Note sull’influenza della Neoavanguardia italiana

[Testo scritto su invito in occasione dell’incontro “Identità concettuale e dilatazione dell’istante”, Tokyo University of Foreign Studies, Tokyo, 4 Ottobre 2010]*

di Lorenzo Carlucci

Ho letto la Neoavanguardia italiana molto tardi, e non troppo. In compenso ho letto le Avanguardie Storiche molto (troppo) presto e molto (troppo?). Forse anche per questo motivo, tendo a percepire il lavoro della Neoavanguardia come un approfondimento – forse necessario – e una continuazione – forse ineluttabile – delle istanze delle Avanguardie Storiche e dei campioni del Modernismo. Da questo punto di vista non giudico il lavoro della Neoavanguardia italiana particolarmente originale o innovativo dal punto di vista artistico (piuttosto che culturale o comportamentale) e sullo sfondo della storia della letteratura mondiale, o anche soltanto europea.

Che l’opera di aggiornamento culturale costituisca uno dei meriti maggiori e meno discutibili della Neoavanguardia è opinione comune ed è ampiamente testimoniata nel volume Il gruppo ’63 quarant’anni dopo (Pendragon, 2005, da ora in poi citato come 2005) che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Bologna nel 2003. Già nella Prefazione all’edizione dei Novissimi del 1965 (da qui in poi citata come 1965), Giuliani esprimeva la sua soddisfazione a riguardo: “L’operazione ci ha condotto nel mezzo dei movimenti di punta che agitano la letteratura in altri paesi”. Scrive Angelo Guglielmi quarant’anni dopo: “[…] ritenemmo (e lo facemmo), che fosse necessario aprire le nostre lettere, fin lì chiuse in un provincialismo non più pregnante, alle grandi correnti del pensiero moderno, dalla psicanalisi, alla fenomenologia alla teoria della relatività di Einstein, dallo strutturalismo alla semiologia, al formalismo russo, alla Scuola di Praga, alla linguistica che oltralpe, in Francia, in Germania, in Inghilterra, erano da tempo vive e operanti e avevano condizionato e nutrito i grandi capolavori della modernità dalla Waste Land di Eliot, ai Cantos di Pound, all’Ulysses di Joyce, all’Uomo senza qualità di Musil, al Processo di Kafka, alla Ricerca di Proust. Questi e molti altri appartenenti alla stessa temperie culturale erano i testi che allora leggevamo e tenevamo a modello” (Angelo Guglielmi, 2005).

Un paradosso: a rinforzare la mia impressione della scarsa originalità letteraria della Neoavanguardia ha contribuito il fatto che la prima sinossi della letteratura italiana contemporanea nella sua interezza l’ho avuta proprio attraverso la lettura dell’antologia a cura di Sanguineti (Poesia Italiana del Novecento, 2 voll., Feltrinelli, 1969). Il paradosso è presto sciolto: in un’opera costruita da un novissimo, i Novissimi devono necessariamente apparire ultimi sulla scena come corollari di un teorema che abbraccia cento anni di storia letteraria e la cui dimostrazione è condotta da Sanguineti con grande rigore e consequenzialità. Per lo stesso motivo gli ultimi appariranno come frutti un po’ scipiti di un albero in declino, se confrontati con i padri che proprio loro si sono scelti come padri.

Chi chiude un’epoca merita certo un particolare rispetto, ma è pure chiaro che i Novissimi non sono stati la prima generazione che abbia vissuto con la coscienza di chiudere un’epoca, se è vero che questa coscienza caratterizza infatti gran parte della produzione letteraria e filosofica del Novecento in Occidente. Gli stessi membri del Gruppo 63 non ne fanno mistero. Scrive Giuliani nel 2005: “mi sentivo circondato dall’orizzonte che Alberto Savinio […] aveva già descritto nella Fine dei modelli, un testo del 1947”, e già nel 1965 scriveva: “È vero che la tradizione a cui si richiamano i “novissimi” non è nata ieri, ma è altrettanto vero che oggi non è ancora morta” (Giuliani, 1965). La coscienza di aver giocato un ruolo fondamentale nell’aggiornamento della letteratura italiana rispetto alla letteratura del resto dell’Europea e del mondiale è sempre accompagnata dalla consapevolezza del fatto che il paradigma culturale con il quale ci si stava mettendo al passo non era esattamente ‘novissimo’. Esemplare è qui quanto scrive Giorgio Celli parlando del ‘parasurrealismo’ di Malebolge. “Il nostro paese non aveva potuto vivere l’esperienza surrealista […] Si poteva far qualcosa per colmare questo gap culturale?” La risposta è chiarissima: “[…] non era più lecito essere dei surrealisti in senso proprio, se negli anni Sessanta Breton era ormai un fossile storico. […] Volevamo, insomma, rivisitare da filologi, e riprodurre da falsari, la poetica e i metodi del surrealismo storico” proponendone “una rilettura, in chiave, per così dire, manierista”.

Se è dunque vero che – come illustra in modo abbastanza convincente Umberto Eco nella sua Prolusione al convegno di Bologna – il Gruppo 63 ha contribuito a smuovere la società letteraria italiana dalle posizioni di realismo (comunista) e di idealismo (crociano), è pur vero che, nell’inevitabile appiattimento di prospettiva che è proprio di chi osserva la situazione a distanza di cinquant’anni, la novità e l’originalità delle istanze del Gruppo 63 si trovano ad essere percipite in modo assai attenuato, e non sembra difficile considerare le “rivoluzioni” di quegli anni e degli anni successivi come espressioni di una naturale e salutare alternanza in una Repubblica delle Lettere democratica. Sembra molto difficile argomentare la radicale originalità o novità dei Novissimi in un panorama più ampio.

Curi delinea bene l’orizzonte (o il perimetro?) culturale della Neoavanguardia. “Ben maggiore rilevanza e una più diretta incidenza hanno le esperienza teoriche prodotte dalle avanguardie straniere o da singoli autori impegnati in un arduo lavoro formale: Espressionismo, Dada, Surrealismo, per un verso; Eliot e Pound, per un altro verso; Majakovskij e Brecht, per un altro verso ancora”. “[…] la cultura dei ‘Novissimi’ […] si fonda in larga misura su opere di filosofia, di etnologia, di antropologia culturale, di psicoanalisi, di linguistica, di semiotica e perfino di fisica e di economia, e che fra gli autori più frequentati, per citare solo i maggiori, sono Marx, Freud, Jung, Saussure, Gramsci, Husserl, Heidegger, Wittgenstein, Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Derrida.” (Fausto Curi, La poesia italiana d’avanguardia, modi e tecniche, Liguori, 2001).

