Nel cervello di mia madre c’è una costellazione
di Nona Fernández
Pubblichiamo un estratto da Voyager, dell’autrice cilena Nona Fernández, Gran vía, da oggi in libreria nella traduzione di Carlo Alberto Montalto.
→ Accompagnando la madre a un esame neurologico, Nona Fernández nota come l’attività cerebrale della donna, proiettata sul monitor di una sala d’ospedale, abbia molte somiglianze con le immagini astronomiche che siamo tutti abituati a vedere e sia simile al più complesso intrico stellare.
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Nel monitor di una sala d’ospedale osservo l’attività cerebrale di mia madre. Lei è sdraiata su un lettino, ha la testa piena di elettrodi e gli occhi serrati. Ai vari stimoli che il medico le propone, il suo cervello mette in moto delle scariche elettriche. Una rete di centinaia di milioni di neuroni, intrecciati ad altri milioni di assoni e dendriti che si scambiano messaggi attraverso un sistema connettivo di molteplici trasmettitori, è ciò che si dà il caso io stia vedendo riprodotto sullo schermo. La complessità di quel che accade lì dentro quando mia madre inspira, espira o viene illuminata dal lieve sfarfallio di una luce che ha sopra le palpebre è indescrivibile. E se le viene proposta una semplice attività di rilassamento, come pensare a un momento felice della sua vita, ciò che avviene nel suo cervello è un vero e proprio spettacolo. Mentre mia madre rievoca un ricordo felice che non esprime a parole, un gruppo di neuroni si accende. In precedenza il medico ci aveva mostrato nel suo studio fotografie di neuroni in piena attività. Ciò che vedo sul monitor non riproduce allo stesso modo quei bagliori elettrici, eppure richiama comunque un paesaggio astrale. La fantasia di un coro di stelle che luccicano fiocamente per tranquillizzare mia madre dal suo cervello, per stabilizzare il suo nervosismo durante l’esame clinico. Una rete che, intuisco, starà mettendo insieme immagini sensoriali familiari e affettive. Odori, sapori, colori, consistenze, temperature, emozioni. Un circuito di neuroni che ricorda il più complesso intrico stellare.
Nel cervello di mia madre c’è un gruppo di stelle che formano una costellazione il cui nome è quello del ricordo affettivo che le accende.
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L’ultima volta che ho visto una costellazione in modo piuttosto nitido è stato anni fa, a nord, lontano dal cielo inquinato di Santiago. Ho visto l’Orsa Minore, Orione con le sue Tre Marie, la Croce del Sud, che nei racconti della mia infanzia indicava la strada verso casa. Rievoco questo ricordo e penso al rito che intanto starà avvenendo nella mia testa con ogni immagine pertinente. Una notte senza luna. Il freddo del deserto di Atacama che s’infila nelle maniche del giubbotto. Un po’ di sonnolenza, di stanchezza accumulata. Un lieve dolore al collo per dover guardare il cielo a lungo. Un astronomo che indica con un laser diverse costellazioni. Mentre lo fa, spiega a un gruppo di turisti e a me che tutte le luci lontane che vediamo brillare sopra le nostre teste provengono dal passato. In base alla distanza della stella che la emette, si può parlare perfino di miliardi di anni. Riflessi di stelle forse morte o scomparse. La notizia di questa eventualità non ci è ancora giunta e ciò che vediamo è il bagliore di una vita che potrebbe essersi estinta a nostra insaputa. Fasci di luce che fissano il passato davanti al nostro sguardo, come le istantanee di famiglia che conserviamo in un album fotografico o le figure contenute nel caleidoscopio della nostra memoria.
