Il ginkgo di Tienanmen

Il 5 giugno di trentuno anni fa, un omino cinese armato di un sacchetto di plastica fermava una colonna di carri armati. Era l’ultima pagina della rivolta di piazza Tienanmen. Mi sono chiesto più volte cosa potesse contenere quel sacchetto. È così che ho scritto “Il ginkgo di Tienanmen”, la storia che chiude la raccolta “Racconti da un mondo offeso”. r.a.f.]

di Romano A. Fiocchi

Da sedici anni me ne sto buono buono sul davanzale di una finestra in un casermone di edilizia popolare, alla periferia di Pechino. Da sedici anni non faccio altro che osservare. Da sedici anni le cose che osservo sembrano immuni da qualsiasi sostanziale variazione. Due soli panorami. Quello che chiamo il panorama numero uno si trova dietro una lastra di vetro impolverata, al di là della quale distinguo delle forme geometriche: in basso un rettangolo di asfalto, di fronte tre parallelepipedi di cemento, in alto un rettangolo di un azzurro opalino. Di notte i due rettangoli, prima quello di sotto poi quello di sopra, si fanno neri, e i tre parallelepipedi aprono qua e là qualche sgranato occhio luminoso. Il panorama numero due dà verso l’interno. Qui lo spazio è delimitato dalle pareti di un cubo. In due punti lontani tra loro le pareti sono interrotte da una porta di legno verniciata di nero e da una porta di legno verniciata di bianco. Al centro dell’ambiente, sul pavimento, un tavolino con il ripiano in fòrmica rossa, su cui pende una lampadina appesa a un filo. Nell’angolo a destra, un divano a due posti di colore verde, con il rivestimento di velluto in parte lucido per l’usura. Di notte il divano diventa un letto e vi si corica un omino cinese. È piccolo, chiaro di pelle, con i capelli dritti e scuri, non diverso da tutti i cinesi che ho visto talvolta attraversare il rettangolo di asfalto del panorama numero uno.

Se non conosco il nome dell’omino, posso però dirvi il mio. Mi chiamo Pu-Yi. Questo nome me l’ha dato Xiao Qin. Xiao Qin è giovane e snella, con i capelli neri e lisci raccolti in una treccia lunghissima. Non so quando sia successo, la mia coscienza non ha percezione del tempo: io mi rendo conto solo degli spazi, dei movimenti, di ciò che accade in un luogo senza sentimento di cronologia. Il tempo per me non esiste, esistono le cose e i fatti. So che sono trascorsi sedici anni da quando mi trovo su questo davanzale solo perché l’omino me lo ripete spesso. Ma sedici anni per me è solo un numero. Sedici anni fa equivale a oggi. Ciò che accadde allora sta accadendo oggi insieme a ciò che accadrà domani. Forse dipende dal fatto che io non ho sogni, non posso quindi distinguere la realtà dalla non-realtà. Vi so dire soltanto che una sera in cui entrambi i panorami erano già piombati nel buio, qualcuno ha premuto l’interruttore della luce elettrica e Xiao Qin ha fatto irruzione nel panorama numero due, entrando dalla porta di legno verniciata di nero.

«E tu come ti chiami?» mi chiede non appena mi vede.

«Non ha un nome» risponde l’omino. «È un ginkgo.»

L’omino ha detto il vero. Sono un ginkgo biloba. Quando non ero che poco più di un seme, fui selezionato per finire in un penjing, uno di quegli inquietanti paesaggi di rocce e piante in miniatura che i cinesi fanno stare dentro una ciotola. Poi qualcuno decise di prendermi così com’ero e di fare di me un penjing di piante, ossia un semplice bonsai. Sono originario della provincia del Chekiang, da dove arrivano tutte le ginkgoacee come me. Noi ginkgo siamo piante antichissime, veri fossili viventi, per questo abbiamo maturato una predisposizione naturale a crescere miniaturizzati dentro una ciotola. Cerco di spiegare tutte queste cose a Xiao Qin, ma lei non capisce una sola parola.

«Ti chiamerò Pu-Yi» mi dice. «Pu-Yi era il nome dell’ultimo imperatore.»

«È un nome bellissimo, Xiao Qin» dice l’omino.

Xiao Qin gli si avvicina: «Anche questa notte ha un nome bellissimo, è la Notte delle Notti».