Vorrei prendere le mosse da questo canone della Neoavanguardia (per me seriamente difettoso e mutilo) per indicare alcune ragioni più profonde e teoriche che danno la misura della distanza della mia poetica da quella della Neoavanguardia. La cosa mi sta a cuore in quanto alcune delle idee qui sotto discusse hanno ancora una diffusa influenza e un nutrito seguito nella poesia contemporanea.

Nella poetica della Neoavanguardia trovano espressione alcuni dei limiti della corrente culturale che va dall’idealismo hegeliano alla semiotica, passando per il materialismo storico, lo strutturalismo, la fenomenologia, il neopositivismo, il nuovo marxismo, e via dicendo.

Se la “prevalenza della poetica sull’opera” è una caratteristica di ogni avanguardia, questa assume nel Gruppo 63 una  connotazione particolare, in cui mi sembra di poter riconoscere una impronta neopositivista (se non positivista!). Tale mi pare la radice della assoluta fiducia nel metodo come fonte inesauribile di regole di produzione di opere. Dopo aver accennato ai movimenti d’avanguardia del primo Novecento, Giuliani scrive (nella Prefazione ai Novissimi del 1965): “Questi metodi non hanno esaurito la loro funzione”. E più avanti: “Perciò è tanto importante il metodo; e nuove applicazioni, correzioni anche infinitesimali, possono darci poesie nuove” (Giuliani, 1965). La fiducia di Giuliani sembra essere ancora condivisa da alcuni scrittori odierni, e penso in particolare ai membri del gruppo GAMMM, che più di tutti in Italia si situa consapevolmente nel solco della Neoavanguardia (un gruppo, non a caso!). Nel lavoro di questi autori si può rilevare una preminenza dell’aspetto metalinguistico, metatestuale, formale, teorico della poesia, a discapito di altri aspetti. La prosa di questi autori è caratterizzata dal metalinguismo, dall’autoreferenzialità, dall’uniformità di tono, dal ricorso alla reiterazione e alla serialità dei moduli espressivi, dalla frammentarietà, dal rifiuto del concetto e del giudizio formati, dall’uso di un certo lessico scientifico e tecnico. Alcuni di questi eredi della Neoavanguardia sembrano incorrere in ciò che Dorfles, già nel 1964 e in un volume dedicato proprio al Gruppo 63, chiamava “ipertelia”: “Un fenomeno opposto, ma analogo, è quello che potremmo definire dell’ipertelia; quando, cioè, non sia più l’impiego di tecniche superate, di forme artistiche usurate, ad aver luogo, ma anzi l’uso di una tecnica nuova e pressoché inedita, sperimentale dunque, di cui si esageri la funzione, si esalti la finalità. Assisteremo allora al fenomeno opposto a quello dianzi rammentato: opere inesistenti o addirittura fallite per un’esagerata volontà di raggiungere a tutti i costi un fine che è al di là delle loro possibilità, basate esclusivamente sull’impiego esacerbato d’accorgimenti meccanici, senza che, in questo caso, siano accompagnati da un’autentica carica creativa. […] Al pericolo della retroguarda camuffata da “depositaria d’una nobile tradizione” si contrappone il pericolo della falsa avanguardia instauratrice à tout prix d’una ipertelia tecnicizzata e mistificante.” (Gruppo 63, la nuova letteratura/34 scrittori/Palermo ottobre 1963, a cura di Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, Feltrinelli, 1964).

Tra le eredità più fruttuose della Neoavanguardia molti annoverano proprio “lo stretto rapporto di interdipendenza organica e di interazione continua tra momento critico e momento espressivo” (Bettini, 2005). Sanguineti si difende dall’accusa di produrre teorie e non opere sottolineando la novità di queste nozze tra momento critico e momento teorico: “questi testi erano portatori di posizioni teoriche strettamente collegate, come non accadeva da tempo” (Sanguineti, 2005). Ora, a ben vedere, lo stretto rapporto di interdipendenza tra momento critico e momento teorico non è affatto una novità in letteratura, bensì una costante nella storia della letteratura universale. La differenza sta piuttosto nel fatto che non sempre i due momenti sono riuniti nello stesso soggetto, e – sopratutto – che non sempre si è voluto esibire la presenza della teoria all’interno dello stesso testo letterario.

Mi sembra che questa necessità di esibizione dell’autocoscienza sia un’espressione della matrice materialista e marxista (e finalmente idealista!) della Neoavanguardia. La natura “critica” del soggetto e della mimesi devono essere sempre evidentemente esibite nel testo e ribadite ad ogni pié sospinto (“la «riduzione dell’io» a soggetto critico, utente e antagonista di condizioni storiche determinate” (Giuliani, 2005), la “poesia quale mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato” (Giuliani, 1965)). Chi ha riconosciuto “il primato della struttura, dell’invenzione linguistica, sui singoli materiali o momenti del linguaggio” (Giuliani, 1965), richiede pure che questo primato sia esibito nel testo: “la struttura deve essere esibita nella sua eteronomia” (Giuliani, 1965). Questa pretesa è per me profondamente errata e fondata su una concezione errata del linguaggio e della comunicazione.

Leggiamo il seguente passo d’apertura della Prefazione del 1965 di Giuliani ai Novissimi. “Se è vero ciò che scrisse George Bataille che l’arte moderna è necessaria perché ci conosce e «ci rumina», il lettore avrà magari ragione di resistere a tale inquietante macinazione, dal momento che è abituato a cercare (e spesso a trovare) nella poesia un sollievo, una declamazione irreale, un canto di scongiuro, insomma un’eccitazione epidermica e ornamentale”. In queste righe di Giuliani riconosco una certa superficialità – da parte di chi dice di aver “smascherata la natura del linguaggio” (Giuliani, 1961) – un misconoscimento delle funzioni e dei limiti del linguaggio. Mi pare di sentire qui la zavorra più dispensabile della componente scientista e neopositivista dello strutturalismo e della semiotica. Il sollievo, la declamazione, il canto di scongiuro sono funzioni essenziali del linguaggio per l’uomo. Non nascondono, ma esprimono e tramandano. Richiedere che ogni espressione verbale intenzionale (e quella artistica è e deve essere sommamente informata dalla coscienza) esibisca – nella propria stessa forma – il certificato universale della propria autoconsapevolezza significa richiedere ciò che il linguaggio non può dare.

