Su «Campi d’ostinato amore» di Umberto Piersanti

di Alberto Bertoni

Capita, nella storia d’un poeta di alto profilo, che un unico libro – mentre la sua carriera compositiva viene compiendosi – ne condensi temi, implicazioni storico-letterarie e Leitmotive formali. È ciò che accade all’urbinate Umberto Piersanti col suo recente Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020), ove egli riesce nel delicato e difficile compito di coordinare e integrare il paesaggio per lui consueto delle Cesane che circondano Urbino (e che sono sfondo a suo tempo prescelto anche da un poeta davvero universale come Giovanni Pascoli) con la figura dominante degli anni più recenti della sua opera, il figlio gravemente autistico Jacopo: al di là della sua concreta biografia, uno dei personaggi più potenti e struggenti, rappresentato nel dialogo ininterrotto e drammatico con l’Io/Padre che con lui interloquisce, della poesia italiana ed europea di XXI secolo.

Entro la fisionomia profonda del libro agiscono in sintonia e sincronia due elementi davvero centrali. Tale interazione e integrazione assicura al dettato poetico una coesione che non è solo frutto di un’espertissima tecnica letteraria, ma che si spinge piuttosto fino a valicare il crinale antropologico di un’esperienza vissuta a nome e per conto di tutti noi. Infatti, non è per nulla automatico creare un rapporto davvero integro – proprio a livello narrativo, poiché Piersanti non dimentica mai di essere anche un narratore di classe – fra l’archeologia sentimentale e conoscitiva di un territorio; e il caso umano troppo umano di una sregolatezza dei sensi e degli atteggiamenti che svela di continuo l’energia del reciproco, inesausto e per l’appunto ostinato amore che intercorre fra le due personaeattorno alle quali si dipana la struttura profondamente drammaturgica (prima ancora che dialogica) del testo. Questi due elementi coinvolgono da un lato il Tempo e dall’altro l’andamento metrico-prosodico che costituisce il basso continuo dell’intero libro.

Il Tempo che diventa Luogo in Campi d’ostinato amore, ove agisce sistematicamente quell’immaginazione acustica tanto cara al Leopardi, corregionale dall’autore amatissimo, rimanda a una longue durée che la poesia italiana contemporanea ha troppo spesso trascurato. In troppe circostanze, le ha infatti preferito un’aneddotica dell’istantaneo, fosse questa l’epifania di ermetica o “religiosa” memoria (da me personalmente mai rimpianta); oppure la cronaca polverizzata di un’autobiografia frammentaria del quotidiano indifferentemente proprio o altrui. Piersanti, invece, fin dal primo, serratissimo capitolo, Il passato è una terra remota, gioca sull’involontarietà proustiana di una memoria fin che si vuole intermittente, ma che qui si salda costantemente al destino bellico di una famiglia e di una gens innocenti e a fatica sopravviventi, delle quali il Narratore  bambino è assieme la sensibile antenna percettiva e il cronista minuzioso, nell’intreccio quotidiano di faticata vita vissuta (lineare) e di avvicendarsi delle stagioni (circolare).

In questa chiave, la novità del libro, rispetto a prove precedenti dello stesso autore, è la collocazione della figura di Jacopo, centrale nel secondo capitolo a lui stesso intitolato, in un quadro appunto antropologico di gens, molto al di fuori e al di là di una vicenda intimamente personale. Questo trasferimento (o metamorfosi) ne estende la funzione “umana” da accidente esperienziale a paradigma cognitivo, introducendo nel dettato il magico e il favoloso, il terribile e l’alieno, nonché restituendo all’idea stessa di comunità un principio attivo di solidarietà e di comprensione al di fuori della norma, oltre che di “santità” dell’esistenza quotidiana, di coralità e di sortilegio. Senza mai dimenticare, e piuttosto riconoscendoli come fatti di natura, il doloroso e il negativo di una simile oltranza, secondo quanto afferma la bellissima poesia eponima: “ma il tuo male/ figlio delicato,/ quel pianto che non sai/ se riso, stridulo/ che la gola t’afferra/ più d’ogni artiglio,/ questa bella famiglia/ d’erbe e animali/ fa cupa/ e senza senso/ e dolorosa”.

Dalla citazione affiora già quello che è l’altro perno, di natura formale, che – assieme alla concezione di quel Tempo Grande pluridimensionale e multidirezionale cui s’è appena cercato di far riferimento – conferisce solidità d’insieme e compattezza intonativa ai Campi d’ostinato amore. Mi riferisco alla conversione di Piersanti a una metrica breve, incentrata su una dominante di quinari e settenari. Si sa che il verso libero breve è componente essenziale (giustapponendosi a quello “lungo” che tende all’esametro greco-latino o al versetto biblico) della liberazione formale novecentesca: qui funziona tanto da strumento di drammatizzazione del ritmo, che in certe parti diventa singulto e traccia viva di apnea; quanto da suddivisione sincopata del recitativo, come se il ritmo della scrittura faticasse a tenere il passo di quello del pensiero. Un punto eccellente di sintesi fra le due pulsioni lo esprime la poesia – per molti altri versi esemplare – che s’intitola L’età breve: “[…] come il tuo sguardo/ l’età breve/ trascorre/ in un cielo chiaro/ e senza tempo”.

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