Robert Avens, per una nuova gnosi

 

di Adriano Ercolani

 

Pochi tra i libri pubblicati negli ultimi anni sono interessanti, fecondi di riflessioni e forieri di spunti come Heidegger, Hillman e gli angeli. Per una nuova Gnosi di  Robert Avens.

Per chi, come il sottoscritto, da venti anni si divide (o forse si riunisce) tra studio della filosofia occidentale e pratica della meditazione orientale, il libro è una dimora confortevole, dall’atmosfera familiare e dalla progressione architettonica spontaneamente comprensibile.

Immagino però che possa far storcere il naso fino alla nuca agli accademici, soprattutto in questo momento storico di violenta e falsa polarizzazione dialettica: l’agguato del pensiero magico è dietro l’angolo, soprattutto ora che scie chimiche e terre piatte sono temi presenti nell’agenda dei governanti, quindi è anche comprensibile nutrire un sospetto sistematico degno della Stasi nei confronti di tutto ciò che possa essere ricondotto a una giustificazione filosofica di tali deliri.

Chiariamo ogni dubbio: l’autore, Robert Avens, è stato uno studioso serissimo, importante filosofo e storico delle religioni.

L’edizione italiana (Atlantide) è a cura di Marco Filoni e tradotta da Matteo Trevisani: già questo, per i lettori nostrani, dovrebbe essere garanzia di prestigio intellettuale.

Siamo davanti a un’opera densissima dal punto di vista filosofico, un susseguirsi di vertigini abissali, sospese sull’ineffabile.

L’intuizione alla base del libro è chiara: “Le gnosi di Heidegger e Hillman sono radicate nel desiderio di superare il dualismo (l’interno contro l’esterno, lo spirituale contro il materiale, la realtà contro l’apparenza) recuperando un livello di consapevolezza che sia più originario della sensazione e della percezione da un lato, e del ragionamento dall’altro”.

Terzo grande protagonista della riflessione è Henry Corbin, importantissimo studioso di mistica islamica (e non solo), di cui Avens è stato notevole esegeta, a cui si deve la cruciale nozione di mundus imaginalis: “un mondo ontologicamente reale, come il mondo dei sensi e dell’intelletto, un mondo che richiede una specifica facoltà percettiva, facoltà che è una funzione cognitiva, un valore noetico, pienamente reale come le facoltà della percezione sensoria o dell’intuizione intellettiva. Tale facoltà è il potere immaginativo, quello che dobbiamo evitare di confondere con l’immaginazione che i moderni identificano con la “fantasia” e che, secondo questo parere, produce semplice “immaginario” (tratto dal saggio  “Mundus Imaginalis, o l’immaginario e l’immaginale”, traduzione di Beatrice Polidori).

Come scrivono Maura Gancitano e Andrea Colamedici in Tu non sei Dio (Edizioni Tlon): ”La potenza delle parole di Corbin è quasi senza paragoni, eppure ha rappresentaro un canto pressoché inascoltato. Il termine immaginale è stato da allora utilizzato nell’ambito della nuova spiritualità – a volte non cogliendo la differenza con “immaginario”, ma solo l’eleganza del termine – ma è stato messo da parte l’apparato sapienziale su cui Corbin intendeva riportare l’attenzione degli occidentali. Si trattava del tentativo di spostare lo sguardo dalla spiritualità d’importazione a una tradizione più vicina all’uomo occidentale, ma purtroppo dimenticata. Il modo in cui le idee di Corbin sono state e continuano a essere usate ha a che vedere con la difficoltà dell’uomo occidentale di distinguere, come vedremo, tra fantasia e immaginazione”.

Leggendo Heidegger attraverso Hillman (e Corbin), Avens individua le basi di una nuova possibile gnosi: “La fenomenologia heideggeriana apre la strada alla gnosi producendo quel tipo di conoscere che non è separato dall’essere. In questo senso la fenomonologia è la gnosi – una conoscenza che viene prodotta nell’anima e dall’anima”.

Per comprendere lo sguardo di Avens bisogna tenere presente una meravigliosa intuizione poetica di Rabidranath Tagore: “Una mente tutta logica è come un coltello tutto lama. Fa sanguinare la mano che lo usa”.

Il miglior invito al corretto approccio ce lo offre lo stesso Avens: “Comprendere è sempre (probabilmente anche in ambito scientifico, come indicano il principio di Heisenberg e la teoria quantistica dei campi) un’operazione circolare o referenziale. Dato che la logica non può essere pienamente responsabile del funzionamento di questo circolo, diventa necessario una specie di salto nel circolo ermeneutico, per arrivare a comprendere allo stesso tempo il tutto e le parti che lo compongono”.