Con la “scoperta” della centralità del linguaggio e con la questione della “riduzione del soggetto” i Novissimi hanno toccato un punto centrale dell’arte contemporanea. In entrambi i casi però, a mio giudizio, hanno scelto soluzioni decisamente difettose, che prendono la forma di limitazione artificiali del campo d’azione: degli aspetti del linguaggio su cui operare da una parte, e delle facoltà del soggetto a cui rivolgersi dall’altra.

Si deve “Limitare l’area semantica per esercitare su di essa un assoluto controllo” scrive Giuliani nella Prefazione del 1965. Dovrebbe forse sorprendere questo desiderio di “assoluto controllo”, ma è in esso la matrice neopositivista e totalitaria del paradigma culturale della Neoavanguardia. L’ansia essenzialmente neopositivistica e totalitaria della Neoavanguardia non può essere soddisfatta, se non mutilando il mondo, mutilando il linguaggio, e mutilando il soggetto.

Lo stesso atteggiamento si ritrova nel modo in cui viene eseguita la “riduzione dell’io come produttore di significati” (Giuliani, 1961). Con la prospettiva ‘performativa’ delineata da Giuliani nella Prefazione del 1961 la poetica dei Novissimi contempla quella che a me pare una delle prospettive più feconde della letteratura contemporanea: “Una poesia è vitale quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè le cose che hanno ispirato le sue parole […] ci inducono il senso di altre cose e di altre parole provocando il nostro intervento” (Giuliani, 1961). Bisogna però osservare che l’esito di un tale proposito può avere segni diametralmente opposti a seconda dell’antropologia sul cui sfondo si concepisce il soggetto che si vuole provocare. La mancanza (o il rifiuto) di una antropologia sufficientemente ricca può ridurre questa provocazione del lettore ad una eccitazione epidermica di un soggetto mutilo, provocato a ripetere coattivamente variazioni combinatorie e associative elementari. In certa parte questo dipende dall’adozione di una filosofia – large loquendo – materialista, tanto che mi stupisce la poca fortuna critica e la poca diffusione dell’antologia Poesia italiana della contraddizione, a cura di F. Cavallo e M. Lunetta (Newton Compton, 1989). In tanta parte della poesia nata con la Neoavanguardia, tale soggetto viene arbitrariamente ridotto al suo grado-zero di manipolatore di segni, le cui facoltà intellettuali sono ristrette a permutazioni elementari. È questo un altro espediente vòlto ad ottenere il “controllo assoluto” sulla materia, ma il prezzo da pagare è altissimo. Scegliendo di ridurre l’io chiudendolo in una sorta di campo di concentramento e di sottoporlo a esperimenti un po’ biechi di combinatoria, i Novissimi hanno rifiutato in qualche modo la sfida del concetto. Questa tendenza è ancora viva nella poesia italiana contemporanea, e penso ancora al gruppo GAMMM in cui rifioriscono tecniche tardo-dadaiste di found poetry, cut-up poetry, google poetry etc. in cui il grado di intenzionalità dell’autore e l’attività cognitiva del lettore sono artificialmente mantenuti prossimi allo zero. Trovo la prospettiva di una letteratura che proceda per variazioni quasi infinitesimali di questi metodi particolarmente desolante. L’opposizione alla lirica e al crepuscolarismo che premeva ai Novissimi, l’opposizione alla crisi dell’io come produttore di significati che si è manifestata nel Novecento può prendere (e in qualche parte ha preso) direzioni assai diverse da quelle della ‘riduzione’ avanguardistica dell’io. Il pensiero occidentale (dagli Stoici a Ricoeur!) offre un armamentario di strumenti, concetti e metodi di cui davvero si può dire che “non hanno esaurito la loro funzione”. La distinzione tra un soggetto empirico e un soggetto trascendentale ne è un piccolo ma significativo esempio, che apre prospettive di ‘riduzione’ o meglio sarebbe dire di ‘superamento’ dell’io completamente ignorate dalla tradizione della Neoavanguardia.

La questione è incidente a un altro piano. Mi spingerei a indicare un limite importante della Neoavanguardia nell’impianto fortemente mimetico della poetica (la “poesia quale mimesi critica della schizofrenia universale” (Giuliani, 1965), la complessità dei personaggi giustificata dal loro essere “specchi fedeli di una situazione contemporanea (Porta), Laborintus come “tentativo di trascrivere sinceramente” un “oggettivo ‘esaurimento’ storico” (Sanguineti), cfr. anche le rivendicazioni del “realismo” del Gruppo 63). In questo senso la Neoavanguardia sembra aver perso l’occasione di compiere uno dei possibili passi oltre le Avanguardie Storiche e il Modernismo, ossia il passo di una ‘mimesi trascendentale’, che mi sembra costituire un orizzonte promettente per lo sperimentalismo odierno. La mia poesia non contribuisce a questa linea, ma posso citare, come esempio, il lavoro di Jacopo Ricciardi. Nella Prefazione del 1961 Giuliani descrive l’operazione di Balestrini come segue. “Lo scopo del poeta è la creazione dell’inedito mediante l’uso di ciò che è più scontato e trascurato”. Ma questo è letteralmente vero di ogni scrittore, che scrive usando parole e lettere. Il senso dell’operazione di Balestrini si lascia descrivere facilmente con la terminologia di Lotman: si tratta di trasformare il “sistema secondario” in “sistema primario”. Si tratta, dunque, di una mossa di astrazione, che può essere ripetuta ogni qualvolta si renda necessario per evitare la sclerotizzazione del linguaggio letterario. Ma è anche possibile astrarre da questa stessa mossa strategica, prenderne per così dire ‘la chiusura transitiva’ e contemplare la possibilità di un’arte che compia una mossa trascendentale, opponendosi alla sclerotizzazione della strategia delle avanguardie (il rischio del trascoloramento dell’autre in même, dell’inaccettabile in piacevole, sul quale Eco richiamava l’attenzione già nel 1964, e di nuovo nel 2005).