Così dicendo si denudano insieme e si coricano sul divano letto. La lampadina appesa al filo interrompe la sua incandescenza e la stanza sparisce di nuovo nel buio. Ben presto l’oscurità è attraversata da strani suoni, gemiti, sospiri, infine torna il silenzio.

L’omino si mette a raccontare qualcosa. Apprendo così che fa il giardiniere nella Città proibita. Il luogo è ormai un museo, ma lui sostiene che sia ancora abitato dalle ombre degli antichi imperatori. Al calare del sole, queste ombre vagano per le ottomilasettecentosette stanze: ora si fermano a leggere proclami, ora amoreggiano con le concubine, ora vestono pesanti armature e fanno volteggiare spade da combattimento. Anche il padre dell’omino è stato giardiniere della Città proibita. È lui che gli ha insegnato come curare noi bonsai, come potarci rami e radici, come leggere il più piccolo segnale di sofferenza dal bordo ingiallito di una foglia o da una macchia impercettibile affiorata sul tronco. Gli ha spiegato come intervenire, ora attraverso il nutrimento, ora attraverso procedimenti meccanici, ora semplicemente parlandoci. Ma lui, da quando l’anima del padre ha raggiunto nel sonno gli antichi spiriti, si è dimenticato di quest’ultima raccomandazione. È stata Xiao Qin a ricordargliela. Le piante sono vive, e ai vivi bisogna parlare, sempre, nonostante possa sembrare che non ci capiscano.

Da allora l’omino si è messo a recitarmi dei veri e propri monologhi. Quando rientra alla sera mi racconta di Xiao Qin, di quanto sia incantevole la sua voce, quanto lucenti i suoi capelli, e di quanto lei ami le piante. Xiao Qin studia botanica all’università statale ed è un membro attivo del comitato studentesco. Si trovano ogni pomeriggio, quando lui finisce il lavoro alla Città proibita e lei esce dalla Biblioteca nazionale. È figlia di un membro del PCC, ma non condivide le idee di suo padre. L’omino la ospita altre volte. Come sempre si accarezzano, si denudano a vicenda, si coricano nel suo divano letto. Li sento ridere e gemere. E poi parlare, parlare a lungo, di cose strane che chiamano diritti umani, di uguaglianza, di libertà.

Un giorno l’omino torna dal lavoro. Non mi parla di lei, ma di Hu Yaobang. Hu Yaobang è morto di infarto. La scomparsa di un riformatore come lui ha scatenato una protesta mai vista che sta sconvolgendo Pechino. Gli studenti sono scesi in piazza. Il segretario generale Zhao Ziyang sembra voler esercitare un’opposizione moderata nei confronti della manifestazione, ma il primo ministro, Li Peng, sta adottando la linea dura. Sostiene che siano le potenze straniere a tirare le fila della protesta. Storia inventata o meno, l’unica cosa certa è che il malumore sta montando, che in piazza scendono sempre più persone, e che l’esercito si sta preparando per fermarle. Non so se dipenda da questo, ma il panorama numero uno è cambiato. Di notte i due rettangoli si fanno neri, ma anche i parallelepipedi sono neri, gli occhi luminosi restano serrati. Anche il panorama numero due è diverso: l’omino entra al buio e sembra non abbia nessuna intenzione di premere l’interruttore della luce elettrica. Mi parla comunque: «Lo sai, Pu-Yi? Il mondo non è più lo stesso. C’è un uomo, Liu Xiaobo, che si sta battendo per cambiarlo. Senza violenza. E tutti noi siamo con lui, anche Xiao Qin. Se va avanti così gli daranno il Nobel per la pace, magari alla memoria. Lo sai, Pu-Yi? Gli studenti hanno costruito un’enorme statua di polistirolo che assomiglia alla Statua della libertà di New York. L’hanno chiamata Dea della democrazia. Sai cosa hanno fatto i soldati? L’hanno distrutta».

Un giorno lo sento entrare, nel buio sferra il suo pugno di omino contro una parete del cubo: «L’hanno arrestata, Pu-Yi! La polizia ha arrestato Xiao Qin. Per fortuna è intervenuto suo padre e l’hanno subito rilasciata. Lo sai, Pu-Yi? Questa storia non mi piace per niente. Ho tanta paura per Xiao Qin. Io voglio ancora ridere insieme a lei, voglio ancora passare le notti a raccontarci tante cose, a sentire la sua voce, a respirare l’odore dei suoi capelli».

