Il silenzio che resta

di Francesco Borrasso

Le luci artificiali della ruota panoramica brillavano a poca distanza da un cielo livido di fine febbraio, un contrasto rosso e blu e giallo. Marta se ne stava seduta sopra una panchina, la sciarpa avvolta intorno al collo, una sigaretta lunga tra le dita. Un uomo con il viso colorato di bianco restava immobile, a due passi da lei, le persone di passaggio, a volte, gettavano una monetina in un cappello consumato vicino ai suoi piedi. Poco distante c’era il carretto dello zucchero filato e Marta continuava a guardare una delle cabine della grande ruota panoramica che girava lentamente. C’era un’aria fredda e lei sapeva che la doveva smettere di pensare al fatto che siamo tutti minuscoli e fragili e mortali; smetterla di dirsi che ci sono forze che ci sovrastano e che non siamo in grado di controllare.

Devono essere state quelle forze, pensò, deve essere stato per colpa loro.

La ruota panoramica si fermò, Gianmarco scese dalla sua cabina e correndo si avvicinò a Marta, aveva il viso arrossato per il freddo e forse per l’eccitazione.

«Com’è andata?», chiese Marta.

«Bene, ma ho avuto paura».

«Hai avuto paura?».

«Sì, lì in alto la cabina si è fermata e ho avuto paura che non ripartisse più».

«Saresti rimasto lì sopra per sempre?», chiese la madre, alzandosi dalla panchina.

Gianmarco non rispose, cercò la mano di Marta e la strinse.

Passarono vicino al tiro a segno, c’erano ragazzini in piedi che imbracciavano piccoli fucili e sparavano contro lattine di metallo, una musica allegra veniva via dagli altoparlanti del parco giochi, c’erano delle casse affisse ai pali della luce. Marta comprò per lei e per il figlio delle noccioline caramellate, aprì la bustina con i denti.

«Ti sta divertendo?».

Gianmarco non rispose, incantato a guardare una giostra a forma di piovra; aveva delle braccia meccaniche che simulavano i tentacoli, e su ogni tentacolo c’erano dei sediolini per prendere posto.

«Posso fare un giro lì?», chiese.

Quanto tempo era passato da quel giorno? Oggi Marta proprio non riusciva a ricordarlo, due mesi? Tre mesi? C’era qualcosa tra quelle giostre che le condizionava il ricordo.

«Vuoi fare un giro sulla piovra?».

«Sì, se vuoi vieni anche tu».

«Io?».

Pagarono il biglietto e si posizionarono uno dietro all’altro. Quando un uomo magro e molto alto azionò il pulsante di avvio, la piovra incominciò a girare su sé stessa, muovendo prima piano e poi sempre più veloce le braccia meccaniche. Il vento che la colpiva sulla faccia sembrava ghiaccio, Marta chiuse gli occhi e ricordò di quando Antonio l’aveva portata per la prima volta sulla neve, ricordò la sensazione di gelo sulle mani nonostante i guanti, il modo in cui sorrideva, rivide la sua faccia la volta che gli disse di essere incinta. Gianmarco, appena qualche metro davanti a lei, tentava di tenere gli occhi aperti, quando le braccia meccaniche si spostavano verso l’alto in lui prendeva vita l’illusione di poter toccare quasi il cielo, e allora gli veniva forte la voglia di staccare le mani dalla sbarra di ferro e allungare le braccia verso l’alto, ma non lo faceva. I giri della piovra aumentavano di intensità man mano che il tempo passava, Marta sentì delle gocce schizzare via dagli occhi, scorrere lungo le guance appena un po’ e poi le senti spinte indietro dal vento. Si accorse che stava piangendo quando aprì le palpebre e tutto quello che vide sembrò essere sommerso dall’acqua. Perché non aveva lasciato scritto niente? Almeno a lei avrebbe potuto dire qual era il motivo. E invece no, continuava a pensare, invece no, mi hai trattata come hai trattato tutti gli altri.