Quando si apre all’ipotesi di una apertura dell’area semantica, Giuliani si sente costretto a scansare il pericolo della “mistica” e dell’”ineffabile” facendo ricorso alla categoria dell’inconscio. La categoria dell’inconscio viene usata come contenitore razionale del contenuto – o dell’intorno – irrazionale del linguaggio, in modo tale da neutralizzarlo in vista del “controllo assoluto”. Ma non è tanto l’inconscio, il limite e l’ambiente del nostro dire, quanto l’ignoto. Con ciò non dico che l’ineffabile e l’ignoto debbano diventare l’argomento e il contenuto della nostra poesia, ma che la coscienza dell’inesausto e inesauribile campo di inconoscibilità su cui ogni nostra espressione si disegna – coscienza che non può in alcun modo essere esibita nel testo, ma forse provocata nel lettore – deve informare la nostra poesia.

Non tanto dobbiamo desiderare un’arte-macinino che macini il fruitore, quanto un’arte che esprima e comunichi la coscienza, esultante e tremenda, d’essere noi macinati dal mondo. “Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi sia dato di raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo.” (Ignazio di Antiochia, Lettera ai Romani). Pure questa è una “riduzione del soggetto”.

Alla “poesia quale mimesi della schizofrenia universale” (Giuliani, 1965), ossia “della modalità d’esistenza in cui sono altrettanto impossibili la soggettività e l’oggettività del mondo” (Giuliani, 1965) vorrei contrapporre la poesia come espressione della facoltà sintetica e analitica del soggetto trascendentale, la poesia come espressione dello stato in cui sono altrettanto necessarie la soggettività e l’oggettività del mondo. Alla poesia di chi desidera un “assoluto controllo” sulla propria materia e si accontenta, per ottenerlo, di lavorare una materia mutilata (e in tanto intimamente desidera che l’uomo stesso sia ridotto a una tale materia) vorrei opporre la poesia di chi “non sa la sua via”, secondo il detto di Giobbe: “Non sa l’uomo la sua via”. È proprio in un commento di San Gerolamo sulla prosa di Giobbe che trovo la descrizione più bella e completa di una scrittura in cui si avvicendano prosa e poesia: “Iob, exemplar sapientiae, quae non mysteria suo sermone complectitur? Prosa incipit, versu labitur, pedestri sermone finitur; omnisque dialecticae proponit ???????, propositione, adsumptione, confirmatione, conclusione determinat. Singula in eo verba plena sunt sensibus […]” (Hieronymus, Ad Paulinum Presbyterium, Epistula LIII, §45). [Giobbe, esempio di pazienza, quali misteri non abbraccia con le sue parole? Inizia in prosa, scivola nella poesia, termina ancora in prosa; fa vedere i principii di tutta la dialettica procedendo attraverso premessa maggiore, premessa minore, dimostrazione, conclusione. In lui ogni parola è piena di significati […]” (trad. di Roberto Palla).] Con ciò non invito il poeta a crogiolarsi nella bonaccia di un irrazionalismo compiaciuto, quanto a non misurarsi, come un Don Chisciotte, con dei modellini di mondo e soggetto in scala ridotta e proiezione distorta, a non sottrarsi alla sfida dell’inesauribilità del mondo (esperito e conosciuto, non esperito e inconoscibile), a non sottrarsi alla sfida del concetto e del giudizio. Con ciò spero di rispondere e di poter rinnovare l’invito, espresso tanto bene da un poeta mio coetaneo, ad “adattare le nostre braccia magre alla forza delle idee” (Valentino Ronchi, Canzoni di Bella Vita, Lampi di Stampa, 2006 e 2008).
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* L’articolo, tuttora attualissimo, e la discussione che suscitò, provengono da qui:

http://www.poesia2punto0.com/2010/10/20/note-sull%E2%80%99influenza-della-neoavanguardia-italiana-sulla-mia-poesia-con-particolare-riferimento-alla-poesia-in-prosa/

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42 Commenti

  1. Complimenti, intervento lucidissimo ed eccellente. Raccogli e articoli qualcosa che – dal mio cumulo molto minore di letture – già sospettavo: è come se mi avessi dato voce.

  2. Bel pezzo, informatissimo e chiaro pur nella complessità. E come dice Davide Castiglione sopra, anche io osservo da un «cumulo molto minore di letture», dunque perdendo qua e là qualche pezzo; ma trovo illuminante il discorso sullo «stretto rapporto di interdipendenza organica e di interazione continua tra momento critico e momento espressivo». Il pezzo stesso – mi pare – si getta – e forse è il suo stesso oggetto a costringerlo – sul momento critico anziché quello espressivo. Che sia inevitabile e si possa dire di più discutendo delle intenzioni (letterarie) anziché delle espressioni? – mi viene in mente un passaggio dell’ultimo libro di Del Giudice, che parla del narrare ma penso di poter applicare in genere alla creazione letteraria: «l’atto del narrare è dunque irriducibile a ogni teoresi, a ogni storiografia, a ogni ermeneutica».
    Il finale anche lo trovo illuminante, come un buon esempio che va oltre il discorso storico della neoavanguardia. Tornare a osare: è quello che una parte dell’ultima poesia italiana (tra cui quella di Ronchi) oggi tenta di fare; e qualcosa di simile sta forse anche nell’impegno di Saviano, per dirne uno, la scelta dell’epicità vs ironia, del pensare in grande vs disimpegno. In genere vedo nel finale di questo pezzo l’invito a scrivere guardando al futuro come a un luogo e a un tempo dove sia di nuovo possibile il valore (ovvero un invito a metabolizzare le molte e varie crisi).

  3. Fuori dell’accademia, il poeta del Gruppo 63 oggi maggiormente citato dagli under 40 sul web e’ Elio Pagliarani. Il fronte dei discorsi tra insider e’, invece, sulla necessita’ o meno di un dottorato per poter parlare di poesia. Quel che il Gruppo 63 ha compiuto nelle elite culturali, insomma, e’ una ingegnerizzazione del poetico. Servirebbero dunque eredi ingegneri per svilupparne i discorsi nei moderni linguaggi funzionali (informatici, biologici, naturali) ma, per mia esperienza, i pochi interessati alla poesia vi ritornano in animo ed alveo creaturali, senza sentirsi un’elite e senza poetizzare i propri linguaggi professionali.

