In viaggio con Ci (1/2)

di Paolo Morelli

(Storia di un diario che doveva esser lungo e invece dura tre giorni scarsi. Storia anche di uno strano tentativo di soluzione, pure andato a male, e poche altre cose ancora…)

La disgrazia di Don Chisciotte non è la sua fantasia; è Sancio Panza.

F. Kafka

aggiunta scritta oggi, circa venti anni dopo

Mi decido a render pubblico in qualche modo questo breve diario solo molti anni dopo, per ragioni che forse hanno a che fare con la discrezione.
L’occasione mi viene dall’aver letto su una rivista questo viaggio o parte di viaggio da parte dello scrittore Ci. Viaggio che è poi continuato fino a un certo punto, ma solo in questa parte iniziale la descrizione era lacunosa, e scorbutica.
Sembrerà strano ma negli anni, quando mi è capitato di ripensarci, non sono riuscito a capire il fallimento del viaggio se non come conseguenza della necessità di Ci di mettersi di continuo in una condizione di scomodità massima, come se solo in uno stato di disperazione si possano creare le risorse per schiudersi all’esterno, per inventare la spinta per quella sorta di effusione che è per lui la letteratura. Che l’abbia fatto in questo modo e ai miei danni è secondo me un puro dato casuale, forse sentiva che con la mia presenza gli avrei impedito quello stato. Fin dal primo momento secondo me era prevenuto, ma in questo senso. Poi è anche vero che io sto antipatico con facilità. Al massimo a questo sono arrivato in questi anni quando ci ho pensato.
In seguito con Ci ci siamo riappacificati. In tutti questi anni comunque non è mai mancata la mia ammirazione per il suo lavoro.

premessa scritta qualche giorno dopo

Premetto che mi ero preparato a questo viaggio rileggendo Don Chisciotte. Qualche mese fa, lo scrittore Ci, che conosco da sei o sette anni e del quale ero diventato amico, mi ha proposto di accompagnarlo in un viaggio di due mesi nel sud Italia, scegliendo autobus, trenini e strade poco frequentate, viaggio che avrebbe poi raccontato su una rivista. Diceva di avere ormai una certa età (lo scrittore Ci ha più di sessant’anni), e che il viaggiare da solo, specie nei piccoli paesi, lo avrebbe troppo esposto alle curiosità. Sospetto che si aspettasse molto dalla mia esperienza di viaggiatore, che però risale a quasi trent’anni fa. Ho accettato di accompagnarlo, sebbene non vedessi ragione di allontanarmi dalla mia città e in quel periodo sognassi semmai un viaggio al nord, ad esempio in alcune valli sperdute della Svizzera, dove si dice restino tracce dei fuorusciti anarchici d’inizio secolo. E forse, ma dico forse, questo può avere inciso nell’armonia generale.
Non avevo mai tenuto un diario e l’occasione mi è sembrata adatta: avrei raccontato il mio viaggio, ma soprattutto quello dello scrittore Ci.
Vista la conclusione del diario con il suo fallimento, premetto anche che gli appunti presi sul momento non li ho voluti quasi aggiustare, nel timore che mutasse la disposizione d’animo. Per quanto riguarda gli appunti del 12 maggio (sera), ho eliminato o abbreviato alcuni riferimenti personali riguardanti Ci, quando non avevano importanza per la ricostruzione degli avvenimenti. La loro frammentarietà è dovuta al fatto di esser stati scritti a più riprese, durante un vagabondaggio notturno in un paese degli Abruzzi.

