Dialogo assorto

di Antonia Santopietro

Conoscere se stessi e gli altri
è il modo più intenso di essere responsabili.
Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza: obbligandoci a valutare le conseguenze di parole, sguardi o silenzi che la fanno nascere o morire.

Eugenio Borgna

Iris, tieni la testa dritta e sostieni lo  sguardo.
Hai ragione. Non me ne accorgo.
 

Ha valore oggi ogni sua parola, anche quelle mai dette, sono intollerabili le immagini in bianco e nero che fanno pendant col pianoforte che suonava di mercoledì sera.

  Iris, dovremo far ridipingere la balaustra, ne convieni?
  Ne convengo.

Non avevo davvero saputo sostenere lo sguardo.
Le parole, a parer mio, hanno una loro predisposizione: ai sentimenti, al calcolo, alla riuscita. Le sue ambivano al rigore formale. Alla bellezza del suono, all’equilibrio della cornice su una parete damascata. Una precisione che enfatizzava con lenti movimenti della mano destra aperta a forma di lama.
Non bisogna aver paura delle parole, o meglio preoccuparsi del loro tempo, e neppure della loro vastità espressiva che può intimorirci, renderci insicuri diceva, e continuava non è affatto utile considerare un lemma arcaico, aulico o contemporaneo, la parola ha un tempo solo nell’istante in cui è pronunciata per la prima volta, poi diventa eterna eppure nuova, uguale a sé stessa.

La passione per le minuzie riguardava ogni aspetto delle nostre vite. La mia era disegnata come un’ectasia presente alla sua.
Era una relazione circolare, ma non simbiotica. Parte del mio pensiero confluiva nel suo per poi uscirne rinsaldato, inquadrato, rielaborato sulla tenuta d’insieme. Ogni fibrillazione fungeva da diapason. Le nostre esistenze fluttuavano magmatiche. Nulla mai era fuori posto, anzi ogni cosa sapeva essere esattamente al proprio posto.

Non abbiamo avuto figli, per scelta, per la gelosia di spazi che sembravano perfetti così. Credo che lui mi avesse adottata in senso paterno oltre che sposata. Facevamo parte del genere di persone che si sentivano legati dall’obbligo di un’amicizia sul limine di uno stato pseudo- amoroso.

Sei un fiore delicato, intelligente e sensibile, ti conosco da sempre, vuoi sposarmi?
Sì.

Questa condizione iniziale bianca del sentimento, oserei dire naïve, si rivelò un grande vantaggio. Nessuna attesa o pretesa, mettevano il rapporto a parte dei punti flessi della passione ma pure al riparo dalle derive di quest’ultima.

Trascorsero anni che oggi, entropicamente, posso definire in statico divenire. Affermo ciò perché la felicità è indefinibile hic et nunc, ma è sicuramente un sentimento che ha una sua affidabilità visto al passato. Possiamo o non possiamo considerare espressione di felicità precipuamente quanto abbiamo già vissuto.

Un flusso posto sul nastro di Möbius:
“la superficie può essere percorsa totalmente con continuità sia sulla faccia esterna sia su quella interna senza attraversare né il bordo né la superficie”, recita il dizionario.

In tale sintesi includo molti eventi che non riguardavano affatto il rapporto intimo con mio marito, quanto invece quella circolarità di dialoghi e consuetudini a cui accennavo.
Questa alternanza di discorsi e silenzio è una eredità d’affetti dei vivi, ricordalo sempre cara Iris.
Come dimenticarlo? Le stanze della tenuta sono custodi.

Un giorno di agosto al mattino, aprii lentamente la portafinestra del soggiorno. Speravo che il leggero cigolio, non addomesticato dai tentativi di accomodamento fatti negli anni, potesse essere meno acuto. E invece mi arrivò una sferzata di violino fin dentro le ossa.
Aveva piovuto. Il monito del grande ulivo al centro del terreno di fronte alla tenuta mi sembrava più imperativo del solito, da qualche secolo scolpito in una crosta di cielo sull’orizzonte. Il muretto a secco nella parte prossima al grande cancello si mostrava abbacinante. L’aria salmastra arrivava per gradi. Non subito, prima il profumo dei fichi poi quello dei gelsi poi l’odore della terra bagnata, poi dall’antico forno al termine della strada l’odore della legna bruciata.
Il giorno che si apriva così serafico quasi mi inquietò. Anzi, a dirla meglio, mi provocò una certa stizza. La spudoratezza della normalità che avoca a sé la saggezza tronfia. Eppure, ne ero certa, non avrei potuto notare colori, sfumature, se non fossi stata su quel nastro di Möbius da diverso tempo. Mi distolsi dalla posizione quasi immota che avevo tenuto sulla soglia, pensando al caffè, e al suo rito. Attendevo quel momento per completare l’iter di una ispirazione che stavo inseguendo da qualche mese. L’idea per un libro, un loop ogni volta riavviato, una prefigurazione ininterrotta. Quel giorno, riuscii a riavvolgere il filo una mezza dozzina di volte. Intanto mi portò il caffè.

Buongiorno Iris, dormito bene vero?
Vero! Anche tu vero? grazie per il caffè.
 

A pensarci, non avevo neppure mai imparato a dormire da sola. Eravamo tanti in casa prima di trasferirmi alla tenuta e non vi era altra condizione possibile. Fino a che questa mi divenne necessaria. La dimensione di una solitudine vissuta cercata e voluta in mezzo a molti.