  4. si, diciamo che riflessioni fatte venti o trent’anni fa, all’ingrosso, avrebbero avuto ancora una loro attualità; ora si trova ben più rigore e aggiornamento nelle tesine del corso triennale

    • gentile valerio, non mi stupisce e anzi mi rallegra sapere che si trovino più aggiornamento e più rigore nelle tesine di triennale. riguardo all’attualità delle considerazioni, questa è sempre funzione del grado di specialismo del lettore, e forse delle intenzioni dell’autore. il mio testo qui sopra è scritto “en poète”, non pretende all’oggettività scientifica, e mai penserei di proporlo come tesi di laurea in qualche università del regno. sarei invece lieto di leggere le tre migliori tesine di triennale sull’argomento che le è capitato di leggere o di dirigere negli ultimi dieci anni. spero che vorrà condividerle con noi. l’aggiornamento è sempre benvenuto.

      saluti,
      lorenzo carlucci

      • le migliori tesine devono saper innanzitutto distinguere tra quanto un autore dice sui suoi testi e quanto dicono i suoi testi, dal momento che si tratta di due piani ben diversi, e questo dovrebbe essere l’abc del metodo critico; una buona tesina poi dovrebbe uscire dalla considerazione propagandistica dei novissimi, per considerare l’ampia stagione della sperimentazione in Italia da quel decennio in poi, e immediatamente affiancare ai novissimi una serie di altri autori autori: da Villa a Cacciatore, dalla Rosselli a Costa, fino a prendere in considerazione la costellazione del gruppo ’93. E ad ognuna di queste tappe discernere l’impostazione teorica dalla pratica poetica.
        Lei giustamente non ha voluto dare un contributo di tipo critico all’altezza dell’orizzonte attuale, e quindi è liberissimo, parlando come poeta, di porre in primo piano il suo punto di vista, la sua poetica e le sue idiosincrasie. Pero’ avrebbe potuto fare tutto cio’ in un terzo dello spazio utilizzato, e parlando molto di più della sua poesia, che io per altro non conosco, invece che di Giuliani, Curi e Sanguineti.

        • la ringrazio per il vademecum su come scrivere una tesina di triennale. lo farò leggere ai miei figli se dovessero studiare lettere. nel testo mi sono deliberatamente dedicato alla poetica, ossia “a quanto un autore dice sui suoi testi”, non credo di aver fatto confusione. credo poi che in questo caso particolare, poetica e produzione poetica si siano fortemente influenzate a vicenda, dato il desiderio di coniugare momento critico e momento poetico. ciò nondimeno non avrei scritto quanto ho scritto se ne avessi trovate le conclusioni fortemente smentite o ribaltate dalle opere dei poeti in questione. dissento dal fatto di essermi concentrato esclusivamente sulla “considerazione propagandistica dei novissimi” come lei scrive, a meno che in questa lei non includa l’introduzione alla antologia originale, e buona parte delle fonti citate. quanto al suo ultimo consiglio, ossia “Pero’ avrebbe potuto fare tutto cio’ in un terzo dello spazio utilizzato, e parlando molto di più della sua poesia, che io per altro non conosco, invece che di Giuliani, Curi e Sanguineti” non ne vedo il senso. il tema del pezzo era la NA, non la mia poesia. come chiedere a qualcuno che scrive una tesina su Pascoli: perché non ha parlato di Pasolini? si tratta forse di un equivoco da parte sua.

          saluti,
          lorenzo

          • Lei scrive:
            Vorrei prendere le mosse da questo canone della Neoavanguardia (per me seriamente difettoso e mutilo) per indicare alcune ragioni più profonde e teoriche che danno la misura della distanza della mia poetica da quella della Neoavanguardia.
            In effetti uno si attende di saperne qualcosa su Pascoli, ma lai parla sopratutto di Pasolini. Ma anche questo magari i suoi figli impareranno a non farlo.

          • in risposta a valerio qui sotto: ha ragione, ho accennato anche un po’ a Pascoli… ossia alla mia poetica. ma allora, oltre al passo che lei riporta, la mia prospettiva è presentata negli ultimi tre o quattro paragrafi, piuttosto lunghi, oltre che, implicitamente, in molti dei precedenti. mi sembrava una scelta equilibrata, visto il tema principale.

            saluti,
            lorenzo

    • Credo si stia parlando di quanto indicato dal titolo. Più o meno lo stesso argomento del numero de “il verri” di cui parla Inglese nel link qui sotto, in calce del quale si legge: “Questo pezzo è apparso sul n° 47 de “il verri” (ottobre 2011), in risposta alla domanda “Avete letto i Novissimi?” indirizzata a un gruppo ristretto di giovani poeti”

      Lorenzo Carlucci

    • Inglese, concordo pienamente: “un vecchio trauma di cinquant’anni fa, non ancora rimarginato”.

      Lorenzo Carlucci

  5. “non è raro riscontrare un perdurante risentimento nei confronti delle neoavanguardia, come se fosse sempre possibile una sua ulteriore e perniciosa incarnazione”, cos hai ottimamente scritto, Inglese, nel tuo articolo. E’ il senso di questo risentimento, che ovviamente colgo anche qui, che mi sfugge. Mi viene da paragonarlo al medesimo risentimento che prova l’asservito nei confronti di chi, in vario modo, lotta per la libertà. Mi lascia sempre di stucco questo risentimento, nella fattispecie, mi lascia inebetito, questo risentimento verso un “gruppo” che non pratica più alcuna egemonia, ammesso che l’abbia mai praticata.

    • Salve Caserza, non mi sembra di aver fatto ricorso al concetto di “egemonia” (gramsciano o meno) nel testo qui sopra. Mi chiedo perché lei vi faccia riferimento. Mi chiedo anche il motivo di ricorrere ad argomenti psicologici, parlando di “risentimento” (di cui non mi sembra esservi traccia).

      Lorenzo Carlucci

    • Forse potresti invece renderti conto che chi lotta per la libertà ora, mostri un atteggiamento critico verso “gruppi” succedanei (abbarbicati al potere accademico e/o editoriale)che di quel gruppo si sentono implicitamente continuatori o in qualche modo ripropositori o incarnazioni improprie, perché quel gruppo, che si chiamò dei novissimi, ora è una tradizione che viene percepita come incontestabile, e dunque come intrascendibile, e pertanto come dogma formale, critico, accademico etc. E dunque, paradossalmente, si potrebbe pensare che chi ad alcuni sembra asservito lo è meno di chi si presenta come difensore della libertà. Quanto all’egemonia, molto ci sarebbe da dire.

      • “gruppi” succedanei (abbarbicati al potere accademico e/o editoriale)che di quel gruppo si sentono implicitamente continuatori o in qualche modo ripropositori o incarnazioni improprie

        per esempio?

