Salentitudini tondelliane – terza parte
Trent’anni dopo Ragazzi di piazza. Che cos’è diventato il Salento di Tondelli
TERZA PUNTATA / Centro storico, passato prossimo
qui la prima e la seconda tappa
di
Giorgia Salicandro
Il centro storico era un deserto di pietra e polvere, nell”86. «Troppi finanziamenti vanno perduti per incuria a Lecce» scrive il Quotidiano, giovedì 5 giugno. Il 22 tuonerà «Là dove l’antico diventa degrado», preannunciando un book-inchiesta in collaborazione con il Movimento per la salvaguardia e lo sviluppo del centro storico. «Qui un balcone tenuto su a malapena da rudimentali puntelli di legno si è trasformato in un “erbario” pensile – spiega puntuale la didascalia – ciuffi verdi adornano anche la facciata di una casa di vico Storto; in via dei Mesagnesi una casa è completamente sventrata». Palazzo Adorno, Palazzo Dei Celestini, l’ex Convitto Palmieri attendono un compassionevole restauro. Il soffitto a cassettoni del Duomo minaccia di staccarsi in pezzi.
«La sfortuna di vivere nell’amato centro storico» titola un articolo sul rione delle Giravolte, ed è quasi un sospiro che chiude il cerchio. Pasolini? Anna Maria Ortese? No: Fernando D’Aprile, cronista del Quotidiano di Lecce, il 26 aprile 1987. Un piede nel terzo Terzo millennio, il cuore fedele al 1950, ostinato come una vedova a lutto. «La risposta, la prima che si incontra per strada, viene dalle facce ostili dei ragazzini. Notano il cronista e il fotografo accompagnati da una persona del luogo. “’Nfame” gli urlano da lontano, poi gli girano le spalle. Poco prima hanno visto girare tra le strette viuzze del rione una volante della polizia. L’hanno considerata un’intrusione del “loro” territorio, una possibile minaccia ai loro “giochi”, sempre più spesso poco innocenti. Lo testimoniano i frantumi di vetri di auto che si scorgono qua e là: un colpo secco a una candela e via. Nelle loro lunghe e vuote giornate vagano, deridono, minacciano chi non li sopporta. Vanno per terrazzi, si intrufolano nelle case e quando si trovano difronte agli occupanti tirano fuori una scusa spavalda. A lato della chiesa del Rosario, tra due pietre sconnesse, spunta una decina di siringhe usate per l’eroina. Amaro paradosso: la via si chiama Santa Maria del Paradiso». Niente chiacchiere, ricorda chi oggi ha quarant’anni o più. Davvero il centro storico non era un paese per i leccesi.
Prima che le mammelle in pietra si tingessero d’oro, a metà anni Novanta, con la Legge speciale sul barocco, con i fondi della Regione Puglia, con il Piano Urban, prima che famiglie annidate come topini alle Giravolte venissero rigurgitate verso l’esterno, in quartieri siglati a progetto, prima che le memorie del peccato di sua maestà la Mara – la più famosa transessuale che Lecce ricordi – venissero murate vive, un manipolo di giovani affamati trovò casa in quella polvere. Si fece posto nella crepa aperta da affitti d’occasione, che «te li regalavano, i locali», in uno spazio di mezzo della storia in cui nessuno voleva entrare. Un campo aperto.
Sulla pagina de L’Espresso del 14 settembre 1986, una foto ritrae un gruppo di ragazzi con una grande radio in mano. È la crew della stilista ventiquattrenne Cicky Pai, frizzante come una Shirley Temple, occhiali da sole, vestiti sgargianti, sgargiante anche il muro alle sue spalle, con un graffito colorato a dovere.
Tra le pareti zuppe del centro storico, negli interni sciupati dalla dimenticanza, “creatività al potere” assunse un significato del tutto peculiare, e saldamente avvinghiato alla storia degli anni a seguire. Lì, agli albori della rivoluzione, arrivò Pier. «Lungo, alto, con una camicia a maniche corte. Me lo ricordo. Era un ragazzino curioso, da taccuino di viaggio, appuntava tutto, i dialoghi, gli incontri, faceva molte domande». Francesco Spada fu il suo testimone privilegiato. Dopo varie esperienze artistiche a Roma e in altre città, è tornato per formare il gruppo Atlantide-Nuovi scenari di comunicazione – scrisse di lui il giornalista su L’Espresso – gli otto membri del gruppo hanno restaurato i bellissimi locali di Palazzo Guarini nella centrale via Palmieri, “la via” dicono “della nuova imprenditorialità giovanile leccese”.