Scesero dalla giostra, Gianmarco sentiva il cuore pulsargli dentro le orecchie, i suoni del parco giochi si univano al tonfo dei suoi battiti cardiaci e tutto quel chiasso gli fece quasi mancare il respiro.

«Mamma ma perché stai piangendo?».

«Chi piange? È stato il vento… chi piange».

Il bambino abbassò la testa e si guardò la punta delle scarpe, prese il sacchetto di noccioline dalla tasca del cappotto e ne masticò tre, in contemporanea; sentiva che erano dolci, molto dolci e poi verso la fine un pizzico di sale lo sorprendeva ai lati della lingua.

Fiancheggiarono La casa stregata e poi, andando leggermente verso sinistra, si trovarono davanti al Labirinto degli specchi. Tutto il buio che li circondava veniva smorzato dalle lucine colorate delle attrazioni elettriche, e i suoni e i tonfi delle giostre arrivavano alle orecchie di Marta come un’eco; si sentiva svenire, aveva continuamente la sensazione di svenire, ma poi non succedeva mai.

«Andiamo nel labirinto?», chiese il figlio.

Ci sarebbe dovuto essere anche papà, pensò; poi si ricordò di quando, qualche anno prima, lui e il padre erano andati insieme sulle montagne russe, ricordò che quella giornata avevano riso molto, e che erano stati bene.

«D’accordo, ma tra un po’ dobbiamo andare via».

«Mi manca papà», disse Gianmarco.

Quelle parole gli uscirono dalla bocca da sole, sapeva che non avrebbe dovuto dirle, perché ogni volta che le diceva, la madre faceva una strana espressione del viso e cambiava umore e delle volte lui l’aveva vista anche piangere, dopo quella frase.

Iniziarono a camminare più veloci, fecero il biglietto ed entrarono.

«A te non manca?», chiese il figlio.

«Lo sai che mi manca».

«Non ne parliamo mai».

Videro le loro figure storpiate da uno specchio che li allungava, proseguendo si videro ingrassati e poi ancora, molto bassi.

«Quale strada si prende per uscire?», chiese Marta.

«Mamma ma sei una schiappa».

«Come sarebbe a dire?».

«Vienimi dietro».

«Ma non lasciarmi la mano», fece lei.

L’aria, all’interno di quel labirinto, era strana, sembrava artificiale, di plastica. Le luci bianche appiattivano tutte le prospettive e dopo qualche minuto in cui continuavano a girare a vuoto Marta dovette fermarsi perché le girava la testa.

«Si respira male, qui dentro», disse.

Come aveva respirato quel giorno? Si ricordava solamente che quando lo aveva visto aveva sentito le gambe diventare molli e poi si era ritrovata seduta sul pavimento e non sapeva come era successo. Una pressione forte contro il petto e sulla gola, le prime volte che aveva tentato di ingoiare la saliva, quasi stava per rimanere strozzata. Poi vomitò, sulle mattonelle bianche, vomitò quasi di fianco ad Antonio.

Furono fuori e Marta raccolse l’aria fredda a grossi bocconi, aprendo il torace, sentendo il gelo dentro la bocca, sulla lingua, fino allo stomaco. Si era alzato un vento forte che le spostò i capelli all’indietro, Gianmarco aveva lo sguardo fisso per terra, sentiva che qualcosa, dentro quel Labirinto degli specchi, non era andato come sarebbe dovuto andare. Lasciò la mano della mamma ed andò a sedere sopra una panchina, alzò il cappuccio sulla testa e mise le mani dentro le tasche del capotto.

«Che ti succede?», chiese Marta, affiancandolo sulla panchina.

Aveva la sensazione che la pelle le andasse troppo stretta. Pensò alla sua adolescenza, a come fosse scivolata via, a come l’età adulta era arrivata veloce a spazzare via tutto e a ricoprire ogni cosa di dolore. Si guardò intorno, seppe con la lucidità con cui si sa in che modo respirare, che tutto quello su cui posava lo sguardo era in decadenza, ogni cosa stava andando via, lei per prima.