          • Be’, parlando limitatamente alla mia esperienza di traduttore, le case editrici sono spesso dominate dalla facile moda della traduzione alineare per una tendenza, ormai inveterata, che si origina da un determinato sviluppo: in primo luogo, l’iniziale sponsorizzazione, in sede Einaudi, delle traduzioni “formalmente agili”, come reazione (all’epoca legittima) alle traduzionacce di epoca fascista -ma poi la tendenza si è evoluta in inerzia formale. Questo sviluppo infine ha portato alla delegittimazione o alla marginalizzazione di ogni altro modo di tradurre poesia. In secondo luogo, la forma “libera” è una forma facile che viene all’uso per chiunque: rende l’opera tradotta uno stampo amorfo riproducibile.

            In altri contesti, un certo Berardinelli, che sancisce che la poesia annoia, e ne stila in séguito fin troppo facilmente il certificato di morte, si riferisce all’esaurimento di una certa “tradizione” la cui collocazione precipua (anche se non esclusiva) a ridosso dei novissimi, o almeno di alcuni di essi, è evidente, nonostante tutto.

            L’inerzia delle forme nella traduzione (che ne abolisce il ruolo di rimescolatrice delle tradizioni formali) e lo spingersi al punto di dichiarare morta la poesia perché semplicemente si è esaurito un filone, mi sembrano due esempi indicativi. Se ne potrebbero fare altri. Ma credo che queste due ragioni bastino.

  6. a leggere la silloge di commenti critici mi è venuto da pensare: “per fortuna che hanno scritto anche poesia” :)

    ora siamo decisamente altrove (non solo culturalmente, ma proprio socio-linguisticamente) e deprecare certo fideismo semiotico-strutturalista è diventato facile, tuttavia l’idea che persino i novissimi non avessero superato ‘abbastanza’ quell’io che andavano riducendo mi pare un passaggio cruciale

    su come, invece, qualcosa di certe scritture si sia inevitabilmente depositato nelle *nostre, sia diventato “dispositivo”, segnalo il bell’intervento di Italo Testa http://www.leparoleelecose.it/?p=2156

    (l’altro giorno parlavo con un’amica di Sylvia Plath: quanto ce ne innamorammo vent’anni fa, quanto ci fa quasi senso oggi – siamo impazzite? sbagliavamo allora o sbagliamo oggi? no, è che la sua ineluttabilità si è fatta strumento, congegno, che noi abbiamo usato per andare da un’altra parte)

    sulle scritture procedurali odierne, che io invece trovo in certi casi molto interessanti, oppongo un pensiero breve, che magari dice qualcosa: il metodo non è applicato per garantire maggiore controllo, quanto per il suo contrario, per mollarlo… (di contro una poesia, neoav o innamorata che fosse, che era decisamente conativa)

  7. Anche a me questo intervento ha fornito concetti chiari e parole per qualcosa che malamente abbozzavo nell’animo (in quest’animo male sbozzolato…).

    Tocca un nervo scoperto e infatti fa saltar su parecchi. Intorno a queste parole già si sono coagulate queste opposizioni:
    materialismo (col corollario del dominio totalitario della realtà e del ribaltamento, mica tanto paradossale, in idealismo) VS trascendentalismo (cauto, mescolato a empirismo e senso della finitudine umana),
    libertà VS schiavitù,
    positivismo VS antipositivismo,
    accusa di egemonia VS accusa di invenzione del nemico (la neoavanguardia e i suoi continuatori, in posizione di potere).

    A dire le cose che dice Carlucci, subito scatta il riflesso condizionato: antiscientista! Antiliberale! Irrazionalista! Sentimentale!
    Ma già Carlucci: poesia neoavanguardistica = positivismo = totalitarismo del soggetto.

    Secondo il mio parere, modestissimo e oscuro, qui si gioca un’opposizione fondamentale della modernità che non riusciamo a comporre. E ci litighiamo su da quattro secoli. (Non che questo la renda meno necessaria o eludibile, e componibile nel volemose bene).

    Visto però che le considerazioni di Carlucci, per quanto mi riguarda, le sottoscrivo come articoli di fede, sottolineerei la parola “ingegneria” pronunciata da fu GiusCo. Via, è innegabile che in questo costante esibire la struttura, la materialità dei costituenti fondamentali, un po’ troppa testa ci sia. Si dirà: l’arte del Novecento è arte consapevole. Sì, ma tra lo sforzo di consapevolezza e la consapevolezza eretta a programma c’è una certa differenza.

    E temo che le citazioni patristiche di fine articolo faranno sbottare qualcuno “vedi? Ritorno alla fede e ai misticismi. Ma noi siamo l’epoca della ragione liberata, diamine!”. Ecco, magari anche una reazione come questa è irrazionale e fideistica. Occhio ai ribaltamenti del paradosso: basta un attimo e ci si ritrova, venendo dalla sponda della libertà della ragione, alla sponda dell’irrigidimento nella verità di ragione. Proviamo a stare in quella vibratile e inafferrabile zona subliminale, tra ragione e spirito?

    Anche se poi concordo con Morresi: per fortuna questi hanno scritto anche poesie. Leggiamole, vediamo.
    Se leggo la “paginetta” che, per Sanguineti, “andava voltata” di Luzi, se leggo Giudici, io mi sento a casa, lì mi stabilisco.
    Però come non sostare con i sensi risvegliati e l’intelligenza vigile anche sul Gatto Lupesco?

    Infine: come la mettiamo con Zanzotto? La neoavanguardia, la psicanalisi, Heidegger, la semiotica, … li ha introiettati, ma non si sente, a leggerlo, solo e soltanto “La Poesia”?

    • Secondo me Zanzotto è difficile da collocare e da etichettare (banale dirlo), come accade a tutti i poeti della sua levatura.

    • No, ho tolto “scarica pdf” perché il plugin che lo faceva funzionare era lento, poco usato e stava diventando invadente con la pubblicità nella versione successiva che non ho voluto aggiornare.

