Cinque poesie
di Domenico Cipriano
Da Il centro del mondo, Transeuropa/Nuova poetica, 2014.
La campagna (1-5)
1.
La staccionata resta fissa nello sguardo
si attarda a misurare la luce
il passo lento del veggente scruta il verde
e torna a mescolare il suono del fiume.
Siamo fatui e sorpresi da tanta calma, la notte non tarderà
ma il suono di chi non c’è si mimetizza all’aria.
Nuvole sui passi lascivi, le impronte
ci costringono a recuperare il senso della presenza:
ogni chiaroscuro e la sua ombra ci convincono
dell’eternità nascosta nelle cose.
Gli oggetti vivono nel pensiero e la musica
riprende le forme di involucri geometrici
il suo fiato è già regolare dopo l’affanno del divenire.
–
2.
Oggi assaporiamo il sole
tra giri di armonica e una tettoia da ricostruire
sulla casa che ondeggia ai bordi del fiume
tra i numerosi volti degli insetti
e le specie di pesci d’acqua dolce.
È come intrufolarsi nel sogno di qualcuno
che si conosce appena, liberarlo dagli incubi più profondi
e coglierne solo immagini salutari.
Un viaggio dentro il sogno che ci resta
da compiere ogni giorno
fino a che la disperazione non si piega
lasciandoci un segno del perdono.
–
3.
Cosa è stato delle tenebre
se ora sciogliamo tutto nella cenere
ovunque viaggiamo in spazi già vissuti,
tra il verde disteso della campagna
e le staccionate bianche che ridisegnano i contorni.
Lungo strade semideserte e disseminate di lampioni
versiamo il nostro vino che ci ha scoperti antichi
radicati alla orme scrostate nella terra
alla polvere che imprime il sole e al fango
che nasconde i vermi. Non è più tempo di agonia,
la mente ci rinomina, ci trasmette il senso di chi manca,
le loro storie camuffate nei segni impressi alle stagioni,
nel cambio degli umori all’albeggiare.
–
4.
Per ogni giorno di disperazione ricambiamo
con un brindisi alla memoria
perché ognuno è la prova della vita inimitabile,
ognuno rinnega il passato prima di colarci dentro.
Questa ciclica visione degli eventi
non torna mai veramente indietro
e siamo altro a ogni legaccio dell’esistenza
in ogni stanza dove anneghiamo la disperazione
o rivalutiamo la speranza. Un nuovo mondo,
una nuova esistenza per ogni parola pronunciata,
anche se riversiamo simili le croci nei cimiteri
e parliamo simili discorsi,
non restano i morsi non consumati, i volti dimenticati.
–
5. finale
Sono restato seduto dietro una panchina per anni
il cielo è rosso vermiglio e ricordo la tua pelle liscia
quando mi scorre il latte sulle guance.
La notte è un piedistallo e restiamo immobili solo io e te
con gli occhi che sono camaleonti
sotto la luce dei lampioni. Il verde condiziona il giorno
schiarendo le tonalità del cielo
ora che tutto è disteso e senza confini
non si vedono più le staccionate
e il buio serve solo a consolare.
Voglio consegnarmi alle distese della terra fertile
lontano dal mare che paradossalmente
è sterile ed esplora. Qui nulla ti riconosce e inganna
c’è un profumo di uva secca e muschio
una finestra per il sole, senza un confine netto
tra vivere e sperare.
Grazie
Da ECCHIME. Antologia sinfonia
A immaginare una vita ce ne vuole un’altra
già pronta a disperdersi
già pronta a non
restituirsi niente a dimenticarsi anche le
parole.
Sembra di scherzare a notte fonda e solitaria
sembra di avere un’età distinta da qualcos’altro
uno stormo che gira attorno gridando
un profumo impreciso di carne bruciata
o un testamento o una casa da acquistare
non so dove
una luce che cambia come me senza sapere
a immaginare una testa più dura
un cuore diverso
una piccola foresta più dentro
dove c’è il respiro
Se fossi un artigiano riprenderei il lavoro
a costruire un comodino celeste
ad avere freddo di mattino vicino al ponte
a vedere i cipressi nel cielo colore del fiume
a parlarmi come a un giovanotto
e se non fossi che un provvisorio mortale
come mio padre come i miei fratelli
a discutere in treno fumando
e a bere liquori bianchi
e certe volte scivolare sulle caviglie come
una signorina nella neve come un ragazzo
con le scarpe nuove
qualcosa è sospeso come un roveto ardente
senza figura né parola
come stessi ben piantato in terra e insieme a
un’infinita altezza
come un lontanissimo mai nato
da qualche mattino i fantasmi mi parlano
appaiono dietro le finestre azzurre
mi toccano le spalle
mi respirano attorno al collo
come un suono di passi che d’improvviso s’alza e poi si smorza
in una quiete simile a sonno d’un animale
come se qualcosa vivesse dentro il rumore dell’acqua
dentro un nido dentro gli occhi chiusi
e io mi chiedo se il coraggio di vedere tremare
e crescere
possa essere il lievito del mio nuovo giorno.
Victor Cavallo
http://www.artnoise.it/victor-cavallo-io-sono-una-debolezza-del-passato/
Complimenti Domenico. Bravo, bei versi.
Vincenzo, grazie per le tue impressioni, come sempre. :)
“Sono restato seduto dietro una panchina per anni” – bello questo respiro lungo
r
grazie Renata, mi piace che hai colto la scelta di questi versi lunghi. :)
brividi.
grazie Natàlia per aver commentato questo “finale”. :)