Il rosso e il nero d’America #1
di Giuseppe Zucco
Il rosso: Into the wild – Nelle terre selvagge (Sean Penn, USA, 2008)
È un film on the road, quello di Sean Penn, e viene da lontano. Non affonda le radici nella storia del cinema, ma nella letteratura, nei libri che hanno raccontato e dispiegato la potenza di un mito: quello del viaggio verso l’ignoto, della scoperta di un mondo sconosciuto e selvaggio.
Ovviamente, sfogliando il catalogo della letteratura mondiale, non si trova dappertutto un mito del genere. Questo modo di raccontare il destino di un uomo, di metterlo alla prova, di fargli saggiare le asprezze della vita e la diramata estensione dell’esistenza, abita dentro i confini di una visione del mondo senza eguali: quella angloamericana. Nella letteratura esplosa tra le mani e la mente degli scrittori angloamericani – anche di Conrad, uno scrittore polacco che aderì alla sintassi e alla sonorità della lingua inglese – il viaggio, soprattutto la fuga, sono temi portanti. C’è prova di questo perfino in un romanzo come Furore, di Steinbeck, che vede muoversi un popolo intero da una parte all’altra dello smisurato paesaggio americano.
Del resto, la fuga non ha nulla di negativo. È un modo per mettere alle strette il presente, una mossa astuta per spingere il destino verso i propri desideri, un movimento risoluto dentro la possibilità e le occasioni che il mondo concede. In definitiva, la fuga è un atto di creazione. “Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni” – scrisse Gilles Deleuze – “non c’è niente di più attivo di una fuga”. E subito dopo, continuando il suo ragionamento, Deleuze aggiunse: “Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia. Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata. La letteratura angloamericana mostra in continuazione queste rotture, questi personaggi che creano la loro linea di fuga, che creano attraverso linee di fuga. Thomas Hardy, Melville, Stevenson, Virginia Woolf, Thomas Wolfe, Lawrence, Fitzgerald, Miller, Kerouac. Qui tutto è partenza, divenire, passaggio, salto, demonio, rapporto con il fuori.“
Sean Penn è l’erede di tutto questo. Kerouac si sarebbe commosso per Into the wild. Per la storia di questo ragazzo, auto-ribattezzatosi Alex Supertramp, il Super Camminatore, che molla tutto, slaccia i legami familiari, e parte. Destinazione: Alaska. Per molti versi, tutto sembra già sentito. Ma Penn ha la capacità di rinnovare e riformulare un archetipo narrativo. In fondo, molte utopie che avevano nutrito quella letteratura si sono dissolte, e negli anni ‘90 – gli anni in cui avvenne davvero la storia di Christopher McCandless – non si viaggia più per il piacere di viaggiare, ma per raggiungere un obiettivo, sia pure il nord selvaggio e ghiacciato dell’Alaska.
A guardare bene, è un viaggio di iniziazione senza ritorno. Alex assaggia il mondo, senza intuirne le leggi che lo governano. Si spinge in avanti, discostandosi da ogni legame. Una coppia di hippies lo guarda come un figlio, una ragazzina scopre in lui l’amore che incendia, un vecchio alla Cormac McCarthy – un altro grande scrittore americano di fughe e confini superati – lo accoglie come un nipote. Ma Alex rifiuta tutto per l’avventura. Solo in mezzo al nord selvaggio e solitario, poco prima di lasciarci la pelle, capisce che niente è la felicità se non è condivisa.
E il viaggio di iniziazione poco per volta diventa per noi spettatori qualcosa di più potente ancora: un’allegoria, una storia-totem, un’immagine-guida. Ricostruisce l’utopia della comunità ed il mito della condivisione, quando ormai la storia recente li dava per morti e sepolti. Riaggancia l’uomo alla natura, con tutti i rischi che ciò comporta, poiché la natura – rispetto ai libri che Alex legge – è molto più complessa e variegata. Sfonda la morale, che inchioda gli uomini sul posto (i genitori di Alex), creando barriere tra di loro, e fonda un’etica, una visione dell’esistenza in cui la relazione tra gli uomini è basata sulla condivisione ed è annodata indissolubilmente al territorio che gli esseri viventi esplorano, percorrono, abitano. Se Alex Supertramp fosse sopravvissuto al viaggio, avrebbe sperimentato tutto questo. Ma non ci è riuscito. E tocca a noi, allora. Tocca a noi fare di questa pellicola il testamento di Christopher McCandless. Morendo nella sua personalissima avventura, ci ha nominato suoi legittimi eredi.
[Pubblicata, a suo tempo, su SentireAscoltare]
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L’Odissea senza ritorno. Nostos anòstimos.
La cosa commovente della storia è l’ostinazione con cui alcuni (Penn, Krakauer) si sentono chiamati a dare risposte, giustificazioni, seguire il cammino del ragazzo, raccontandolo e interpretandolo, come se fosse un loro proprio destino. Credo che, leggendola attraverso la letteratura, la vicenda di Chris sia un mancato Richiamo della foresta, o un London in negativo. Certo là c’è un cane e qua un ragazzo. Là c’è una violenza originaria e uno smarrimento, una necessità, mentre qua c’è un desiderio, una fascinazione, un’inquietudine che non ha considerato che le radici non si mettono in aria, non escono dalla testa, ma vanno verso il suolo. La terra incognita di McCandless, nel film forse lo capisce verso la fine, non è una scoperta, ma un recupero, che deve per forza passare attraverso tutto quel doloroso apprendistato, quei vincoli di amore e perdita che conosce Buck prima di “tornarsene” al puro istinto lupesco. Ma London ci aveva vissuto in quelle terre di cui scrive, ci aveva lavorato. Chris era solo un ragazzo, un Icaro con un sogno di cera. E’ questo che ci tocca. Il bisogno di radici che muove ad ogni viaggio, di riconoscimento. La vera novità è sempre il ritorno, e spesso si rischia di saperlo troppo tardi.