  8. A me pare che la Neoavanguardia sia stata “appena” qualcosa. Di certo non poteva fare meglio nell’ambito deprimente in cui si trovava ad agire, i migliori poeti italiani reggevano le rubriche dei giornali e Giuliani ed Eco ( e chi cazzo fossero davvero i suoi cuoricini, mi piacerebbe sentire Balestrini) non erano disposti a prendersi sul serio. Ora che nulla è cambiato potremmo dire che l’avanguardia italiana NON ha influenzato Carlucci. Nulla di più. Una cosa che si declini nel finire di un’altra cosa è la morte bieca, è il diventare niente. Nell’anima sperimentale del mondo vive un processo di trasformazione continua dei luoghi, un’antitradizione quasi dispotica che si nutre di scompiglio, una voce sottile che scavalca i piloni antisismici cosmici e li rende pappa per pulcini pitturati. Non è deficente o corrosa, non nasce dalla fine del mondo pietoso, fine che ha macellato qualunque ostacolo al suo a-venire, non si svolge per negazioni deliranti, lo vedete bene, è una fulgente resurrezione. La resurrezione della mancanza di senso. Quella dell’ignobile forma sarcofagata. La resurrezione del pesante filologo armato del coltellino : la logica veloce (leggera). La resurrezione della morte inespressa, l’ombra ritagliata dallo stornello e l’intero restituito nella posizione della povera puttana chiamata l’arte, poi dicono ingegneria.

  9. @ daniele ventre: “Forse potresti invece renderti conto che chi lotta per la libertà ora, mostri un atteggiamento critico verso “gruppi” succedanei (abbarbicati al potere accademico e/o editoriale)che di quel gruppo si sentono implicitamente continuatori o in qualche modo ripropositori o incarnazioni improprie, perché quel gruppo…ecc ecc.”. Ciao Daniele,solo per precisare che mi riferivo alla “natura” del risentimento. Il mio paragone non era indirizzato a questi “gruppi” succedanei. Mi riferivo, piuttosto, in generale, a quel tipo di risentimento che, in area ideologica o politica, il conservatore (o il reazionario) prova per chi lotta per il riscatto sociale. Noto semplicemente che è lo stesso tipo di risentimento, e questo non implica (nel mio giudizio) che i Novissimi rappresentino chi lotta per la libertà, e viceversa gli altri. Quanto ai novissimi divenuti tradizione, io sottoscrivo il parere di Gnec, il quale ha scritto che “i Novissimi non rappresentano alcuna tradizione; sono semplicemente un pezzo da museo”. Inoltre, quanto a Berardinelli, egli non mi pare sicuramente ascrivibile all’area della Neovanguardia, tutt’altro! La domanda di Raos rimane comunque elusa. Dove sono i poeti che continuano la poetica dei Novissimi?

    • Salve Caserza,

      una mia replica al suo commento su egemonia e risentimento è in moderazione (forse per motivi tecnici) da un paio di giorni. Ora lei dice di parlare “in generale”. Questo significa che non parla in riferimento al testo? Se è così, nessun problema, ma credo non fosse chiaro a nessuno dato che ci troviamo in un thread di commenti a un testo, e data la forma dei suoi inteventi.

      Per quanto riguarda il testo: non mi sembra faccia alcun riferimento al concetto di “egemonia” tanto caro ai gramsciani. Mi chiedo perché lei vi faccia riferimento. Mi chiedo poi il motivo di ricorrere ad argomenti psicologici, parlando di “risentimento”, di cui, nel testo, non mi sembra esservi traccia. A meno che, ancora, lei non stia parlando soltanto d’altro, nel qual caso mi scuso per il fraintendimento. Da ultimo: nel testo si dà una risposta (la mia) alla sua domanda: “Dove sono i poeti che continuano la poetica dei Novissimi?”. Ma ancora, forse lei intende prescindere completamente dal testo. Mi permetto anche di osservare che questa domanda non è esattamente equivalente alla domanda di Raos, che invece verteva – anche – sul problema dell’egemonia (““gruppi” succedanei (abbarbicati al potere accademico e/o editoriale)”), problema non sollevato dal mio testo ma dal commento di Ventre. Credo che i piani vadano tenuti distinti.

      Lorenzo Carlucci

    • @ Caserza. Forse certe domande vanno in parte eluse. O forse certi critici sembrano meno lontani dai Novissimi di quanto potrebbe parere a prima vista.

      @ Lorenzo Carlucci. A volte conviene ad alcuni, da certe posizioni, intersecare i piani.

  10. Proviamo ad aggiungere carne al fuoco evitando l’off topic dei risentimenti. Propongo un bignamino comune per capire se ci sono margini prima del deragliamento di questo thread.

    Se tutti condividiamo la “sintassi del linguaggio” [livello 1] italiano, le differenze saranno in “strutture concettuali” piu’ grandi [livello 2] (idiomi, ma anche algoritmi e strutture dati) e nei processi [livello 2a] implementativi per raggiungere un determinato obiettivo. I “pattern” [livello 3] alzano il livello di astrazione su cui si progetta e si discutera’ quindi delle scelte progettuali.

    Il Gruppo 63 ha avuto il merito di astrarre la poesia italiana al livello 2, quel che in seguito l’informatica (negli anni ’90) ed ora i linguaggi applicati delle scienze dure (chimica, imaging applicato alle neuroscienze, genomica, ecc.) hanno portato al livello 3 per uso industriale e dunque ingegneristico.

    Detto banalmente: dalla “poesia” [livello 1, diciamo la lirica nell’Italia pre anni ’60], passando per la “poesia procedurale” [livello 2, diciamo Sanguineti e le rigatterie epigonali a lui seguite] fino alla “poesia della progettazione” [unico esempio contemporaneo per me significativo: il flarf, oltre ai generatori automatici di poesia tipo quello di Roberto Uberti qualche anno fa].

    • Cornacchia ciao quello che tu sembri delineare è una delle possibili “continuazioni”, che procede (un po’ meccanicamente e dialetticamente) spostando continuamente il livello d’astrazione e aumentando la generalità del piano d’azione, cercando in questo di anticipare i tempi naturali del processo di decadimento del sistema secondario in sistema primario (cosa che tutta l’arte degna di questo nome fa). Diciamo un processo in piena conformità agli insegnamenti di Lotman? Per come la vedo io quello che descrivi va nel senso di ciò che nel testo ho chiamato “mimesi trascendentale”. Credo che sia una via interessante e coerente, e credo anche che alcuni autori “sperimentali” contemporanei (oltre al citato nel testo) anche in area GAMMM abbiano accennato a percorrerla (un po’ debolmente a mio avviso), o l’abbiano incrociata. Non credo tuttavia che sia l’unica via possibile, come sembra risultare dalla tua sintesi.

