La Spoon River dei vivi

di Antonella Falco

Domenico Dara, Malinverno, Feltrinelli 2020, pp. 336, € 18,00

Una Spoon River dei viventi, di chi è rimasto, e giorno dopo giorno deve trovare il modo di andare avanti, di portare il fardello di un’esistenza che l’evento ineluttabile della morte di una persona cara ha svuotato di senso, aspettando che il tempo svolga la sua opera e renda più facile, un giorno, alzarsi dal letto e più leggero il peso che grava sul cuore.

Perché

«Ci si abitua a tutto. Alla solitudine, al dolore, alle stagioni che cambiano, all’apparente lentezza del tempo, agli amici che partono, ai ricordi che svaniscono, alla memoria che si assottiglia, all’umidità sul muro, al silenzio delle strade, ai perfidi spifferi dalle finestre, alla pigrizia dei muscoli, alla luce accecante dell’estate, alla nostalgia, alla tristezza, a un amore che finisce, ai sapori indistinti su papille filiformi.

A tutto finanche alla morte.

Ogni evento che al suo manifestarsi ci appare troppo grande per sopportarlo, e che nel momento in cui lo viviamo sembra schiacciarci definitivamente, gravare su ogni cellula del corpo, va prima o poi ad allinearsi tra i fatti consueti della quotidianità, l’abbandono al fianco della bottiglia d’olio, la disperazione tra le camicie nel cassetto, la tristezza tra i libri sulla mensola. E anche la morte della persona che amiamo, la morte che esaurisce le lacrime e i pensieri, l’evento che sembra interrompere il tempo, cancellare ogni domani, azzerare il futuro, quella morte che sembra la nostra morte, s’impoverisce, anche quella diventa una maniglia cigolante, il pomo di un appendiabiti, un calzino spaiato, una stella cadente vista all’ultimo momento. Ci si abitua a tutto, anche alla morte».

Una Spoon River dei vivi, dunque. Questa è la prima cosa che viene da pensare inoltrandosi nella lettura di Malinverno, il nuovo, bellissimo, romanzo di Domenico Dara, pubblicato a fine agosto da Feltrinelli. Un romanzo che è in realtà, per certi versi, un metaromanzo, in quanto fin dalle prime pagine vi si respira l’afflato della grande letteratura di ogni epoca e luogo, quella poesia imperitura che le parole dei grandi classici tramandano da secoli.

Timpamara, nuova immaginaria incarnazione romanzesca della Girifalco tanto cara all’autore, è un paese in cui i libri sono, anche letteralmente, nell’aria. Accade da quando, tanti anni addietro, vi fu installata la più antica cartiera della regione, alla quale si aggiunse, poco dopo, anche il maceratoio. Fu così che qualche operaio prima di gettare le pagine nell’acqua delle vasche, iniziò a darvi un’occhiata e poi, magari, a portarsele a casa. Prima pagine sparse, poi fascicoli e capitoli, infine interi libri; finché gli operai presero l’abitudine, la sera, dopo cena, di leggere e di far leggere in famiglia quelle carte, «spargendo come untori il morbo della lettura». E quando non erano gli operai a diffondere le parole dei libri, ci pensava il vento, cosicché stormi di romanzi volavano e si diffondevano in ogni angolo del paese. Non sorprende dunque se gli abitanti di Timpamara, infestati dal potere affabulatorio delle grandi storie che leggevano, iniziarono a dare ai figli i nomi di personaggi letterari e di scrittori. E fu tutto un fiorire di Victorùgo, «a tal modo scritto e pronunciato», e di Marselprù, Verter, Ortìs, Gargantuà e Pantagruèl, e di Otello, Desdemona, Armida e Valchiria. Risulta pertanto del tutto normale che il protagonista di questa storia si chiami Astolfo Malinverno, nome dovuto alla passione materna per il poema cavalleresco dell’Ariosto e per quel cavaliere che aveva osato andarsene fin sulla luna a recuperare il senno smarrito di Orlando.

Astolfo, nato zoppo, «a causa di uno sbilanciamento corporeo che era segno fisico dei tempi squilibrati che il mondo viveva e della cecità di Natura che, dispensando nella stessa portata Vita e Morte, talvolta difetta nella scelta», è il bibliotecario di Timpamara, attività a cui si dedica con passione e che rispecchia il suo carattere sognatore e visionario:

«Fosse per me ci abiterei, tra i libri: attraversata la porta della biblioteca mi sembra già di non zoppicare più, non è vero ma io lo sento, come se lì dentro non esistessero uomini claudicanti o piè veloci, distanze da percorrere o tempi da rispettare ma tutto si agguagliasse nella parola. È più di un rifugio per me: una tana, la mia camera amniotica. Qui dentro mi sento meno solo, e io la so misurare la solitudine».

