Lisa

di Barbara Lisci

I fili sono invisibili. Non sapresti neanche definirne la consistenza, il diametro, la forza di tensione prima della rottura. E il preciso istante? No, non ricordi neppure quello.
E allora cosa? Per Dio: cosa?
Il guizzo dei suoi occhi metallici. Quelle minuscole mani, veloci e timide che si attaccano come dendriti al tuo cervello. Le sue parole, che rotolano bianchissime dai suoi sorrisi.
E ancora?
La sua aria da signora, che sta precariamente in bilico tra l’essere madre e ancora figlia. I suoi passi nervosi che indovini sempre dietro agli scaffali. Quella distesa trama lunare ch’è la sua pelle.
E dentro questo involucro: i preparativi per un grande dolore, la forza di un ruggito assordante, la pugnalata del dubbio di aver perso qualcosa, per strada, per sempre.
Questa è Lisa, per te.
La sveglia aveva suonato, come ogni santo giorno. Ore 7.05. L’imperfezione le piaceva, se stava dentro ai piccoli particolari. Per il resto, cercava, per quanto possibile, di non affondare dentro le sabbie mobili dell’ordinarietà. Si era lavata con cura, la faccia, le orecchie, il collo. Quel che lo specchio rimandava, era un’immagine irregolare e sfuocata, la stessa di ogni mattina. Miope fin da bambina, aveva avuto il privilegio di scrutarsi solo se aveva voglia di mettere gli occhiali. Poteva decidere anche di estraniarsi dal mondo, bastava il gesto veloce di una mano e tutto appariva approssimato, opaco e confuso. Il caffè, uscendo dalla moka, aveva imbrattato lo smalto della cucina a gas. Lisa aveva bofonchiato un’imprecazione: merda! Aveva bevuto il caffè, a sorsi leggeri, scottandosi le labbra. Con l’indice, aveva infilato una scarpa, tenendo l’equilibrio su una sola gamba. Si stava facendo davvero tardi. Da vent’anni ormai era entrata a far parte della folta schiera dei timbratori, di quei milioni di italiani che vivono in simbiosi con un rettangolino di plastica e che, mattina e sera, avvicinano ad un mostro elettronico. Da quell’amplesso fugace e meccanico, l’orgasmo era sempre lo stesso: bip!
Lisa era corsa in garage, col cappotto infilato per metà, la sciarpa verde sulle spalle e la borsetta, ormai logora, trattenuta in un pugno. Cristo: le 7.57!
La vecchia Peugeot, non partiva mai al primo giro di chiave e questo la mandava ulteriormente in bestia. Stamattina poi, non poteva permettersi affatto ulteriori intoppi. Finalmente il tubo di scappamento aveva tossito una nuvola grigiastra e la macchina era partita in retromarcia.
Il cielo di novembre era plumbeo, l’autunno non era certo la sua stagione preferita, pensava immettendosi sulla statale. Alle 8.20 stava ancora inglobata dal traffico e come se non bastasse era cominciato a piovere fino fino. Lisa sentiva l’ansia salire dalle viscere fino al torace e da lì, diramarsi negli arti. La gamba sinistra tremava, non riusciva a controllare il piede, appollaiato come un gufo sul pedale della frizione.
La macchina che le stava davanti era ripartita, ma si proseguiva a passo d’uomo. L’ansia era diventata nervosismo, dallo stereo esalava Heaven di Elisa. Ma di paradiso, dentro quell’utilitaria, non v’era neppure l’ombra. Nei successivi cinque minuti, aveva percorso solamente un chilometro. Le 8.25. Il mostro inorganico stava per terminare il suo valzer di orgasmi: bip, bip, bip.
Timbrare in ritardo, significava entrare dritta dritta nella stanza del direttore, così borghese e insulsa, sedersi sulla poltrona di pelle consumata dai fondoschiena dei soliti colleghi e giustificarsi. Lei detestava soltanto l’ombra di questo pensiero. Aveva la sensazione di mettersi a nudo, mostrare la sua carne al mercato. Era l’ultima cosa che avrebbe desiderato, di buon mattino. Eppure sembrava inevitabile: l’orologio segnava le 8.28.
Doveva ancora raggiungere il caseggiato giallo paglierino, superare l’incrocio, svoltare a sinistra, entrare nel parcheggio. E poi ancora: spegnere la macchina, acciuffare la borsa, inforcare l’entrata e salendo due rampe di scale, raggiungere l’aggeggio infernale. Bip! Stavolta una salvezza.
Fuori pioveva forte, ma bastavano anche solo due gocce, che la città sembrava avvolgersi d’uno strano incantesimo: nessuno era più capace di guidare in modo sciolto e corretto. Un concerto di clacson assordante copriva la voce dello speaker. Lisa era ormai livida dalla rabbia.
All’automobilista che stava dietro, doveva senza dubbio apparire come un fantoccio muto, che si agitava smanioso e dinoccolato. Ma muta Lisa non ci sapeva stare: se avesse aperto il finestrino, la ferocia delle sue imprecazioni sarebbe salita fin su al primo piano, nella stanza della remissione. Quando uno spiraglio si aprì fra due autovetture, la Peugeot fece sgommare le ruote anteriori e partì come un razzo.
Lisa sentì solo il tonfo sordo di qualcosa che rimbalzò nell’asfalto. Ma non vide nulla. La rabbia aveva eretto una patina schifosa dietro le lenti degli occhiali. Frenò solo d’istinto, ma già la ruota stava sopra una massa molle.
Subito si formò un crocicchio. Qualcuno aveva urlato scendendo svelto dalla macchina, altri correvano dirigendosi da quella parte. Lisa ebbe la sensazione di aver ingoiato il cielo. Bocconi di piombo liquido scivolavano giù per la gola. Intorno alla sua auto, le persone si erano moltiplicate, alcuni davano pugni al finestrino, intimandole di scendere.
Tutto era ovattato, la testa girava vorticosamente e lei fluttuava densa e melliflua, mentre immobile fissava il nulla.
Il cuore, del bambino sotto la macchina, da due minuti aveva smesso di battere. L’orologio sul cruscotto segnava le 8.33.

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