 

11 maggio, 2000

Arriviamo a L’Aquila verso le 5 del pomeriggio, dopo un viaggio di un’ora e mezza dalla stazione Tiburtina di Roma. Là, quando sono arrivato lui era seduto sul gradino di un marciapiede, baci e abbracci. Qui a L’Aquila alla stazione degli autobus alcuni dicono che poco prima è venuto giù il diluvio, altri che sono state due gocce. Sulle montagne nevica di sicuro.
Durante il viaggio lo scrittore Ci ha già riempito una decina di pagine di appunti. Ha scritto tutto il tempo. Se continua così alla fine dovrà sobbarcarsi un peso aggiuntivo di parecchi chili di taccuini, oltre all’enorme zaino e al tascapane da campagna di Russia. Sull’autobus abbiamo anche discusso se comprare una carta oppure no, ma per adesso non decidiamo nulla. In ogni caso, sia girare con l’aiuto di una carta o senza, sono modi diversi di straniamento.
Me la prendo comoda nel bar davanti alla stazione degli autobus, mentre lo scrittore Ci è in preda all’ansia di trovare un alloggio. Mentre fa su e giù per il corso, conosco un paraplegico che si chiama Celestino, guarda un po’ il caso, nella città dell’eremita diventato papa e tornato poi a fare l’eremita. Ha la carrozzella adornata di bambole, più un ombrello da pastore.
Le montagne sono sempre più nascoste da una nuvola grigia. In breve scompaiono del tutto e arriva un temporale con tuoni e lampi. In albergo, nonostante avessimo la chiave della stanza 35, e nonostante io ci fossi appoggiato contro e gliela indicassi, Ci si è ostinato ad aprire la porta numero 33.
Alla televisione si vede Michael Jackson. Anche lui sta in un albergo, di Cannes se non ho capito male, chiuso dentro da tre giorni dato che rifiuta ogni contatto con il mondo. Noi invece usciamo sotto la pioggia, giriamo per il centro. Lo scrittore Ci sostiene che a sud ci sono più santi che a nord, io vorrei pensarci con più calma, soprattutto in un posto all’asciutto. Quando lo troviamo smette di piovere.
Per questa prima parte del viaggio, dato che conosco la zona a menadito, farò io da guida, solo che Ci è sempre quattro o cinque metri davanti a me, che non vedo la ragione di correre. Siamo qui da un paio d’ore, ma lo scrittore Ci già non ne può più, dice, e scapperebbe più a sud.
Dopo cena giriamo ancora più o meno in tondo, poi ci sediamo al bar nella grande piazza del Duomo dove, al tavolo accanto al nostro, un gruppo di ragazzacci della zona è impegnato in una notte brava. Ci propongono un brindisi, durante il quale Ci dichiara di venire da Londra e chiede ai giovinastri se sono sposati. Al sud è la domanda canonica dell’omosessuale inglese, almeno così viene presa, e l’aspetto allentato di Ci appare una conferma dei sospetti.
C’è un silenzio di risatine e sguardi nella mia direzione, poi, prima di andarsene, il più esagitato dei quattro mi descrive all’orecchio com’è fatta intimamente la sua ragazza, e nel farlo fa cadere un paio di bicchieri.
Temo che d’ora in poi assisterò alle vicissitudini di un uomo del nord alle prese con la arruffata complessità del sud. Temo anche che lo scrittore Ci sia alla ricerca di un residuo di avventura da grand tour (si è infatti portato il Viaggio in Italia di Goethe), del premoderno, e che si senta investito di un compito d’importanza quasi coloniale. Però c’è da dire che fin da subito formiamo la coppia classica di cavaliere e scudiero.
Non è mica facile tenere un diario.

 