La tranquilla routine quotidiana di Astolfo viene turbata il giorno in cui il messo comunale gli annuncia un nuovo incarico: il pomeriggio continuerà a svolgere la mansione di bibliotecario, ma la mattina sarà il custode del cimitero. Inizialmente timoroso che il nuovo incarico venga a stravolgere la regolarità certosina della sua vita, Astolfo accetta senza alcun entusiasmo ma ben presto instaura tra le due attività un rapporto osmotico, complice anche una misteriosa lapide senza nome e senza date: solo la fotografia di una donna dagli occhi bellissimi e dallo sguardo franco. Astolfo rimane affascinato da quel volto e lo associa a quello a lui caro della sua eroina letteraria:

«Sentì provenire da quell’immagine come un’aria di tristezza autunnale, di mondi che sfioriscono, la mestizia delle vite sciupate e dei sogni mancati. Uno scatto vecchio, di anni imprecisati, e tuttavia il volto era nitido, magnetico, e mi si fissò tanto nella mente che, quando ripresi la lettura, mi bastò immergermi nel grondante disincanto delle pagine per associare quasi naturalmente alle fattezze della sconosciuta quelle dell’eroina di Flaubert. Da quel momento, Madame Bovary ebbe per me il volto di quella foto, l’anima affine d’un essere umano nato per il cielo ma dannato alla terra, zoppa nell’animo come io nel corpo.

E le diedi così per sempre il nome a me caro, Emma Rouault, sepolta nel cimitero di Timpamara».

 

La fascinazione letteraria e la trasfigurazione romanzesca degli eventi sono una peculiarità di Astolfo che riempie la solitudine e la mestizia della sua vita popolandola di personaggi letterari. Il romanzo di Flaubert è in tal senso uno dei punti di riferimento fondamentali, è lo stesso Astolfo a dircelo:

«Questa lettura tornava nella mia vita ogni volta che avevo bisogno di consolazione, quando avvertivo cioè la necessità di annacquare e disperdere la mia tristezza nella tristezza del mondo e sentirmi così parte dell’umanità illusa e dolente».

Altro imprescindibile punto di riferimento romanzesco non può che essere il Don Chisciotte di Cervantes. Emma e l’hidalgo. Le due icone assurte a simbolo della diversità di Astolfo che ha scelto di fare della «vita interiore […] il recinto della sua esistenza». E che riconosce consapevolmente come la propria diversità consista «nell’aver confuso ciò che il resto degli uomini sa ben separare», proprio come i suoi due eroi letterari che «tentarono di imporre il loro tempo al tempo del mondo»: «due esseri simboli di quell’umanità colpevole di sognare troppo e di pensare che sia sogno, la vita».

Animato da una fervida immaginazione, Astolfo riscrive il finale dei suoi romanzi preferiti, quando questi non si concludono con la morte del protagonista (dettandone poi, per telefono, il necrologio, al giornale locale): unica cosa, la morte, in grado di dare all’esistenza un senso di compiutezza. Una posizione che rievoca le famose parole di Pirandello secondo il quale «la vita non conclude». La morte, invece, almeno per Astolfo Malinverno, evidentemente sì. Quella morte con la quale il nostro protagonista ha un’antica consuetudine, risalente alla primissima infanzia, lui, forse unica persona al mondo, a poter contemplare la propria immagine in una lapide. Sua è infatti la fotografia che campeggia sul marmo funebre di Notturno, il fratellino gemello nato morto e seppellito senza che gli venisse scattata una foto, per cui si sopperì alla mancanza usandone una dello stesso Astolfo.

In questa continua osmosi tra l’attività di bibliotecario e quella di guardiano del cimitero, Astolfo s’inventa anche il cimitero dei libri: un quadrato di terra, entro il perimetro del camposanto, nel quale sotterra i libri attaccati dalla muffa, rovinati, e ormai inservibili.

Ma come il già citato Pirandello, nell’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in appendice al suo Mattia Pascal, metteva in guardia su come la realtà a volte possa, per inverosimiglianza  e trovate stupefacenti, superare la più vivida immaginazione, così anche Astolfo si troverà a vivere una storia che neanche lui avrebbe mai saputo immaginare. Tutto inizia quando fa la sua comparsa nel cimitero una giovane donna vestita di nero, somigliantissima alla defunta della tomba senza nome. Attratto dal mistero di queste due donne, dal loro sconosciuto legame e dalla ignota e probabilmente dolorosa storia che le riguarda, il bibliotecario inizia un’indagine che si dipana per pagine e pagine, tra colpi di scena e momenti di grande sensibilità e commozione, portandolo a vivere un’esperienza che lo tocca nel profondo e cambia per sempre la sua vita.