      Ciao,
      Lorenzo

  11. No, non era in riferimento al testo, caro Carlucci; prendevo semplicemente spunto dall’articolo di Inglese, sopra linkato.

    • Caro Caserza, se il riferimento non era al testo, allora devo aver letto male questo suo passaggio (cfr. supra): “E’ il senso di questo risentimento, che ovviamente colgo anche qui, che mi sfugge.” Mi scusi.

      Lorenzo Carlucci

      • Mi esprimo alla carlona davvero! (non sempre gnec mi aiuta!!)o forse comprendo molto lentamente. Quando lei si riferisce al “testo” intende il suo testo dunque? Io pensavo si riferisse al testo letterario (in astrazione). Se si riferisce al suo testo, be’ sì, vi coglievo del risentimento. Può essere che sia nella mia testa e non nel suo testo d’altronde.

  12. Caro Cornacchia,

    la tua visione pluralistica mi è simpatetica. Credo come te che esista un insieme di vie percorribili che hanno un’aria di famiglia e possono forse sussumersi sotto un concetto di “mimesi trascendentale”.

    Ho provato ad articolare la pars costruens (ma non sistematicamente per ora) in un saggio su Atelier di qualche anno fa (Su due funzioni conoscitive della poesia) e in un altro recente incluso nel volume “Relational Syntax” curato da Marco Mazzi (http://www.marcomazzi.net/works/relational_syntax) se mi dai un tuo recapito te lo mando).

    Per aggiungere un riferimento “scientifico” ai tuoi posso dirti che per me è
    rilevante il fatto di lavorare in un ambito (logica, complessità computazionale) in cui è stato possibile dare una formulazione matematica del seguente “problema della creatività” (ma non ancora risolverlo): è vero o no che chi sa controllare la correttezza di una soluzione a un problema sa anche trovare una soluzione? Come sai questo è uno dei “problemi del millennio” e non si conosce la soluzione (l’aspettativa è che la risposta è no).

    Nel testo qui sopra (e in altre esternazioni più informali) ho reagito più alla poetica e alle estetiche messe avanti dalle varie (neo)avanguardie che non alle singole opere (il che non vuol dire che abbia trascurato queste ultime). Il mio fastidio (e non “risentimento”) è rivolto principalmente alle poetiche dichiarate, che trovo generiche, e non molto soddisfacenti.

    Credo anche che queste non facciano completa giustizia dell’effettiva produzione artistica in questione, specie in alcuni casi, e che parte di certa produzione sperimentale contemporanea resti vittima del proprio momento teorico. Certo, si tratta delle conseguenze di una scelta ben precisa, ossia della scelta di non disgiungere il momento teorico da quello poetico, producendo “testi portatori di posizioni teoriche strettamente collegate” come scrive Sanguineti. Di ogni scelta si pagano le conseguenze.

    Credo che sia possibile articolare una poetica “forte” del lavoro degli scrittori “sperimentali” contemporanei assai più soddisfacente (naturalmente dal mio punto di vista), e non escludo di applicarmi all’esercizio.
    In breve, credo si possa fare secondo almeno due direttive:

    1. posizione di continuità, abbandono della posizione di “rottura”: si sta continuando un metodo e ci si sta concentrando sulle sue applicazioni minute. il che non è un male in sé, e potrebbe essere messo in parallelo con il metodo attuale di produzione scientifica: quanti teoremi pubblicati al giorno, e quanti di essi “esemplari” nel senso della matematica dell’ottocento? questo comporta un abbandono dell’atteggiamento “avanguardista” e dell’idealtipo dell’intelletuale rivoluzionario che non tutti sono pronti ad accettare.

    2. trascendentalismo e filosofia dell’ignoto. trascendentalismo kantiano per una posizione “forte” del soggetto e per una determinazione “forte” del campo d’azione dell’artista. filosofia dell’ignoto, partendo per esempio dai suggerimenti di A. Bely oppure (se si vuole essere ancor più massimalisti) dall’opera di S. L. Frank. ancora una mossa che non si desidera compiere, probabilmente perché cozza con un imprinting materialista e marxista molto forte. per quanto si possa percorrere la via di un trascendentalismo “cauto, mescolato a empirismo e senso della finitudine umana” come scrive bene Lo Vetere qui sopra.

    Un’altra cosa: come sai la neuroestetica ha dato una “spiegazione” molto affascinante dello sviluppo dell’arte astratta e poi cinetica, rilevando che le scelte formali fatte dai vari movimenti artistici del novecento possono leggersi come i risultati di una indagine sperimentale in larga parte inconsapevole che l’artista compie sul cervello e sul suo funzionamento. In particolare, la scelta artistica di eliminare certi aspetti formali (e.g. il colore) in favore di altri (e.g. il movimento) troverebbe una corrispondenza (e una “giustificazione” a posteriori) nell’esistenza nel cervello di aree che reagiscono esattamente alle proprietà formali che l’artista ha scelto di conservare mentre sono insensibili a quelle che l’artista ha dismesso. Inoltre, le aree in questione sono state scoperte solo di recente ovvero DOPO lo sviluppo dei movimenti artistici “corrispondenti”. Ora, non è escluso che alcune tecniche di poesia
    combinatoria, di googlism, di cut-up poetry, di sought poetry, o di flarf trovino a posteriori una giustificazione di questo tipo. Questo risponderebbe per esempio alle mie accuse di voler intrattenere un soggetto mutilo con esercizi combinatorii elementari. Si potrebbe allora dire: no, il poeta
    compie inconsapevolmente esperimenti volti a stimolare alcune aree del
    cervello e non altre. Sarebbe molto interessante, ed è tutto da verificare.

    Resta il fatto che, se l’arte non può essere prodotta “per caso”, allora le poetiche esplicitamente proposte dagli autori possono essere giudicate in quanto tali, e nella loro relazione alla produzione poetica, specialmente nel caso in cui si producono testi che si vogliono “portatori di posizioni teoriche strettamente collegate”, ossia se si propone la teoria come momento essenziale della fruizione estetica.

    Ciao,
    Lorenzo

    • Ciao, riesci a mandarmi l’articolo construens che scrivesti per Atelier n.50? Voglio approfittarne per scrivere qualcosa di formale sulle linee qui citate, riallacciandomi anche alla tua e ad una lettera che Stefano Guglielmin mi indirizzo’ pubblicamente da quello stesso volume. Grazie fin d’ora (puoi usare come recipiente nabanassar@gmail.com). Saluti. Giuseppe

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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