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Le ultime cose – Manuel Maria Perrone

Le ultime cose

 

La morte a cui ci hanno convocato

E che ci aspetta ignara da qualche parte nella vita

Avrà l’odore di quello che abbiamo realmente vissuto

O sarà il ricordo di quello che avevamo dimenticato?

 

 

Gisella era stata la prima a morire, mentre la morte iniziava ad essere presente tra di noi.

Era morta come muoiono i giovani, sorprendendoci, rovinandoci il programma di una felicità illimitata.

Era morta mentre io ero altrove, festeggiando i miei primi 25 anni, con amici casuali.

Al mese aveva deciso di morire anche mio nonno. L’aveva deciso un collasso cardiaco per lui, un collasso che l’aveva tenuto gli ultimi 2 mesi in un letto, costretto a meditare notte e giorno sulla morte.

Avevo deciso di andare a trovarlo, per riuscire a vincolarmi al movimento della morte (Gisella rimaneva astratta, per me, non sapevo bene dove) far entrare per sempre in me forse una consapevolezza, forse un ricordo o una sensazione.

Mio nonno mi aveva guardato mentre usciva paura dai suoi occhi, uno strano sorriso gli disegnava la bocca e il corpo, in sciopero, costringeva al silenzio il suo discorso.

Né saggio, né idiota: moribondo.

Quando l’avevo visto, avevo parlato per primo: “ti sei seduto per terra e non ti alzi più!”, facendo eco alla minaccia che aveva disciplinato i nostri incontri quando io ero bambino: “Guarda che se non la smetti mi siedo per terra e non mi alzo più!”.

Gli credevo e obbedivo, temendo l’inesorabile che scaturiva da quella minaccia.

“si- mi rispose e lasciò di nuovo spazio al silenzio della flebo- e da quaggiù mi sono messo a pensare”

avevo chiuso gli occhi, per guardarlo come lo volevo vedere: veramente seduto per terra, nell’angolo di un patio, nudo, calvo, ciccione, con i suoi baffi e i suoi occhiali di sempre. Guardandolo come se io fossi altissimo, vedendolo restringersi e scomparire nel suolo.

Riaprii gli occhi e mi stava guardando: “E tu chi sei?”

In Africa quando muore un vecchio, i bambini si mettono i suoi vestiti e vanno in giro imitandolo.

La gente ride e così si accompagna lo spirito della persona a diventare un ricordo.

Corsi in giro per la stanza, come un giullare arrabbiato, aprii cassetti, mi infilai nervoso i suoi vestiti, mi imbottii con cuscini, infilai le sue scarpe e i suoi occhiali di ricambio e completato questo rituale carnevalesco, mi fermai e sorridendo, gli dissi:

“Don Italo Incauto, per servirla” e dopo avergli rubato il nome gli rubai le abitudini, imitandolo nelle varie parti grottesche del suo carattere. Mi mostrai permaloso, vittimista, mangione, ciarlatano, buffone, mentre lui mi guardava incredulo e irritato.

Quell’anno morirono in molti, marcando un prima e un dopo.

Alfonso e Filippo, maggio e agosto, Laura, ottobre, Andrea e Dafne, novembre e dicembre.

Morti, come cicatrici nel calendario.

 

Di Gisella mi ricordo il nostro primo incontro.

Erano i tempi delle feste del coprifuoco. Ci si incontrava tutti in una casa, mezz’ora prima del coprifuoco e la festa durava forzatamente fino alla mattina dopo. Ballavamo nella stanza della casa più lontana dalla strada, per occultare la vita domestica in quelle ore proibite. Per questo spesso si stava in una lavanderia o nella stanza di un bambino, premurosamente traslocato altrove.

La conobbi ballando e ridendo.

La intuii parlando con lei.

La svestii guardandole gli occhi.

Facemmo l’amore nascosti .

Nell’impeto che sussurra l’orgasmo aveva gridato e si era scostata:

“Ahia, ma sei scemo?”

ero rimasto incredulo e spaventato, non riconoscendo da dove veniva quel cambio, ignorando l’errore che avevo dovuto commettere.

Mi aveva guardato severa per un buon momento, poi era scoppiata a ridere e mi aveva detto :

“mi piace, mi eccita tantissimo questo cambio improvviso tra due emozioni cosi opposte: la faccia che fa l’uomo quando si sentiva un eroe e un attimo dopo, senza sapere perché, si sente una merda. Scusa, lo faccio sempre: mi piace tantissimo!”

E aveva iniziato a riempirmi di baci su per il collo, mentre io restavo immobile, congelato dalla situazione e da quelle parole.

“L’uomo….lo faccio sempre…”

vedendo che non recuperavo entusiasmo si staccò, mi prese i vestiti e fece per scappare.

La guardai : capii che dovevo accettare le sue regole, il suo gioco e solo cosi potevo divertirmi con lei.

Presi il tubo della doccia e lo puntai come una pistola, guardandola con un giocoso disprezzo: “Non so chi sei, come ti chiami, cosa fai, so solo che sei sul mio cammino”

“Gisella”, mi disse timida mentre io aprivo la doccia, senza scrupolo, sacrificando lei e i miei vestiti al gioco. Dopo un po’, continuando a dirigere lo spruzzo, mi resi conto che stava nel suolo, e non si muoveva. Spensi l’acqua, vidi che boccheggiava, senza riuscire a respirare. Mi avvicinai, la guardai e invece di baciarla le tolsi una ciocca di capelli che le scivolavano tra le labbra.

Mi indicò con la mano la sua borsa. Corsi a prenderla, estrasse un Ventolin e iniziò a farsi respirare da quello strano oggetto. Non avevo mai visto un oggetto simile e, credendolo una droga, mi allontanai di qualche passo. Quando si riprese mi guardò, sorrise timida : “mi chiamo Gisella e soffro d’asma, ogni tanto”.

Ci amammo per vari anni, soprattutto attraverso lunghe lettere, perché uno e l’altro vivemmo altrove.

Morì tra una lettera e un’altra, in una di quelle pause necessariamente lunghe nella nostra conversazione. Mi chiamò un giorno sua madre, me lo disse, senza fronzoli. Lo accettai come un fatto, senza domande.

Dieci giorni dopo ricevetti una sua ultima lettera, che mi aveva raggiunto oltre la morte: allegra, idealista, spensierata, macchinando progetti e aggrovigliando idee.

Ignara che era già morta, al momento di ascoltarla scritta. Venne quella lettera a rendermi più astratta la morte.

Anche gli altri morirono astratti, senza lasciarmi guardare, né capire.

Tornando a casa dall’ultimo funerale di quell’anno imbarazzante, mi sentii l’odore addosso.

Mi svegliai la mattina dopo e avevo i capelli bianchi: il mio corpo aveva intuito prima di me la frattura, aveva capito che si diventa vecchi, semplicemente perché è arrivato il momento. Io ci misi molto più tempo ad accettarlo e, giustamente come un vecchio, mi tinsi i capelli.

Non mi mancavano le persone: mi mancava la forza per ridurre tutto in ricordo.

Mi sentii solo non perché non c’erano, ma perché avevo la responsabilità di non dimenticare.

Capii che le persone, quando muoiono lasciano il proprio corpo, per andare ad appoggiarsi su chi le ricorda: ne aumentano il peso e moltiplicano i dialoghi che si sussurrano nelle loro menti.

Non potevo più pensare solo a me stesso: dovevo pensare anche a loro, adesso.

E non ne avevo voglia.


 

Manuel Maria Perrone. Artista. Svizzero. Più neutro del formaggio, più puntuale del cioccolato.

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