Pronunciava con voce appesantita, arrochita e sbiadita, le domande del mattino: latte o senza? Zucchero? Del resto la reiterazione delle azioni quotidiane è il migliore anestetico che si conosca. A volte, ho avuto la netta sensazione che se avessi cambiato la risposta non sarebbe cambiato l’atto conseguente.
Il suo andamento flemmatico quasi indolente era commovente e allo stesso modo rassicurante, ma non mi ha mai annoiato, no. Dopotutto lo praticava in maggior parte a suo svantaggio. La misura è un’arte ma non quando si abbandona del tutto l’audacia dell’incertezza. Ha sempre ritenuto, infatti, che questa fosse un lusso eticamente condannabile. Misurare il futuro potrebbe essere un ossimoro gradevole soltanto in alcune occasioni.
Avevo imparato a lasciarlo fare e quando mi ammalavo queste sue doti affatto epicuree coadiuvavano il beneficio dei medicamenti.

Quel giorno il caffè arrivò già zuccherato e imbiancato dalla schiuma di latte. Nulla, un piccolo particolare fuori posto, a cui tuttavia si aggiunse che notai una goccia di sudore sulla fronte.
Non sudava mai da nessuna parte del corpo. Ciò che appartiene agli eventi noti fa più clamore quando deroga.
Notai anche che non prese posto sotto il pergolato per la colazione. E allo stesso tempo pensai che questa scena potesse entrare di diritto nell’alveo del mio romanzo. Ogni deviazione dal reale faceva apparire in me affascinanti tracce di finzione.

Era l’estate del 1990. Sono passati oltre trent’anni, quella leggera discrasia del quotidiano era prodromo di un cambiamento radicale.

Il caffè non aveva quasi mai un effetto tonificante su di me, anzi, a volte giusto il contrario. Mi ritrovai, forse complice il caldo ancora torrido, a riaprire gli occhi verso l’ora di pranzo, seduta sulla poltrona del soggiorno, dove mi ero appisolata con in mano il taccuino e la penna scivolata sul pavimento.

Il silenzio mi insospettì: in genere a quell’ora vi erano movimenti e suoni, anche questi noti, la macchina da scrivere, rigorosamente e orgogliosamente resistente all’invadenza della nuova tecnologia tenuta a distanza, su cui picchiettava appunti superflui – liste di approvvigionamento per lo più –, e poi le voci degli operai nella tenuta o quelle di qualche passante che percorreva la strada lì davanti, per arrivare al paese, il suono delle campane dalla chiesetta di San Rocco.

Ripresi il taccuino, la penna, e cercai l’ultimo pensiero avuto prima del sonno, per terminare la frase iniziata, ma non lo ritrovai.

Quel silenzio aveva un suo altare sacramentale. Avrebbe preso il posto della consuetudine, come un masso granitico deciso a restare per molto tempo.
Così fu.
Ero rimasta sola davvero, senza le parole, senza la musica al pianoforte del mercoledì sera. Senza le domande retoriche.
Tutto era scritto in quella goccia di sudore, anche il prezzo di quell’istante. E l’infarto che lo colse. Ancora ora mi chiedo perché non usavamo fare colazione insieme sotto il pergolato.

Per gli anni successivi, mi fu facile capire che il mio essere un’ombra avesse a che fare con la presenza di una statua di magma che distribuiva luce armonica intorno a me, un’entità buona che mi lasciava tenere un taccuino in mano mentre bevevo da sola un caffè senza zucchero o con molto latte.
Dovetti convenire, inoltre, che aveva ragione, la balaustra andava dipinta ogni anno e il pranzo era comodo prepararselo. Che dormire da sola sarebbe stato un esercizio di calma non impossibile.
Solo una cosa non ho più fatto, dopo la morte di Fausto, e per tutto questo tempo: uscire dalla tenuta.

A poche ore dal funerale, due giorni dopo quella mattina di agosto, congedati i parenti, mi venne il desiderio di chiudere tutti gli scuri e prendere pace anche io per sempre. Non potevo sapere che mi sarebbe mancato così tanto. Non potevo perché non ci avevo mai pensato. Non avevo mai avuto alcuna necessità di rappresentarmi un dopo, il presente era bastante così, chiaro e definito in quell’unico schema.
Eppure è plausibile avvertire il vuoto, adesso come nei giorni che seguirono, chiusa com’ero nella stanza illuminata dalla sola traettoria del sole che passava ribellandosi al limite. Anche la bellezza dei suoi modi, tratto distintivo di una galanteria fuori tempo, assunse il pregio di aulico ricordo. Purtroppo i colori belli scomparvero quasi subito. E tutto quello che ci aveva riguardato si impose al quadro della mia memoria solo in bianco e nero.

Tuttavia, e nonostante questo stato di cose ormai più simile all’anedonia, seppi prendere in mano la situazione, il posto di Fausto al governo dell’azienda agricola, degli affari della tenuta, per ogni cosa pratica recuperai le sue parole capitalizzandole, e soprattutto dando loro un significato concreto, fattivo.
Sapevo, per averlo introiettato in ore di assorto dialogo, che alcuni metodi erano meglio di altri nelle colture degli ortaggi, nella semina tardiva e nell’osservazione del cielo.

Tutto è avvenuto in questi lunghi anni all’interno di un grande castello orizzontale i cui spazi bianchi hanno cristallizzato il passato su una tela linda.
Un immobile attivismo, lo definirei, il mio, e se prima assomigliavo più a una asceta bambina, una lilith di confine, una sposa viziata, una scrittrice ferma all’esercizio del foglio, alla soglia dei settant’anni sento la fatica di una battaglia vinta sulla carta. Ho vissuto nella cella dorata ascoltando Rachmaninoff.
Di recente ho imparato a sostenere lo sguardo, mentre tra le mani stringo sempre il mio taccuino: non ho paura delle parole.

E con la distanza della retrospettiva posso assolutamente affermare, di essere sempre stata immensamente felice.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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