Malinverno è un romanzo sulla vita e sulla morte, sul loro indissolubile legame, una riflessione sul destino e sull’amore (dal quello filiale a quello tra uomo e donna) che qui è spesso amore vissuto nel ricordo, nella memoria, nella nostalgia del tempo passato, nella malinconica consapevolezza che tutto è destinato a finire ma che niente muore senza lasciare una traccia indelebile nell’esistenza di chi rimane. Astolfo sa raccontare, e, come chiunque abbia il talento dell’affabulazione, sa ascoltare, e di storie ne ascolta tante, a volte bizzarre, a volte struggenti, a volte paradossali: tanto surreali da sembrare incredibili o così ironiche da strappare un sorriso, ma sempre, tutte, profondamente umane.

Astolfo ha il dono della compassione, la capacità di sentire empaticamente la sofferenza altrui, e si prodiga, per quanto è in suo potere, di alleviarla. Nel fare questo arriva a modificare in modo apparentemente stravagante, il regolamento cimiteriale, venendo incontro alle singolari richieste di alcuni suoi concittadini. Accade per la gamba incancrenita dal diabete e amputata del vecchio Brognaturo, il quale chiede espressamente che l’arto venga «sepolto a sé stante, fin quando morto l’intero altro corpo, cioè sé stesso, quel pezzo sia insieme a lui seppellito ad aeternum».

Accade per il bastardino bianco di Marcantonio Parghelia, maestro d’ascia in pensione, vedovo e solo, che ha in quella bestiola, amata come un figlio e che porta il suo stesso nome, l’unica compagnia. Quando il cagnolino muore, Parghelia chiede ad Astolfo di trovargli un posto entro le mura del cimitero, «un angolo appartato», perché, sostiene, «Marcantonio non era un cane, era un cristiano a cui mancava solo la parola», e pertanto come un cristiano merita di essere seppellito.

E accade per Margherita, che rimasta “vedova” del suo sposo alla soglia delle nozze, supplica Astolfo di unirla in matrimonio al suo Fiodoro, dopo che il prete del paese, quel don Pallagorio che ogni domenica pontifica «sulla vita eterna, sulla morte della carne e la resurrezione dell’anima», è rimasto sordo alla sua preghiera e l’ha congedata come fosse una poveretta impazzita di dolore per la perdita dell’amato. Ma non è sordo Astolfo a un simile appello, e, dinanzi a un amore che osa sfidare la morte e i suoi limiti ineluttabili,  si fa officiante di una cerimonia degna di un film di Tim Burton: sepolcrale e poetica, gotica e commovente (ché, se questo romanzo dovesse mai avere una trasposizione cinematografica, proprio il visionario regista di Edward mani di forbice e de Il mistero di Sleepy Hollow ne sarebbe l’artefice perfetto, tanto più che la stessa immagine di copertina ricorda la sua Sposa cadavere).

Né poteva mancare, in una storia come questa, la figura di uno psicopompo, qui incarnato dal cane Kachanka, apparso un giorno dal nulla e che misteriosamente presenzia ad ogni funerale, scortando poi il feretro dalla chiesa al cimitero.

Tanti sarebbero i personaggi degni di essere menzionati in questa storia che, pur avendo come protagonista indiscusso Astolfo Malinverno, sa aprirsi a una narrazione corale che reca in sé qualcosa della magia senza tempo dei racconti degli aedi e, come alcuni hanno notato, sembra evocare taluni aspetti del realismo magico.

Tra le tante figure presenti nel libro potremmo ricordare quella di Isaia Caramante, che si aggira fra le tombe munito di registratore e cuffie per registrare le voci dei morti, e quella di Elea Maierà, il Resuscitato, come tutti lo chiamavano da quando si era improvvisamente risvegliato nella bara in cui familiari e conoscenti lo stavano vegliando in attesa del funerale, e che da allora, ogni mattina alle nove, varcava il cancello del cimitero e «si sedeva accanto alla buca che gli avevano scavato la mattina del giorno in cui era morto, e restava fino all’ora di pranzo». Elea «aveva pagato per comprarsi quella piccola metratura che era il suo unico avere, […] e voleva lasciarla sempre a quel modo, aperta…». Muto e solitario, Maierà dopo il suo ritorno alla vita, «per quasi un anno parlò una lingua diversa, e ci volle un po’ di tempo per capire che pronunciava parole all’incontrario, portatore di un punto di vista rovesciato sul mondo, lui che era un vivo morto o un morto vivo, comprendeva il linguaggio lineare degli uomini ma lo restituiva come allo specchio, ribaltato, paladino di un sistema capovolto».