12 maggio

La mattina sono dentro al diario senza quasi accorgermene. Fuori dalla finestra dell’albergo non c’è niente. Il Gran Sasso se ne sta nascosto dietro alle nuvole e alla nebbia, come un cavaliere.
Ho dormito bene, sebbene Ci sostenga di aver russato tutta la notte, si scusa, è la rinite ha detto.
Si ricomincia subito a correre attraverso la città, fino alla Basilica di Collemaggio, che però vediamo dalla distanza di un trecento metri almeno. Siamo in viaggio da nemmeno 20 ore e già avrò accumulato un ritardo di un paio di chilometri rispetto al battistrada Ci, che non si ferma nemmeno di fronte a un cartello della Chiesa Evangelica, con su scritto a grandi caratteri: Fermati!
Ha uno stile da marciatore, alla Pamich: alto, leve lunghe, con le spalle che si alzano alternativamente a ogni passo. Se continua così tra 10 giorni siamo già di ritorno.
Nell’autobus sulla statale 17 che taglia l’altopiano di Navelli, con i papaveri e le badie abbandonate che si dividono l’aria, lo scrittore Ci riempie il taccuino con le indicazioni che gli do io. Per me le facce, la gente, i posti, non sono una novità, mi sono familiari. Il viaggio, per me, non è ancora incominciato, però mi sa che anche dopo continuerò a fare la guida da dietro, la guida distanziata. Nel frattempo devo tradurre quello che dicono due vecchi seduti ai posti davanti a noi, descritti con cura da Ci che si sente evidentemente un esploratore.
Mi emoziono mentre gli descrivo le montagne che amo di più al mondo, ma vedo non gli interessano granché, sebbene racconti di esser cresciuto dalle parti di Belluno. Parlo per vincere la commozione, ma devo ripetere le cose sempre due volte, perché Ci non ci sente.
Lasciare i bagagli al deposito della stazione di Sulmona si trasforma in una vera emergenza. Intanto scrive e prende appunti, e dato che lui prende appunti scrivo anch’io per passare il tempo, e la gente, se scrivi o prendi appunti per strada, si allarma: forse ha paura di esser spiata, o dell’esattore delle tasse.
In un bar sulla splendida piazza di Sulmona facciamo pranzo, con gli occhi verso l’acquedotto medievale. Ma secondo Ci non c’è tempo. Mi lascia e si riporta alla fermata dell’autobus per la stazione. Finisco con calma, parlotto con un anziano nullafacente, poi lo raggiungo. Dato che l’autobus non arriva, mi appassiono alla musichetta di un box turistico digitale. Basta poggiare un dito sullo schermo che parte una musichetta d’arpa che vorrebbe essere giocosa, invece per me è nostalgica. Con le spalle allo schermo, senza badare per niente alle informazioni turistiche, fischietto e improvviso sul motivo, penso che sono in una strana situazione di viaggio, mai provata prima, che è ancora rivolta al passato e non riesco a definire.
Pamich nel frattempo dissimula a malapena l’impazienza, scalpita per l’autobus che non arriva. Io no, io mi sento strano, anche per tutta la birra che ho bevuto. Mi sento fiero perfino di aver capito in anticipo che il colore di moda per questa estate sarà il lilla, difatti da ieri le ragazze che incontro non portano altro.
Sull’unica carrozza del trenino che sale vertiginosamente verso Castel di Sangro, costeggiando la Maiella a marce stirate, cerco di vincere la commozione parlando: storie e informazioni che Ci accumula sul suo taccuino. Io parlo e lui scrive, per questo sono qui, penso. Come guida non sono neanche male, invento solo lo stretto necessario a dare coerenza al racconto. Tagliando la piana di S. Antonio, a oltre mille metri di altitudine, mi ricordo di tutte le volte che l’ho vista dalle cime, e che spesso l’ho immaginata come un campo di calcio, con due squadre di giganti impegnate in una partita il cui risultato non c’è negli annali.
A Castel di Sangro, nella stazioncina persa nella vallata, dobbiamo aspettare più di due ore un altro trenino che ci porterà al paese dove è nato mio padre. Abbiamo deciso di fermarci a dormire lì, ho le chiavi della casa abbandonata di mia zia Emilia.
