les nouveaux réalistes: Claretta Caroppo

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Claretta Caroppo

Lavoro in una lavanderia a gettoni, di quelle che in uno stanzone contengono grandi lavatrici, otto per la precisione, tre da cinque chili, tre da sette chili e due da nove chili, più quattro asciugatrici. Il funzionamento è semplice: si inseriscono le monete in un distributore e si preme il tasto corrispondente alla lavatrice che si vuole utilizzare, si aggiungono poi detersivo e ammorbidente negli appositi scomparti, si preme il tasto di avvio. Il candeggio dura normalmente quarantacinque minuti, più tempo se si lava a 90 gradi. Le lenzuola andrebbero lavate a 90 gradi, a meno che non siano di seta o colorate, in quel caso vanno lavate a 40 gradi, con la bustina trattieni colore. La mia funzione è semplice, me ne sto seduto otto ore nella stanza attigua a quella della lavanderia e sono a disposizione tutte le volte che i clienti hanno bisogno di aiuto. A volte può capitare che i macchinari si inceppino, oppure che salti la luce, peggio ancora che il distributore in cui si inseriscono i soldi non fornisca il resto. Il cliente deve soltanto premere un tasto rosso e luminoso sotto la scritta Servizio Assistenza e la mia voce fuoriesce dall’altoparlante; il più delle volte i problemi si risolvono senza che io mi sposti dallo stanzino alla sala con le lavatrici, perché ormai conosco molti trucchetti per far funzionare le mie macchine. Non mi piace leggere durante il lavoro né sfogliare le riviste di cucina come Anna, la mia collega che fa il turno al mattino.

 

Passo le ore a fissare dalle telecamere la gente che si sussegue a fare le lavatrici, spero che sbaglino temperatura, gioisco quando scorgo qualcosa di rosso tra le lenzuola bianche e mi aspetto le facce deluse o incazzate dal bucato rosa, quando gli abiti si rimpiccioliscono, si infeltriscono, si smaterializzano, mi ipnotizzo a guardare come tutte quelle persone trascorrono il tempo dopo aver avviato il lavaggio o l’asciugatura. La sera, prima di chiudere, metto insieme la biancheria che è rimasta nelle macchine o che è caduta per terra, raccolgo tutto in una cesta di vimini per gli abiti smarriti. Il mio paradiso dei calzini è fatto di pois, righe, marchi Renato Balestra o Achille, a cui si aggiungono mutande di pizzo, mutande con gli animaletti, mutande a vita bassa, mutande contenitive, perizomi elasticizzati, culotte, ferretti, bottoni. I ferretti e i bottoni sono il nemico numero uno delle lavatrici, se si staccano dai reggiseni o dalle camicie sono costretto a piegarmi bocconi e a pulire i filtri e poi devo lavarmi le mani a lungo per togliermi di dosso quell’odore misto di laguna e pozzanghera. La maggior parte delle persone che usa le nostre lavatrici attende in religioso silenzio che le macchine abbiano finito di adempiere al loro dovere, se si annoiano giocano a Ruzzle, oppure chiamano gli amici con il cellulare, ma non riesco a capire cosa gli raccontino, perché c’è questa idiozia per cui riprendere con la telecamera è legale, ascoltare no. Per questo mi sento molto solo nella mia stanzetta, perché nessuna voce mi fa compagnia. I più giovani si annoiano ad aspettare. Lasciano la lavatrice a girare senza padrone per quarantacinque minuti, escono e attraversano la strada diretti al bar più vicino a prendere un caffè, ritornano quando tutto è finito, azionano l’asciugatrice ed escono a prendere un altro caffè, anche se l’asciugatrice ci mette appena otto minuti a terminare il ciclo. Qualcuno l’ho sorpreso a rubare le mutandine alle ragazze, o a mettere direttamente nell’asciugatrice i vestiti già lavati e bagnati che cadevano per terra e che venivano sollevati assieme alla polvere e alle macchie che si trasferivano dal pavimento alla loro massa umida. Chissà perché le persone sono più sporche se pensano di non essere viste.