In via Palmieri, alle otto di sera, non scatta il coprifuoco già da qualche anno. Metterci piede, per un leccese, significa negoziare con teorie di esseri verticali, immobili, come vittime di una fattura, oppure ondeggianti da una sponda all’altra, impossibile il sorpasso, rimbalzanti tra le volute dei prospetti e quelle in versione domestica, esposte sulle bancarelle, vittoriosi di selfie, colanti gelato come statue della libertà.
Capelli biondi, capelli rossi, occhi verdi e azzurri, guance di latte, lentiggini sul viso, per ogni donna c’è una rosa, per ogni uomo un pegno d’amore, per ogni amore un venditore indiano, bengalese, pakistano, due euro una rosa per il vostro amore, altrimenti un accendino per le sigarette, quello lungo per il fornello a gas. Il negoziato si ripete ancora e ancora, a ricatti alterni, mentre qualcuno dal marciapiede ingorgo sputa una bestemmia, le buste della spesa rotte in terra.
Due ore più tardi, il solo coprifuoco sarà quello dei residenti, quando ai turisti si unirà il popolo della notte, come riemerso dai gorghi di piazza Mazzini, trent’anni prima, brulicante movida, movida leccese, così detta, un brand nel brand dell’età d’oro del Salento. E bar, e pub, e ristoranti macineranno ordinazioni e post su Instagram, fino a notte fonda. Oggi anche i bellissimi locali di Palazzo Guarini si sono convertiti alla gastronomia.
«Era un luogo abbandonato, volevo farlo diventare uno spazio contemporaneo. Atlantide era il primo studio multimediale nel Mezzogiorno, allora lo definivamo multidisciplinare. Una trentina di ragazzi. Facevamo interior design, artigianato, allestimenti, cura di progetti urbani, videoarte, alla preistoria della tecnologia». Da qualche anno, per Francesco Spada, mettere piede in via Palmieri non è più un’avventura quotidiana. «Diventammo un fatto di costume. Avevo curato la direzione artistica del Quotidiano di Lecce. A 27 anni ero alla Biennale di Venezia. Uliano Lucas, Ferdinando Scianna sono passati dal mio studio. Il New York Times arriva a Lecce grazie a Francesco Spada. E anche Pier Vittorio è arrivato qui per raccapezzarsi su questo nuovo humus contemporaneo. Lungo, alto, a maniche corte, faceva molte domande. Pensavo fosse il solito giornalista, ma aveva l’aria molto più riflessiva, curiosa. Sottile».
Nel 1986 nel centro storico di Lecce c’erano solo tavernose putee de mieru, lu Totu, l’Angiulinu, lu Sciacquitti, lu Frangiscu, centesimi per il vino, uova sode, pezzetti di cavallo al sugo, e il catarro dei vecchi singolarmente sodale ai nuovi spleen dei ragazzi. Si sostava per dei mesi, l’arrivo della Questura era il segnale che bisognava cambiare piazza. L’impero della Mara splendeva ancora di un’ombra perfetta, nelle migliaia di cubature guadagnate al mercato consolatorio della notte. Il Cinema Odeon, con le gambe di Edwige Fenech, si incaricava del turno di giorno, ed era l’unico incarico che avrebbe mai accettato per il bene del divertissement locale.
Di fronte a casa mia c’è una bella bottegona che è una sciccheria: Bruno Petrachi avrebbe aizzato più volte una Woodstock dell’orgoglio leccese nel territorio off limits della villa comunale, riabilitato d’occasione. In una gabbia seminterrata, proprio al centro della villa, una lupa viva giaceva al guinzaglio. Avrebbe dovuto ricordare i fasti romani della città, quell’animale affamato. I ragazzi, ogni tanto, le lanciavano mezzo panino. La siringa già carica finiva per cadere in terra.
«Il centro storico può e deve tornare a vivere». Vivere, rivivere. Parole che si rincorrono, in quegli anni, ora come denuncia, ora come proposito. Le Amministrazioni arrivarono adagio. Senza freno a mano, vi arrivarono i ragazzi dell”86.
In ordine di citazione:
G.F.S., «Troppi finanziamenti vanno perduti per incuria a Lecce», Quotidiano di Lecce, 5 giugno 1986
Là dove l’antico diventa degrado, Quotidiano di Lecce, 22 giugno 1986
F, D’APRILE, La sfortuna di vivere nell’amato centro storico, Quotidiano di Lecce, 26 aprile 1987
P.V. TONDELLI, Ragazzi di piazza, «L’Espresso», 14 settembre 1986, ora in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a cura di F. PANZERI, Milano, Bompiani, 2001, pp. 251.254.
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Bene, letto tutte d’un fiato le tre puntate. Lessico ficcante, immagini mai banali. Grazie!
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