Guadalajara, un luogo comune

(è arrivata finalmente l’estate e m’è venuta voglia di partire; come facevo una volta, per davvero!)

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di Gianni Biondillo

Non ricordo chi scrisse che i giornalisti sono pezzenti che dormono in alberghi di lusso, ma credo che la definizione la si possa estendere anche agli scrittori. Sono a Guadalajara, invitato con altri colleghi alla Fiera Internazionale del Libro, la manifestazione più importante del latino-America, e mi hanno dato una sistemazione al Plaza che è più grande del mio appartamento milanese. Non posso dire che i messicani non siano ospitali, insomma. C’è pure la bottiglia omaggio di tequila sul tavolo, cosa mi manca? È la prima volta che vengo in Messico e m’è toccata la regione che riassume  tutti i luoghi comuni messicani: sono originari del Jalisco i sombreri, i poncho, i mariachi, e Tequila è una cittadina di queste parti, dove è nato il famoso liquore. È come andare per la prima volta in Italia e vedersi catapultato in una pizzeria a Napoli, mentre uno vestito da pulcinella ti canta una canzona accompagnato da un mandolino. Roba da far mancare i sensi.

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Ovviamente, proprio per questo, cerco di stare il meno possibile in fiera e mi gusto la novità del viaggio, quando mi ricapita, insomma? C’è come una doppia anima in me: quella dell’architetto, la professione che ancora insisto a segnare sulla mia carta d’identità, e quella dello scrittore. Una sorta di dottor Jeckill e mister Hyde. Ogni volta che viaggio i due litigano: la parte razionale, logica, progettuale, organizzerebbe il viaggio fin nei minimi particolari, l’altra, quella più istintiva, andrebbe così alla ventura, come capita. Così è anche qui, a Guadalajara: giro per il centro con la guida in mano, consultando di continuo la mappa della città (e qui è l’architetto), ma ogni tanto mi viene l’istinto di chiudere il tutto di lasciarmi trasportare dal caso (e qui è lo scrittore).

Devo dire che l’arrivo in città non è stato particolarmente entusiasmante: Guadalajara è la seconda città del Messico, supera i 5 milioni di abitanti, ma più che l’aspetto di una metropoli ha quello di una smisurata periferia anomica, con edifici di uno-due piani, spalmati a perdita d’occhio ovunque e strade larghissime di lunga percorrenza. Una specie di scenario per un film fatto di inseguimenti di autovetture, all’americana. Fortunatamente il centro, per quanto piccolo, nobilita questa mia prima impressione. A partire dalla particolarità della Cattedrale che ha su ogni lato del suo perimetro una piazza, così da avere un particolare sistema di spazi pubblici, Las Cuatos Plazas, ognuno differenziato per attività e percorsi. E qui è l’architetto che parla. Ma lo scrittore si lascia affascinare da altro: dai lustrascarpe, ad esempio. Ce n’è dappertutto, chi portandosi dietro le cassette di legno con tutta l’attrezzatura, chi con degli appositi trabiccoli per far accomodare al meglio il cliente. Più che in un altro mondo mi pare d’essere in una bolla del tempo. Da quant’è che sono spariti dall’Italia i lustrascarpe?

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Mi incammino verso Plaza de Armas dove c’è il Palacio de Gobierno, qui nel XIX secolo fu dichiarata l’abolizione della schiavitù in Messico. Dentro al cortile prendo la scalinata principale e ho un vero e proprio shock: l’intero vano della scala è affrescato da un colossale murales di José Clemente Orozco, sulla mia testa campeggia sulla volta un enorme Miguel Hidalgo con una torcia fiammeggiante in mano, e io, che è la prima volta che vedo un opera dei tre famosi muralisti messicani (Orozco, Siqueiros e Rivera) quasi non ci credo, sono commosso fino alle lacrime. Ma devo andare oltre, non ho molto tempo a disposizione: supero la Plaza de la Liberaciòn, dove su un palco un gruppo di mariachi sta facendo cantare l’intera piazza,  butto un occhio vago all’atrio del  Teatro Degollado e mi immetto in Plaza Tapatia. Sto puntando verso l’Hospicio Cabañas, edificio neoclassico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1997. È domenica mattina e ovunque, lungo la strada, c’è gente. Sono tanti, tantissimi: gruppi di amici, bambini, famiglie, anziani. I ragazzi giocano a schizzarsi dalle fontane, alcuni, addirittura si gettano vestiti nell’acqua. Mi guardo attorno e mi accorgo che per le maggioranza sono ragazzi. È un popolo giovane quello che vive questa città, un popolo vitale, spensierato, sembra lo struscio di una città di provincia, non di una metropoli di cinque milioni di abitanti.

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Pago il biglietto ed entro in quello che era un monastero cattolico e ora è un museo. C’è un sole caldo che sembra far brillare di giallo la pietra arenaria delle mura. Poi entro nella piccola chiesa, anch’essa completamente affrescata da Orozco. È una sorta di cappella sistina del muralismo, i colori sono cupi e intensi, le figure deformi ed espressive. Mi emoziono, quasi sdraiato a terra, per meglio vedere le volte. Comprendo appieno quello che voleva dire Luis Cardoza y Aragòn, quando scriveva: “Los tres grandes grandes son dos: Orozco.”

Bene, la mia anima d’architetto, il mio Dottor Jeckill è soddisfatto. Mister Hyde no, per nulla. Hai voluto seguire la guida – sembra dirmi -, leggere, interpretare, studiare la mappa, seguire l’itinerario? Bene. Ora perditi. Ed è quello che ho fatto. In fondo solo così puoi conoscere davvero una città, quando fai strame della mappa, quando ti perdi nelle sue viscere. Che è la sensazione che provo girando per il caotico Mercato Libertad, una sorta di mercato rionale che vende qualunque cosa: scarpe, abiti, alimentari, argenteria, giocattoli, bevande… c’è una massa enorme di persone che contratta, vende, compra, gira curiosa, preme, struscia, mangia. Anch’io ho fame. Giusto il tempo di acquistare un regalo per mia moglie, uno scialle tessuto davanti ai miei occhi da una piccola india, e poi mi siedo al banco di una specie di self-service improvvisato dove ordino in piatto di tacos con gamberi. Passerò altri giorni a Guadalajara: visiterò il borgo coloniale di Tlaquepaque ormai inglobato nella periferia della città, mangerò indossando un poncho in un locale dal nome curioso, il Santo Coyote, che pare un villaggio vacanze per turisti, imparerò il modo corretto di bere el tequila da queste parti (accompagnato da un bicchierino di sangria – succo di pomodoro speziato), conoscerò l’entusiasmo degli abitanti di Guadalajara. Ma quella piccola solitudine di fronte al mio piattino di tacos, in mezzo allo sciamare vitale dei visitatori del mercato, quella, resterà forse il più intenso dei miei ricordi.

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(l’articolo uscì per un V&S del 2009, ma non ricordo quale. Le fotografie sono mie)

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2 Commenti

  1. Grazie di questo testo, un po’ mi è sembrato di essere là. Mi piace molto la penultima foto, somiglia molto ad alcune che faccio io! :)
    In Messico la sangria è succo di pomodoro speziato? Qua è vino con la frutta (anche vino spumante a volte…ma solitamente quello rosso).

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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