 

Le peggiori clienti sono le ragazze che fanno le intellettuali, quelle che nell’attesa del lavaggio portano con sé un libro da sfogliare sedute sulle nostre panche e che, secondo me, leggono per finta. Purtroppo la telecamera non ha lo zoom e quasi mai riesco a scorgere i titoli di quei testi, ma mi immagino che i russi vadano per la maggiore e mi domando come diamine sia possibile leggere Dostoevskij con il rumore delle lavatrici in funzione, con il caldo asfissiante, l’aria consunta, il campanello che trilla ogni volta che qualcuno entra o esce dalla stanza e che io ho comprato e montato affinché la nostra lavanderia possa essere riconosciuta come quella con la suoneria divertente.
Ogni martedì, subito dopo pranzo, arriva un vecchietto molto alto; deve essere vedovo, credo infatti sia stato sposato a lungo, perché cammina come qualcuno che per anni è stato abituato ad andare in giro accompagnato, che ha fatto da sostegno alla camminata di un altro essere umano, mi immagino una moglie ammalata, minuta, con i capelli raccolti in una treccia da rifare ogni mattina. Mentre aspetta che la lavatrice abbia terminato il lavaggio, si muove su e giù per la stanza e ogni tanto si appoggia il braccio sinistro vicino al gomito destro, tocca una mano immaginaria di cui sente la mancanza; indossa tutti i martedì sempre gli stessi abiti: pantaloni di fustagno marroni, gilet grigio con lo scollo a V, una camicia a scacchi con piccole righe beige e grandi righe blu; le volte in cui non passeggia si addormenta su una panca con la testa reclinata, la bocca aperta, il mento lasciato cadere indolente, le braccia incrociate sul ventre piatto e io resto ad osservarlo dalla telecamera, mi aspetto che non si risvegli più, lo vedo sussultare al suono del campanello e non morire mai.

 

Il secondo martedì di Aprile sono saltato dalla sedia insieme a quel vecchietto dalla panca della lavanderia, il suono all’entrata è divenuto straziante quando è arrivata mia madre con un trolley gigante, blu elettrico, dozzinale, che doveva essere davvero pesante per come lo ha gettato per terra. Ha scelto la lavatrice con il carico da nove kg e l’ha riempita tutta, senza fare una selezione tra il cotone, la lana, la seta, e mi sono chiesto se anche quando ero piccolo lavasse tutto indistintamente a 30 gradi, se fosse per questo che i miei calzini di spugna erano sempre un po’ giallini sulle punte e sui talloni. Mia madre si è seduta accanto al vecchio e hanno parlato ininterrottamente per quarantacinque minuti, per via di quella cosa dell’illegalità non ho potuto sentire cosa si sono detti, ma hanno riso, e si sono fermati per qualche secondo ad ascoltare un rumore, o una voce, chissà, che credo provenisse da fuori. Sono stati fermi come se avessi premuto il tasto pausa alla telecamera da cui potevo vederli. Non ho aspettato di scoprire che cosa mia mamma avrebbe tirato fuori dalla lavatrice, da lì avrei potuto capire molto, ma mi sono distratto immaginando che il vecchio le avesse chiesto quelle cose banali che le persone si domandano appena si sono conosciute e che lei gli avesse mentito dicendogli che figli non ne aveva, o che erano morti, o criminali. Avrei voluto sentire che cosa si erano detti, e poi sarei voluto entrare nella stanza insalubre e vischiosa della lavanderia e dire ‘Piacere, sono Carlo, il figlio della signora. E sono vivo e non sono criminale e questo lavaggio glielo regalo’. E poi andare via, lasciarli in quell’imbarazzo e nel frattempo girarmi una sigaretta e accenderla per la prima volta nello stanzino dove è vietato fumare, chiamare il mio responsabile e chiedergli di cambiare zona, città, di assegnarmi ad un’altra lavanderia.

 

Tutte le lavatrici hanno un nome, all’inizio avevo attribuito a ciascuna un numero, ma alcuni numeri mi piacciono più di altri, mentre i nomi per me sono tutti uguali e non volevo che la manutenzione della 7 o della 3 fosse più accurata di quella della 8 o della 4. Le lavatrici piccole si chiamano Donna, Jenni, Betty, Sasha, quelle medie Zerlina, Violetta, Manon, le più grandi Novita e Felicita senza accento, che di per sé mi pareva un elemento di disparità, mentre anche così si capisce benissimo la gioia che ho provato quando ci sono state portate dal magazzino dalla sede centrale. Le asciugatrici non hanno un nome, non se lo meritano, fanno quello che dovrebbero fare il sole o il vento, anche se in questa città non ci sono né sole né vento; le asciugatrici sono per persone che non sanno aspettare, che quel giorno in particolare vogliono mettere un vestito in particolare, ed io non le capisco, perché anche gli abiti, come i nomi, alla fine sono tutti uguali, l’ho imparato in questi sei anni e mezzo di lavanderia a gettoni, me lo ricordo ogni volta che guardo il cesto della biancheria smarrita.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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