Articolo precedente
Articolo successivo

Furono nomi di carne. Arruina, di Francesco Iannone

 

Caro Francesco,

avevo promesso di accompagnare l’estratto da Arruina con una piccola nota. Ti mando, invece, questa lettera. Ho agito così perché temevo che la tua vicenda potesse uscirne fuori sciancata; che i nomi si occordassero con un gesso già duro. Invece un nome deve essere, come nella favola che narri, quella mezzanotte abbastanza luminosa da battere il discorso della lampada, che è discorso dominante, impero della letteratura contro le vere possibilità del libro.

Qualcuno ha scritto che basta un nonnulla (o meglio: un “sovrappiù”) per slogare la gretta andatura del presente; pochi sono però i testi che lo fanno con il prodigio della trasparenza, dicendo apertamente: «ecco, tutto ricomincia dal retro del foglio. L’altroieri è un gigantesco pagliaio, ma il nostro discorso non ha più timore d’indebitarsi con la miccia.» Arruina mi parla in questa maniera.

A chi prende la via della favola (ovverosia la via della «figura») sarebbe bene ricordare che “il giglio profuma la rosa”. Arruina evade ogni altra premessa, se non quella già formulata da Maria Zambrano:

«Cè una speranza, infatti, che non spera nulla, che si alimenta della propria incertezza: la speranza creatrice.»

Finisco qui. Ci vuole un lungo tirocinio per insegnare che le ossa possono essere anche pettini: questa l’incantagione, e l’unica economia nel viaggio verso Roccagloriosa.

Ti abbraccio,

Giorgiomaria

 

A seguire, un estratto da Arruina, per gentile concessione dell’editore.

 

La Briganta

Questo chiede la Briganta al mondo: che ogni corpo ritorni, perché ogni corpo è la casa della madre. Date alle madri il corpo come dareste un pezzo di terra ad un contadino disperato. Lo sanno tutti. Da quella volta che in piazzetta tre monelli le fecero capitombolare un teschio davanti agli occhi. Un teschio bianchissimo. Un enorme fiocco di neve. Un teschio che fu un nome. Un nome pronunciato, un nome mantenuto sulla bocca da qualcuno, una volta era, il nome suo, l’elemento attaccato alla radice, una volta era. Lo raccolse. Scacciò i bambini urlandogli contro cose. I bambini cattivi col nero sui denti. I bambini zoppi che raschiano i muri con le loro voci forti. «Chi sei?» la Briganta chiese al teschio. «Chi sei?» e così dicendo pianse. Nessun nome ruppe l’incantesimo. «Ti chiamerò ’o figlio. Per te e per tutti ij te so’ mamma. E tu si’ ’o figlio mio bello.» E quando passava per la piazza le donne le dedicavano un inchino, le scuotevano la polvere sulle spalle: «La Briganta porta la luce ’ngoppa a la terra, la Briganta stuta la morte cu li vase».

Poi passarono le notti. Molto lunghe erano le notti. E tutti i turbamenti per le vite tristi, erano i suoi turbamenti. E tutte le gioie per le vite allegre, erano le sue gioie. Se c’è un compito, la Briganta non lo sa e per questo si agita nel sonno, scaccia i diavoli addormentati sul suo petto. Lo disse una mattina in cucina stringendo l’orlo della veste nelle mani: erano sei. «Li ho visti. Sei giovanissimi dai colli lunghi con vistosi tagli sulla faccia. Parlavano lingue sconosciute. Muovevano le braccia come onde. I loro corpi nudi contro la prima luce dell’alba.» «Sono triste» ripeteva la Briganta. «Sono a pezzi. Questa solitudine ci rende monchi, ci piega le ginocchia, ci sbocconcella con la ferocia di una bestia, ci morde i fianchi e fa brandelli di me, di te, di tutti.»

«Devi credermi» ti dico mentre camminiamo verso la Briganta. «Per di qua, per dove soffia il vento, lungo il sentiero disegnato dalle foglie. La Briganta ci condurrà dalla Sperduta. Lei sa tutto. Vedremo i petali volarle via dai palmi e formare nell’aria mulinelli azzurri.»

La Briganta ci guarda, lei sa dove andare, non dobbiamo preoccuparci. C’è un odore di zinco terribile, la Briganta sistema le casette una accanto all’altra. Estrae un arto addossando la terra ad un masso. Lo bacia e poi intinge la pezzolina nella tinozza per pulirlo prima di adagiarlo nella cassetta di zinco. Allargando la fossa ne scopre di nuovi: una gamba un piede una mano con due dita monche due crani vicini dietro la colonna vertebrale una medaglietta annerita che non si legge più. Si sente un rumore di bianco che urta se stesso. La Briganta dispone le ossa con la premura del dio che sistema gli astri nel cielo.

«Sono i miei figli» dice rivolta a noi o a nessuno. «Furono nomi di carne. Furono i trionfi delle madri. Ed ora hanno perduto la calimma dei corpi, il tiepido fluire dei globuli nel sangue, hanno perduto anima e ammuina. Resta solo la fissa collocazione degli scheletri costretti nell’angustia delle cassette. Li terrò con me» dice la Briganta, «saranno gli animaletti che si posano sulla fronte ampia di un orco. Oppure saranno la polvere soffiata nella piaga. Perché ho una piaga qui, al centro, fra una grinza e l’altra del cuore. E nella piaga alluccano le madonne dei santi uomini ripiegati nella zolla, anneriti sopra l’orma umida dei loro passi. Faccio la mia preghiera, intono così la mia ultima giaculatoria di dolore» dice la Briganta e si strappa una ciocca di capelli, poi apre le mani sulla terra. E piange e ne escono oscuri slittamenti sillabici. Si gonfia la vela sulla sua testa, è la sua capellera alata, è la sua ombra di fata che si propaga nel buio. «Anema dei muorti accisi e iettati nella fossa» dice sommessamente. «Arruina cresce come il segno rosso del muorzo di una vampira. Morte ingannaruta come la sete dei serpienti di montagna.»

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Amelia C: «a voi adulti dico: vigliacchi!»

    «No, io non sarò come voi. Noi non saremo come voi. Noi siamo un mondo nuovo. Noi siamo l’insurrezione...

Sara Fruner: «come spieghi la lingua / quando tocca il mondo»

È uscito per Crocetti Editore la raccolta poetica La rossa goletta di Sara Fruner. Goletta, come leggiamo nel dizionario...

Lo Spazio dell’Immagine

di Gabriele Doria
Questa storia comincia, ovviamente, con un uovo. Per essere precisi, un uovo appeso ad una grande conchiglia. L’uovo fluttua sopra una scena affollata: vediamo vecchi dalle vesti lacere e sciancate, crani spaccati, piaghe in suppurazione

Solo in poesia coincidono così gli opposti

di Pietro Cagni
Quale movimento sospinge, cosa sostiene i versi della prima sezione dei Frammenti di nobili cose di Massimo Morasso. Il poeta ha affidato al libro un’esigenza duplice: compiere...

Roma e Treja hanno in comune il mistero del nome. Intervista a Jean-Paul Manganaro

Intervista di Elena Frontaloni a Jean-Paul Manganaro   È uscito il 4 ottobre per Verdier Rome, rien d’autre, raccolta di elzeviri su...

Tommaso Ariemma: “per capire il mondo devi abbassare lo sguardo”

    È da poco stato pubblicato, per Luiss University Press, I piedi del mondo Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato...
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: