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Il Diavolo

 di Gianni Biondillo

Proprio qua dietro a Palazzo Acerbi, in corso di Porta Romana al 3, abitava il Diavolo. Così dice la leggenda. Che è in realtà una maldicenza nata durante la peste del Seicento, quella di manzoniana memoria. Sta di fatto che il Diavolo è tornato in questo quartiere, lunedì, alle otto di sera, e ha compiuto la sua esecuzione, con spietata professionalità. Decido di passarci, non so bene perché. Arrivo in via Muratori il giorno appresso, con la scusa di un caffè. Lego la bicicletta e osservo una scena surreale: telecamere e giornalisti vagano frustrati, attendendo come in una pièce di Beckett che accada qualcosa. Ma è già tutto successo, sotto gli occhi di tutti. Mi dicono che ieri sera i ragazzi della movida, i passati, gli abitanti del quartiere si assiepavano dietro le fettucce che delimitavano la scena del crimine. Molti i testimoni, pronti a parlare. Uno è ancora qui, oggi, abbigliato come avesse appena terminato una partita di tennis (vengo poi a scoprire che è un istruttore), che ripete di continuo la sua versione dei fatti: “ho visto due persone, su una moto sportiva, casco integrale, vestiti di scuro.” Telecamere e cronisti gli si accalcano attorno, fanno domande, lui ripete con educata stanchezza le stesse identiche cose, curiosamente gli unici che non l’hanno ancora interrogato sono proprio gli inquirenti. Qualcuno mi chiede cosa ne penso, quali sono le mie ipotesi, come se l’aver scritto dei gialli nella vita mi dia d’ufficio particolari competenze tecniche – capace quasi di immergermi nella mente del criminale, o chissà quali altre romantiche sciocchezze -, ma quello che ho imparato in questi anni è che ognuno deve fare il suo mestiere. Io racconto storie, capire cos’è successo è cosa di poliziotti e magistrati, non mia.

È altro che mi colpisce. Sono arrivato qui in bicicletta, districandomi nel traffico urbano. Se non sapessi con assoluta certezza che meno di ventiquattro ore fa su questo marciapiede s’è consumata una tragedia neppure me ne renderei conto. Milano indifferente continua a vivere. Il traffico non si ferma, le persone continuano a camminare cellulare alla mano. Entro in un bar, pochi metri più in là, ordino un caffè. Una copia del Corriere è sul tavolo, ma nessuno che legga le pagine di cronaca. Tutti hanno qualcosa da fare. A parlare con chi abita qui, più che omertà – molti hanno collaborato fornendo descrizioni – o indifferenza, c’è un diffuso stupore: “queste cose qui non sono mai successe” continuano a dirmi. Dimostrando un pregiudizio involontario. Non accadono qui, che siamo in Centro, perché queste cose succedono, dovrebbero succedere, da altre parti, dove ci sono i cattivi. Ma il Diavolo abitava qui, ripeto, dal 1630. In questo quartiere cantato già con nostalgia, ma senza sconti, dai Gufi negli anni Sessanta: “Porta Romana bella, ci stan le ragazzine che te la danno…”

La politica della paura negli scorsi anni voleva militalizzare le periferie, se l’era presa con i negozi di kebab o di money transfert, aveva messo il coprifuoco proprio dove abito io. Perché, si sa, è lì che alligna il male. Ora ha già cambiato idea. Alza il tiro, con quella grevità becera che non aiuta a leggere il territorio. Paragona Milano a Scampia, comparazione indegna per entrambe le realtà che non spiega né risolve nulla. Perché l’omicidio di lunedì scorso ci dice ben altro.

Quello che abbiamo scoperto è che nessuno è davvero al riparo. Si può morire a qualunque ora del giorno, dappertutto. Si può morire nel centro di una metropoli, quale è Milano, o, come è accaduto in Alta Savoia, sulle amene rive di un lago alpino. Il Diavolo abita ovunque. Anche qui. Esco dal bar. A pochi metri dal luogo del delitto una libreria espone un’intera vetrina di gialli scandinavi. Fettucce di plastica gialla, quelle che delimitano le scene dei delitti, ornano la vetrina con involontario pessimo gusto. Fanno tenerezza questi omicidi di carta, concilianti, indolori, consolatori, completamente avulsi dal mondo vero che fingono di raccontare. Pochi passi più in là, al numero 3 di via Muratori, il sangue è stato lavato, restano a terra pallidi cerchi fatti col gesso dalla scientifica. “Chi è stato?” mi viene chiesto. Non lo so, insisto. Scerbanenco comunque non avrebbe dubbi: i milanesi ammazzano al sabato. Ieri era lunedì, è sicuramente gente che viene da fuori. Poi lo vedo. Un fiore, legato con un nastro sull’archetto metallico. Un piccolo anonimo gesto di pietà, per le vittime e per la bambina sopravissuta, vittima anch’essa. Quello che cercavo (dove c’è il Diavolo c’è sempre un Angelo): il segno che Milano, anche se di corsa, non sa essere indifferente. Mai.

(una versione più breve è apparsa ieri sul Corriere della Sera – Milano)

 

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5 Commenti

  1. Ma è l’indifferenza che colpisce! A Bari si spara pure in mezzo alla folla, magari in zone un po’ non troppo periferiche e il sindaco ha detto – udite udite – che la criminalità si sta accordando con i nuovi politici…una frase a effetto per un fenomeno certamente ripugnante che avrebbe fatto saltare sulla sedia chi sa quanti! Invece niente, nessuna reazione, tutti zitti, le armi tacciono, per un po’ poi riprenderanno, si vedono i falchi girare in moto, riconoscibilissimi, e si tira avanti, senza scandalo…oh dico hanno sparato alle 19, in mezzo alla gente, con morto…niente, come nulla fosse!

  2. Certo che il livello di chi scrive sul Corriere è calato: quanta retorica buonista, ovviamente spruzzata di razzismo ed esaltazione della gran milàn, anche quando è chiaro a tutti che Milano è esattamente come le altre metropoli d’Italia (affollata, sporca, criminosa e a cazzi suoi). Bah.

  3. Da meridionale secondo me questo articolo dice:
    1 – militarizzare le città non serve.
    2 – pensare che la criminalità stia solo in periferia è un errore.
    3 – una metropoli non è necessariamente più pericolosa di un paese alpino. Nord o Sud non fa differenza.
    4 – questo non è un delitto d’impulso ma c’è di mezzo la criminalità organizzata internazionale.
    5 – il pregiudizio di una Milano indifferente è errato. Non è meglio o peggio di altre.
    6 – bisogna avere pietà per le vittime.
    Il razzismo l’ha visto solo Francesca.

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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