Una stazione piccola come una stanza, mezza diroccata, con sopra le montagne del Parco Nazionale. Il traffico si riduce a una littorina color verde che arriva e parte tre volte al giorno. Anzi l’ultima volta non parte nemmeno e aspetta l’alba del giorno dopo. Un solo binario funzionante, su altri in disuso sostano carri merci che avranno cent’anni e due littorine sfrante. Il personale è formato da un capo e un vice-capostazione. C’è un piccolo e grazioso bar, con dentro un cinese che ci segue da Sulmona e una vecchietta impegnata all’uncinetto. Si sta bene, ma Ci non trova il locale abbastanza tranquillo e si ritira a scrivere nella sala d’aspetto, sporca e rovinata.
Dopo un’ora esco anch’io, e sdraiato sul sedile di pietra leggo Il romitaggio della dimora illusoria di Basho. Con le montagne alla mia destra, leggo il canto degli uccelli che sento e sento il silenzio che leggo, punteggiato da un chicchiricchi che sembra venire da est. Poi mi viene in mente di andare a chiedere ulteriori informazioni al capostazione.
Al ritorno incontro Ci che ha avuto un’avventura coi bagni della stazione. È successo che, uscito dalla sala d’aspetto, scapigliato, con lo sguardo stralunato per un evidente sonnellino appena compiuto e la sahariana abbottonata due bottoni sopra, con l’andatura da Pamich ha raggiunto il bar chiedendo dov’è il gabinetto. Sia la signora dei merletti che suo figlio hanno fatto finta di non capire. Lui ha insistito col gabinetto, ma quelli evidentemente non avevano nessuna intenzione di farcelo andare, facevano finta di non capire. Un po’ piccato Ci ha alzato la voce cambiando anche vocabolo, riducendosi a Cesso! fin quando il figlio della signora dei merletti lo ha spedito fuori, indicandogli la destra della stazioncina, cioè l’aperta campagna, dove l’ho visto che vagava al mio ritorno.
Lo strano caso, strano anche perché il gabinetto del bar era in pieno uso e i gestori molto gentili, come avevo provato io stesso poco prima, è stato da Ci spiegato come un’incomprensione generazionale del termine gabinetto, dimenticando che la signora dei merletti aveva qualche anno più di lui.
Ascoltandolo raccontare la storia, penso al mio ruolo di accompagnatore e alle continue incomprensioni che incontreremo, anche perché la camminata alla Pamich strappa risatine ambigue al capostazione, a due ex-pastori e perfino al cinese, che ammiccano fra di loro mentre Ci si allontana alla ricerca dei bagagli.
Manca ancora mezz’ora alla partenza della littorina, che è l’unica, e fa avanti e indietro tre volte al giorno. La stazione è talmente minuscola che ci stiamo seduti a un metro, eppure lo scrittore Ci sta in ansia, mi chiede se sono sicuro che è proprio questo il treno. Io sto leggendo e gli rispondo poco, tanto che si irrita e si rivolge un passo più a destra, dove il capostazione lo rassicura ammiccando subito dopo agli ex-pastori.
Fra i salici si annuncia un bel vento da ovest, un gatto giovane e già spelacchiato fa l’equilibrista sui binari arrugginiti. Ci vorrà pazienza, e di vari tipi.
Sul trenino restiamo presto gli unici viaggiatori. La littorina arranca a 36 chilometri a l’ora. Quello che abbiamo scelto mi sembra il modo più lento possibile di viaggiare, dopo l’andare a piedi. Metto al corrente lo scrittore Ci dei nomi e delle storie, ma devo ripetere sempre due volte. Ci sostiene che i romani come me non hanno nessuna voglia di esser capiti dal resto del mondo, e può anche essere vero. Mentre il sole sta tramontando dietro le montagne gli traccio sul taccuino con le dita le linee dell’ideogramma cinese per primavera, col sole che irrompe dal basso sotto le linee dell’orizzonte, e questo lo interessa molto, dice. Nello stridio delle ruote sui binari e nel vento della valle del Sangro, io penso che d’ora in poi, per risparmiare energia, farò meglio a sforzarmi di usare il fiato e parlare ad alta voce.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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