penso al curvone di Monza, immagino lui e rivedo Jarno e Renzo angeli nell’inferno di fuoco.
Una nuova meravigliosa estate silvana mi attendeva. Un’estate di pigne e castagni, felci e farfalle, capanni costruiti sugli alberi. Un’estate di pallone e corse, sudore e biciclette, cadute, ginocchia sbucciate. Jarno Saarinen e Renzo Pasolini li avrei inseriti nelle mie telecronache immaginarie. Li avrei sistemati – insieme al giovane che non avevo mai conosciuto, un po’ più defilato – come martiri e eroi di un pantheon infantile e sportivo. Quasi non avessero mai vissuto una vita vera. Quasi che il loro scopo sulla terra fosse stato quello di diventare, un giorno, un capitolo della mia fantasmagoria. Quasi non fossero mai stati uomini in carne e ossa, ma supereroi.

a Marco Simoncelli

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4 Commenti

  1. @Aleardo. Ti ringrazio molto. Penso comunque che la morte, la perdita, la paura dei padri, la prima infanzia, continuino in fondo a essere cose vere, anche oggi. Il “frichìcchio” però non lo sento più nominare da anni. G.

  2. Ho letto tutto d’un fiato, un tuffo nei ricordi mentre sto con una gamba rotta dopo il mio ultimo incidente di moto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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