Finché un giorno succede una cosa che mai avrei potuto prevedere. L’omino invade il panorama numero due quando c’è ancora la luce del sole (questa non riusciranno mai a spegnerla, me lo ripete sempre). Prende con sé una borsa dai manici di pelle e un sacchetto di plastica bianca e si ferma davanti a me: «Tieni a mente questa data, Pu-Yi: cinque giugno 1989» mi dice.

Figuriamoci! Una data da tenere a mente, a me, un ginkgo, che sa di aver passato sedici anni su un davanzale solo perché gliel’hanno detto! Noi ginkgo non abbiamo coscienza del tempo, siamo piante che hanno attraversato i millenni di questo pianeta senza che niente e nessuno potesse modificare il nostro modo di vivere. Quest’omino è davvero un tipo strano! Perché mai, poi, dovrei ricordare una data?

«E ora andiamo, Pu-Yi» continua lui. «Xiao Qin ha bisogno di noi.»

Mi ficca così nel sacchetto di plastica e per la prima volta lascio il davanzale. Solo ora mi accorgo che il mondo è fatto di un numero infinito di panorami che si sovrappongono. Forse è questo il senso del tempo: panorami che si accatastano uno sopra l’altro, all’infinito. Dentro il sacchetto di plastica i suoni mi giungono ovattati, ma le immagini sono nitide. Da sedici anni su un davanzale, ora sono un ginkgo che cammina. L’aria di Pechino mi stimola, mi fa pensare. Anche se i miei sono piccoli pensieri, i pensieri di un bonsai. Le strade sono piene di altri omini, molti vestiti come lui: camicia bianca, pantaloni neri, giacca beige. In mezzo a loro sfrecciano biciclette con cassette di plastica o di legno montate sul parafango posteriore, alcune su entrambi i parafanghi. Una di esse si ferma. La guida Xiao Qin. Ha la treccia raccolta sulla nuca, in testa un berretto grigio con l’ala che le copre gli occhi. Indossa pantaloni blu stretti alla caviglia con una molletta. Parlano insieme, Xiao Qin e l’omino, si sfiorano le guance, si toccano le mani. Io sono sempre qui, oscillo nel sacchetto di plastica appeso al polso dell’omino. A un tratto si separano. Xiao Qin rinforca la bicicletta e si allontana in velocità. L’omino fa un gesto, grida qualcosa, alza il sacchetto di plastica verso di lei come se volesse mostrarmi. Ma Xiao Qin è già lontana. Restiamo lì, l’omino immobile in mezzo alla strada, io immobile dentro il sacchetto. La gente ci sciama attorno come fossimo una statua. Ma qualcosa sta accadendo, un fiume di folla arriva dalla direzione opposta, dalla Città proibita. Alcuni corrono, le biciclette faticano a infilarsi, tutti parlano, gridano qualcosa, indicano di là, verso piazza Tienanmen. È una marea ondeggiante di teste e di braccia che sembra la corrente del fiume Chaobai. Sono tutti molto giovani, forse studenti, i visi stravolti.

«Che c’è? Che succede?» urla l’omino.

Nessuno gli dà retta. L’omino si toglie la giacca, si rimbocca le maniche della camicia. Il sacchetto e la giacca sono ora nella mano destra, nella sinistra la borsa dai manici di pelle. Ci incamminiamo controcorrente, ricevo dei colpi, fuggitivi che urtano il sacchetto di plastica. Ma noi ginkgo siamo robusti, soprattutto quando ci riducono a un bonsai.

Arriviamo così nel grande viale Chang’an, vicinissimo a piazza Tienanmen, lungo la strada per la Città proibita. Il vociare della gente va scemando e viene sovrastato da un rumore di ferraglia e di asfalto che si sgretola. Sul viale non c’è nessuno se non, in fondo, una colonna di carri armati che procede verso di noi.

L’omino mi solleva all’altezza del suo viso. Quest’omino è pazzo, mi dico. Lui mi parla: «Cosa faresti tu se stessero per schiacciare centinaia, migliaia di bonsai come te, solo perché si ribellano alla loro condizione di bonsai?».

È decisione di un attimo, l’omino con grandi falcate si porta al centro di viale Chang’an.

[…]

(Romano Augusto Fiocchi, Racconti da un mondo offeso, Bookabook, dicembre 2018)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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