Ma numerosi altri sono i personaggi singolari che si incontrano nelle pagine di questo romanzo, personaggi di cui è bene tacere per non rovinare al lettore il piacere della scoperta. Tuttavia di uno non possiamo esimerci dal parlare, perché, pur essendo morto da tanti anni e presente, dunque, solo nel ricordo affettuoso di Astolfo, esso è fondamentale per comprendere la pervasiva inclinazione del protagonista verso le storie e l’arte di raccontare. Il personaggio in questione è quello di Catena Seminara, la madre di Astolfo Malinverno. Di tale debito è consapevole egli stesso che ne rievoca la figura in questi termini:

«Mia madre viveva delle storie che leggeva, che se avesse avuto l’istruzione, come diceva, ne avrebbe scritte anche lei, ma poiché non sapeva, fin da giovane si scriveva i libri nella testa, che i personaggi ce li aveva davanti, tutti i paesani che incontrava e a cui attaccava addosso una storia segreta, ed era una bella vita, che così anche Catena era come se vivesse dentro un libro. Siamo fatti di pensieri più che di carne, e quei pensieri ci vengono distillati nel sangue dalle idee di chi ci ha voluti, che io non ho ereditato solo il colore dei capelli o l’arrendevolezza degli sguardi ma anche le illusioni, i sogni, e le passioni per i racconti.

Di ogni persona conosciuta e sconosciuta, di ogni uomo o donna che incrociava, di ogni essere di cui si parlava, di ogni vicino di casa, di ogni cuore che batteva, perfino degli animali per strada o di ogni oggetto sfiorato, della pietra raccolta, della busta di latte abbandonata, del mondo intero mia madre conosceva e raccontava la storia. […]

Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie».

Domenico Dara ci consegna un romanzo sul potere delle parole e della narrazione, sul pervasivo incanto che esse sanno creare, un romanzo che, dunque, è anche una riflessione sulla capacità della Parola di plasmare e animare il mondo, come se essa, la Parola, fosse generatrice di realtà. D’altra parte, «ogni vero artista crea la realtà nominandola» scrive un altro grande evocatore di mondi attraverso il potere delle parole, che risponde al nome di Michele Mari. E lo fa in un racconto, Grecia-Argentina, contenuto in Fantasmagonia, in cui Omero e Borges, i due grandi ciechi della letteratura mondiale, assistono a una finale di calcio anch’essa scaturita dalla lanterna magica dell’affabulazione letteraria. Né occorre sottolineare come la citazione borgesiana ripresa da Mari rimandi alla creazione del mondo come è descritta nel libro della Genesi: Dio crea il mondo e tutte le cose che lo popolano mediante un comando verbale. Egli nomina gli elementi del cosmo mentre li crea, secondo l’antico concetto di ascendenza ebraica in base al quale le cose non esistono veramente fino a quando non sono nominate. Le analogie con Mari non finiscono qui, avendo egli dedicato al grande tema della fascinazione affabulatoria esercitata dai racconti il suo stupendo romanzo La stiva e l’abisso. Mari è autore al quale ci viene da pensare anche in relazione all’abitudine di Astolfo di cambiare il finale dei libri. Michele Mari, infatti, ha pubblicato un’intera raccolta di racconti – Fantasmagonia – nella quale si diverte a consegnarci una versione apocrifa della letteratura, di quella letteratura che egli stesso ha maggiormente amato e assimilato al punto da sentirsi autorizzato a fornircene una versione alternativa, non meno potente e ammaliante di quella ufficiale.

Domenico Dara ha saputo ritagliarsi un posto nell’ambito del panorama letterario contemporaneo attraverso la specificità della lingua – in questo caso un italiano lineare ma non privo di ricercatezze, che prende il posto del dialetto presente nei primi due romanzi – ma anche di un filone tematico che fa dell’indagine sul senso della vita (e della morte, intesa come «la più grande invenzione della vita», per usare la celebre definizione di Steve Jobs), sull’importanza del racconto e della memoria e sui grandi temi universali del destino, del caso e dell’amore, il nucleo essenziale del suo narrare. Il tutto attraverso una scrittura che sembra sospendere il tempo e, così facendo, accomunare passato e presente in un continuum cronologico che abbraccia e affratella gli uomini di ieri e di oggi.

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1 commento

  1. Non so perché, ma la mia mente è subito volata a “Una solitudine troppo rumorosa” di Bohumil Hrabal….

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