 

Chiaramente, il libro (dottissimo, traboccante di note, spunti, richiami, chiose e riferimenti) sconta il paradosso enunciato dalla teologia apofatica: “La verità (…) appena la nomini, non c’è più”,  come fa dire Pasolini (con ironico gioco di significati) a Totò, maschera vivente che interpreta Iago il mentitore in Che cosa sono le nuvole?.

Non a caso ritornano spesso nel libro come mentori adorati i giganti della teologia negativa, da Meister Eckhart a Silesius, lasciando emergere la poesia come dimora prediletta della parola sacra: da William Blake e Holderlin fino a Rilke e T.S.Eliot, passando per George e Trakl, per Avens (e Heidegger) “la missione del poeta è quella di essere un messaggero, quindi di dire all’uomo cosa ha appreso sugli dèi e di dare un nome a cosa ha scoperto essere “sacro””.

Siamo sull’orlo dell’abisso filosofico, dell’indicibile: eppure, l’ineffabile appare il solo tema di cui valga la pena parlare.

Nel V capitolo, Gioco e Terra, si affronta il tema del “gioco imperscrutabile”, il mistero del gioco di cui parla Eraclito: “Il tempo della vita umana è un bimbo che gioca muovendo i suoi pezzi: a un bimbo appartiene il potere sovrano”. Ma, attenzione, il tempo di Eraclito è Aion (“durata”, “eternità”), non Chronos (scorrere del tempo).

Avens ha facile gioco nel trarre la sua conclusione, collegando Eraclito, tramite Heidegger, alla gnosi e Hillman: “Il tempo-del-gioco è il tempo della gnosi, che è anche il tempo del fare anima”.

Non solo l’uroboro (il serpente che si morde la coda, simbolo dell’Eterno Ritorno), non solo Dioniso contro Apollo, ma in primo luogo Ermes è il grande riferimento di questa riflessione di Avens: “L’elusività  e la doppiezza di Ermes sono espresse da Heidegger nella sua caratterizzazione dell’Esserci come essere simultaneamente nella verità e nella non-verità”, ricordando altrove il passo di In Cammino verso il linguaggio in cui Heidegger sottolinea come nel dialogo platonico Jone Socrate definisca i poeti “messaggeri degli dèi”, facendo derivare l’etimologia di “messaggeri” proprio da Ermes.

Ecco, molto si è discusso sull’uso disinvolto delle etimologie di Heidegger; il caso più celebre è proprio il caso di aletheia (“svelamento”, “verità”), concetto da cui scaturisce l’intera riflessione di Avens: non sarebbe corretto, secondo Paul Friedlaender far derivare il termine greco dall’alfa privativo prima del verbo lanthano (“celarsi”), quindi l’intera interpretazione heideggeriana sulla verità quale “svelamento” sarebbe discutibile.

Concordiamo però con John Caputo quando scrisse: “anche se l’etimologia di aletheia è un’altra rispetto a quella che riporta Heidegger, è nondimeno vera in termini di luce e oscurità, di abbagli e apparizione – in un parola di svelamento”.

Questo vale, forse, per l’intero approccio di Avens: pensiamo alle bellissime pagine sul Gelassenheit (“l’abbandono” predicato da Heidegger), erede forse per noi della noluntas schopenhaueriana, accostato al precetto taoista del wei wu wei (“azione tramite non azione”).

Si potrebbe discuterne, certo.

Ma la sfida di Avens è proprio nell’abbattere muri immaginari della razionalità, che ci impediscono all’accesso al mondo immaginale.

Una nuova via per la ricerca filosofica, aliena da dogmi quanto dall’arroganza eurocentrica di dominare il reale col pensiero; si parla di nuova gnosi perché ”L’irrazionalismo mistico non può essere un’alternativa al razionalismo filosofico, perché essi sono gemelli, l’uno l’inverso dell’altro”.

Verso la fine, l’autore svela le proprie carte: “La conclusione più importante che può essere tratta dal nostro esame della gnosi in Heidegger e Hillman è che essa lascia la porta aperta all’inaugurazione di una nuova metafisica, centrata sulla nozione di un cosmo personificato”.

Al termine della lettura emerge il percorso, per l’appunto uroborico, della storia della filosofia: sembra che le ultime, ardite frontiere della speculazione razionale occidentale ci abbiano riportato, come tremanti neofiti, a bussare ai cancelli della sapienza orientale.

 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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