Mentre osservavamo il firmamento a bocca aperta, nel corso di quel vero e proprio rituale paleolitico, ricordai una delirante teoria lanciata da mia madre, una volta, quando ero bambina. Mi pare sia stato nella casa di Barrancas, al porto di San Antonio, vicino al mare, anche lì le stelle si vedevano a meraviglia. Una notte d’estate, mentre seduta in cortile fumava una sigaretta, mia madre disse che lassù, nel cielo notturno, c’erano persone minuscole che cercavano di comunicare in codice con noi attraverso degli specchi. Una specie di morse luminoso che inviava riflessi a mo’ di messaggi. Non ricordo perché lo disse. Suppongo fosse la risposta improvvisata a qualche mia domanda. Ricordo bene, invece, che presi per vero che i messaggi inviati dal cielo da quelle persone minuscole servissero a salutare e dimostrare che si trovavano lassù, nonostante la distanza e l’oscurità. Ehi, siamo qui, siamo il popolo minuscolo, non dimenticateci. I loro saluti non si spegnevano mai, c’erano sempre, anche di giorno, quando non riuscivamo a vederli. Non aveva importanza se non guardavamo verso l’alto, non aveva importanza se stavamo al chiuso delle nostre case in città, avvolti dall’inquinamento, abbagliati da luci al neon e cartelli pubblicitari, indifferenti a ciò che accadeva sopra le nostre teste; i saluti di quelle persone erano e sarebbero stati lì ogni notte delle nostre vite, a illuminarci. Luci del passato stabilitesi nel nostro presente per schiarire come un faro la temibile oscurità.
Una teoria vecchia e insensata, eppure quando me ne ricordai, in quella fredda notte nel deserto, una vaga sensazione di pace s’impossessò di me. Era come una ninna nanna, come il dolce canto delle nonne che aiuta a conciliare il sonno, come il ricordo che mia madre rievoca durante l’esame clinico per cercare di tranquillizzarsi. Una segreta volontà di ritorno all’utero materno soddisfatta in quella passeggiata notturna. Lo strano presentimento di una realtà duratura, misteriosa, protettiva, che si palesava attraverso ciascuno di quegli astri che mi parlavano con la loro luce in arrivo da un altro tempo. Ehi, siamo qui, non dimenticarci.
(…)
Nel cervello di mia madre c’è un gruppo di stelle che formano una costellazione il cui nome è quello del ricordo affettivo che le accende.
Ma quale sarà questo ricordo?
Di quale pezzo del suo specchio rotto stiamo parlando?
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Epilessia, ecco cosa provoca le disconnessioni di mia madre. Dopo questo e molti altri esami, il neurologo pronuncia la diagnosi finale. Le crisi sono scatenate da un’eccessiva attività elettrica all’interno di un circuito neuronale.
Immagino qualcosa come una fuga di energia, un corto circuito cerebrale, un black-out momentaneo, un’interruzione delle trasmissioni che dura il tempo in cui mia madre rimane priva di sensi. Poi l’attività cerebrale si riavvia e lei riprende a funzionare. È come una casa quando scatta il quadro elettrico e tutto si arresta. Radiosveglie, televisori, stereo, frigoriferi, internet, un universo in sospensione, fermo e silenzioso, finché qualcuno non alza la levetta giusta, l’allarme di casa suona, il sistema si resetta e tutto si rimette in moto. Come se l’interruzione dell’elettricità non avesse paralizzato nulla. Come se in quella parentesi spaziotemporale non fosse andato perduto alcun momento di vita. Una mano, un orecchio, se non addirittura l’ombelico.
Usciamo dallo studio del neurologo e guardo mia madre con altri occhi. Ora so che sulle spalle porta il peso del cosmo intero. Le racconto cosa ho visto sul monitor assieme al dottore. Le parlo della somiglianza del suo cervello col firmamento. Dell’attività elettrica dei suoi neuroni, della luce del suo ricordo, della costellazione che si è accesa mentre lei lo rievocava, del riflesso luminoso del suo passato. Le domando qual è la scena felice che ho visto luccicare sul monitor, lei sorride e risponde di aver ricordato il momento della mia nascita.
*
La mia prima scena è una costellazione nel cervello di mia madre.
(Ehi, siamo il popolo minuscolo.)
Il punto zero del mio passato brilla nella sua testa.
(Siamo qui, non dimenticateci.)
La Croce del Sud che mi indica la strada verso casa.