La cultura si mangia!

Arpaia-Greco_La cultura si mangia (Oggi esce per Guanda un libro su un tema che dovrebbe interessare tutti, non solo chi “opera nel settore”. Per chi crede, insomma, che con la cultura si mangi, alla faccia di Tremonti. Vi anticipo un breve estratto dalle pag 23-26 e ringrazio qui gli autori. G.B.)

di Bruno Arpaia e Pietro Greco

Ora, finalmente, dopo averlo negato con ostinazione per anni, lo dicono in tanti: l’Italia è in declino. Ma, si badi, è un declino non soltanto economico. Il regresso in termini culturali, di coesione sociale, di partecipazione politica, di qualità ambientale è ancora più grande. È ancora più grave. Siamo un Paese che cerca di sopravvivere in un eterno presente e non riesce più nemmeno a immaginare un futuro. Tanto meno un futuro migliore.

Oggi, purtroppo, l’Italia è tra i Paesi più statici, con meno mobilità sociale, con più inefficienza, con più disuguaglianza, con meno idee su se stessa e su quello che potrà e dovrà essere. Già, le idee. Perché poi, gratta gratta, sono le idee a essere importanti, a orientare perfino la direzione della crescita economica o la politica industriale. Perché, con tutti i cambiamenti degli ultimi decenni, sarebbe imperativo cercare di capire dove va il mondo e reagire, adattarsi, riconquistare pezzi di futuro.

Non ci vuole poi molto a dimostrare che è proprio la cultura a generare, spesso in forme nuove legate alle tecnologie emergenti, valore economico e sociale. Anzi, sembrerebbe addirittura ovvio, eppure in giro non si trova molta gente disposta a capirlo, e ancora meno ad agire di conseguenza. Tanto è vero che, negli ultimi dieci anni (destra, sinistra o «tecnici» al governo), i sovvenzionamenti alla cultura sono passati dal 2,1 per cento dell’intera spesa pubblica del 2000, all’1 per cento del 2008, allo 0,2 per cento o poco più dell’ultimo anno, laddove Francia e Germania, che pure stanno facendo i conti con la grande crisi, vi hanno investito, rispettivamente, l’1 e l’1,5 per cento. Ma non basta: secondo l’ultimo rapporto di Federculture, con i nuovi tagli agli enti locali dal 2012 i comuni dovranno ridurre la spesa per la cultura di 7,2 miliardi l’anno. Tra il 2005 e il 2009 il settore ha perso il 15 per cento delle risorse e negli ultimi dieci anni lo Stato ha ridotto il proprio impegno nella cultura del 32,5 per cento.

L’idea di base, insomma, largamente presente in tutto il mondo battuto dalla «tempesta perfetta», ma estremizzata dal nostro Paese, è che « la cultura è un lusso » che non ci possiamo più permettere, un «vuoto a perdere» che ingoia risorse più utili altrove. Eppure, come ha scritto Christian Caliandro, autore con Pier Luigi Sacco del libro Italia Reloaded. Ripartire con la cultura, «non ci potrebbe essere quasi nulla di più sbagliato e controintuitivo, proprio in un momento del genere. Ridurre, comprimere, soffocare, eliminare la produzione e la fruizione culturale vuol dire, molto semplicemente, segare il ramo su cui si è seduti. Cancellare le proprie chance presenti e future; condannarsi all’impermanenza».

 

Del resto, la Storia dovrebbe insegnarcelo (ma ci vorrebbe cultura anche per quello…) Come ci hanno recentemente spiegato il premio Nobel per l’economia Paul Krugman e tanti altri, avremmo già la strada spianata da chi aveva affrontato la Grande Depressione ed era riuscito a uscirne. Tanto per dire: Franklin Delano Roosevelt. Invece di seguire il programma di austerità del suo predecessore Hoover, il presidente del New Deal, come ha notato Barbara Spinelli su «la Repubblica», «aumentò ancor più le spese federali. Investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà». Purtroppo, aggiunge la Spinelli, «non c’è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l’Italia, e l’Europa».

Già: addirittura una «catarsi». Ma è proprio quello che ci vorrebbe. Roosevelt, infatti, non mise solo i disoccupati a scavare buche e a riempirle, come tanto spesso si dice. Tre dei più importanti progetti della Works Progress Administration, i più singolari, innovativi e duraturi, furono quelli compresi nel cosiddetto Progetto Federale numero 1, altrimenti noto come Federal One, che sponsorizzò per la prima volta piani di lavoro per insegnanti, scrittori, artisti, musicisti e attori disoccupati. Il Federal Writers’ Project, il Federal Theatre Project e il Federal Art Project misero al lavoro per qualche anno più di ventimila knowledge workers (come li chiameremmo oggi), tra i quali c’erano Richard Wright, Ralph Ellison, Nelson Algren, Frank Yerby, Saul Bellow, John A. Lomax, Arthur Miller, Orson Welles, Sinclair Lewis, Clifford Odets, Lillian Hellman, Lee Strasberg (il fondatore del mitico Actors Studio) ed Elia Kazan.

Non si trattò di elemosina: checché. Oltre a produrre opere d’arte (migliaia di manifesti, disegni, murales, sculture, pitture, incisioni…), gli artisti plastici e figurativi vennero impiegati nella formazione artistica e nella catalogazione dei beni culturali, e crearono e resero vivi anche un centinaio di community art centres e di gallerie in luoghi e regioni in cui l’arte era completamente sconosciuta. In tre anni, nella sola New York, più di dodici milioni (12.000.000!) di persone assistettero agli spettacoli teatrali incentivati dal Federal Theatre Project. Quanto al Writers’ Project, che costò ventisette milioni di dollari in quattro anni, produsse centinaia di libri e opuscoli, registrò storie di vita di migliaia di persone che non avevano voce e le classificò in raccolte etnografiche regionali, ma soprattutto, con le American Guide Series, contribuì a ridare forma all’identità nazionale degli Stati Uniti, che la Grande Depressione aveva profondamente minato, fondandola su ideali più inclusivi, democratici ed egualitari. E scusate se è poco.

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6 Commenti

  1. molto interessante, grazie per la condivisione: circa la validità del pur nobilissimo paradigma rooseveltiano verrebbe però da ricordare un’osservazione che da diversi parti viene ormai fatta, a segnalare la peculiarità del nostro frangente: allora c’era da contrapporsi al modello e alla propaganda del “socialismo realizzato”, mentre oggi, venuto meno lo spauracchio, si può semplicemente fare a meno della cultura, coem di tante altre cose….

  2. coloro che si avventurano nella strada intrapresa da Tremonti dovrebbero perlomeno essere bravi a specificare che per colpa di quelli che hanno fatto i furbi per molto tempo dragando le risorse organizzando eventi culturali in modalità rapace(o per essere più concreti trattando i teatri lirici,che probabilmente per l’ordine normale delle cose non possono essere mai in attivo,con la mentalità di un bieco comitato d’affari)hanno fatto finire prima i soldi. Finché non si sposa l’idea del protagonista degli ultimi fuochi di fitzgerald per cui ogni tanto bisogna fare un film in perdita per ringraziare il pubblico che ha permesso di restare in pista.Il problema è che se non si abbandona una mentalità mercantile tout court possiamo auspicare tutte le rivoluzioni culturali possibili senza riuscire cavare il famigerato ragno dal buco

    http://foolsjournals.files.wordpress.com/2013/04/hands-street-art-project-in-spain-10.jpg

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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