«A volte penso che è stata colpa mia», disse Gianmarco.

«Non pensarla mai una cosa del genere, mai!», disse con voce alta, la madre.

«Perché l’ha fatto? Io gli volevo bene».

Iniziò a piangere, un pianto dolce, leggero, i lacrimoni gli si affollavano dentro lo sguardo e poi cadevano via. Marta lo circondò con un braccio e lo strinse a sé, ma il suo movimento mancava di convinzione.

«A volte gli adulti fanno delle cose stupide».

Lui alzò la testa e iniziò a guardare qualcosa in lontananza.

«Cosa guardi?».

«C’è un palloncino».

«Dove?».

«Lì», disse Gianmarco, allungano un braccio e indicando con il dito un piccolo puntino colorato che saliva nella notte.

«Ecco, lo vedo», disse Marta e sorrise e pensò a tutto il sangue sul pavimento, al modo giusto in cui avrebbe dovuto dare la notizia a suo figlio. Come glielo avrebbe spiegato? Tra non molto me ne andrò anche io? Si chiese. Potrei morire, tutti potremmo morire.

Si girò in testa questa parola: morire. Somigliava ai cieli di neve. Poi tornò a guardare il palloncino e tolse il braccio dalle spalle di Gianmarco.

«Andiamo a casa?», chiese.

«Ok».

«Pizza?».

«Pizza».

Erano quasi fuori dal parco quando Gianmarco si fermò.

«Ehi, perché non cammini?».

«Stavo pensando».

«A cosa?».

«Secondo te, quel palloncino, che fine ha fatto?».

Marta restò qualche secondo in silenzio, da lontano si sentivano le automobili al di là del parcheggio, si sentiva il fruscio del vento tra i rami degli alberi e stormi di uccelli si alzarono in volo all’unisono, facendo strane traiettorie, mischiandosi.

Aveva telefonato alla madre di Antonio, e glielo aveva detto per telefono, aveva detto: mio marito, aveva detto mio marito e la donna all’inizio non capiva.

«Non lo so», aveva risposto Marta continuando a guardare il figlio.

«Secondo me va da qualche parte che non possiamo vedere», disse Gianmarco.

«Dici?».

«Magari come papà».

Gli si avvicinò e gli prese nuovamente la mano, la pelle fredda e secca della sua faccia quasi le faceva male.

«Magari sì», disse Marta.

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

“A man fell”, dell’eterna diaspora palestinese

di Mariasole Ariot
Un'esistenza che sanguina da decenni e protesa a un sanguinare infinito, finito solo dal prosciugamento di sé stessa.

Amelia Rosselli, “A Birth” (1962) – Una proposta di traduzione

di Marco Nicosia
Nel complesso, la lettura e la traduzione esigono, come fa l’autrice, «[to] look askance again», di guardare di sbieco, e poi di nuovo scrutare e ancora una volta guardare di traverso

Sopra (e sotto) Il tempo ammutinato

di Marco Balducci
Leggere queste pagine-partiture è in realtà un perdersi nei suoni: suonano nel ritmo delle sillabazioni, nelle pause degli spazi bianchi

L’occhio di Dio

di Silvia Belcastro
Dal mio corpo escono tubi da mungitura perché devo allattare la notte, devo mettere al mondo le sue creature: su un nastro trasportatore sfilano, a distanza regolare, i miei fantasmi contornati di luce.

La risposta

di Valentina Riva
Sotto la luce dell’attesa, non sono più serpenti, sono lombrichi, facili da sotterrare nel fango da dove sono venuti.

I confini del corpo

di Valeria Micale Ogni barriera del corpo ne mantiene l’integrità, impedendo la perdita di sostanza vitale. Anche le cicatrici servono a questo scopo.
mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: