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Genesi, 1:32

di Andrea Dei Castaldi

Ancora rivedo tutto come fosse oggi. Ho tredici anni e guardiamo il profilo duro delle montagne a nord, i versanti scorticati e radi su cui la primavera tarda a mostrarsi. Non sembrano che un malfermo fondale di cartone alle spalle del paese. È da lì che arriverà, dice Roberto senza smettere di tamburellare sul volante a tempo di musica. Dovrebbe essere qui domattina, o forse già stanotte, aggiunge socchiudendo di qualche centimetro il finestrino, dicono che a quest’ora sia già sopra la Francia, però vai te a sapere. Il suo viso da adulto si contrae in qualcosa che somiglia a un sorriso, ma questo non basta a rassicurarmi. Alla tivù hanno detto che sarà meglio non mangiare l’insalata per un po’, o la frutta dagli alberi, dico io tornando a guardare la linea spezzata che taglia il cielo di traverso sopra le montagne, e che ci si deve chiudere in casa fino a che non sarà passata. Roberto sputa uno sbuffo d’aria a labbra strette, e torna ad abbozzare quella cosa simile a un sorriso sulla sua faccia ossuta di ventenne. Bastasse questo, dice allora scrollando le spalle, bastasse chiudere le porte e le finestre come dicono, ma quella non è roba che la puoi tenere fuori così. Però vai te a sapere, ripete poi sigillando il finestrino alla sua sinistra. Io faccio lo stesso, dando mezzo giro alla manovella dal mio lato. Bastasse questo, mi dico. Guardo la casa dei nonni in fondo al pendio, è così piccola e sbilenca vista da qui che basterebbe un soffio di vento per buttarla all’aria. Mi metto più comodo sul sedile e mi concentro sulla musica che se ne esce dall’autoradio, una melodia insieme sognante e tragica che stende un velo stinto di tempo passato sulle cose intorno, su tutto ciò che vedo al di là del parabrezza, e mi sembra perfetta per questo momento che pare già un ricordo. E lo è, anche se non posso saperlo. Questa mi piace, dico allora. È Alan Parsons, dice Roberto passandomi la custodia vuota di un’audiocassetta, questo pezzo è ispirato alla Genesi. Scorro con un dito la lista dei titoli fino a che non trovo quello di cui parla e lo memorizzo, quasi dovesse servirmi in futuro, o avesse a che fare con quello che ci aspetta. La chitarra ha qualcosa dei Pink Floyd, dico poi rendendogli la custodia. Qualcosa, annuisce soddisfatto lui. Ora andiamo, dice poi mettendo in moto, che qui fa buio presto e ci aspettano per cena.

In cortile Roberto scende dall’auto e si stiracchia gettando un’ultima occhiata alle cime dei monti che già virano al violetto. Prendo un po’ di legna per stasera, dice poi trascinando i piedi fino a sparire dietro l’angolo che dà sul retro. Io corro dentro con qualcosa che mi accorcia il fiato e che cerco di scacciare o tenere a bada. Dov’è tuo cugino, mi chiede mia madre quando la incrocio sulle scale. Ora arriva, dico soltanto, e continuo a salire i gradini a due a due per poi infilarmi nella camera dei nonni. La luce debole della sera che viene disegna una lama di pulviscolo attraverso la stanza in penombra. Accendo la lampada sul comodino e levo dal cassetto la vecchia edizione della Bibbia rilegata in tela verde. Mi ripeto più volte il titolo di Alan Parsons che ho memorizzato, mentre giro impaziente le pagine ingiallite alla ricerca del passo giusto, di ciò che ancora mi sfugge e che di certo ha a che fare con quello che ci aspetta. Ma poi mi accorgo che quel passo non c’è. Sfoglio perplesso qualche pagina oltre per poi tornare a quell’ultimo versetto. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. Tutto qui.

Quando torno di sotto trovo gli altri di fronte al televisore acceso. Se ne stanno tutti in piedi, rigidi e muti, a formare un semicerchio alle spalle di mio padre, l’unico seduto davanti alla luce traballante dello schermo. Lo vedo scuotere la testa. Questi russi non ce la raccontano giusta, dice poi, con una voce che non pare la sua. Roberto entra dalla porta d’ingresso con un pesante cesto di legna ad allungargli le braccia. Che c’è, mi chiede subito leggendomi qualcosa in faccia. Non c’è nessun versetto trentadue nel primo capitolo della Genesi, dico io, non è mai stato scritto. Forse non ancora, dice lui abbozzando un nuovo sorriso che però gli va a male quasi subito. Io torno a guardare mia madre e gli zii che se ne restano in piedi davanti al televisore, grigi e immobili come statue di creta, o cumuli di polvere.

 

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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